PER ANTICHE STORIE

 

 

strade, leggende, sogni.

 

                                   

 

Io sono una nuvola rossa,

sono fatta di cielo

e canto tra i fiori, sui monti,

tra le vesti fiorite delle cime.

Il mio canto è come quello di un uccello

nascosto tra le rocce.

Piango al mattino

percorrendo il sentiero,

lo sguardo alle ultime stelle...

    

                    (Canto Kiowa)

 

 

                             STRADE

 

                      LUNGO IL FIUME

 

 

 

Gerusalemme era lontana e cantavano gli oceani mistiche romanze, mentre Corazzo viveva quel tempo senza freni, ora che anche il ricordo di Gioacchino sfumava e moriva nel cozzare sanguigno dei bronzi, nell’impeto dei cavalieri...Guido, nobile francese di Pontigny ferito dall’infuriare della tempesta mediterranea, su un relitto vagante nello Ionio mare, assieme al vecchio cistercense Pietro di Faenza e al temerario Carlo di Morimondo, tutti reduci dalle campagne bellicose di terra Santa, cavalieri del tempio  di ritorno verso le coste pugliesi, sbattuti dai venti marini sulle rive calabre, raccontavano alla maniera di Ulisse le loro gesta ai monaci di Corazzo. Erano giunti alle mura di quell’abbazia nella notte, dopo lungo cammino dal golfo di Squillace seguendo il fiume. Recavano, oltre alla propria vita e alla baldanza fiera dell’ordine cui appartenevano, misteriosi oggetti celati gelosamente. Le loro tuniche bianche sovrastate da una croce li rendevano simili ai bianchi coracensi, con cui in fondo condividevano l’origine, in quell’epoca di monacali fermenti e dinamismi.

I monaci di Corazzo li avevano accolti come fratelli , impazienti di ascoltare racconti della terra di Gesù. La spalla malconcia di Guido fu presto fasciata e il dolore lentamente venne lenito. Il vecchio Pietro, riconobbe a Corazzo le movenze liturgiche che aveva lasciato per difendere con le armi, assieme ai seguaci di Ugo di Pains, Gerusalemme dai pagani e Carlo narrava di spade e corazze senza pause.

 Il giorno tardava a finire, il sole pareva non aver voglia di baciare il monte Eremita e i frati di Corazzo ascoltavano frementi il suono delle parole dei Templari, partiti dal castello dei cavalieri sulla via di Gerusalemme, quel castello che era “un osso nella gola dell’Islam” per tornare in Francia e invece, per chissà quale disegno divino, trovatisi in quella solitaria abbazia persa in una stringata valle sulle rive del Corace. Cupidigia e idealismo fanatico li avevano mossi: una composizione fatale per produrre crudeltà senza limiti e ferocie che nulla avevano da spartire con l’insegnamento evangelico. Per giorni e giorni i racconti si susseguirono, finchè forte si fece l’amicizia dei cistercensi di Corazzo e dei tre difensori del santo sepolcro. Guido s’avviava verso la completa guarigione, Pietro e Carlo passavano molto tempo con i frati coracensi e talvolta s’inoltravano nei boschi con curiosità. Guido amava da solo discendere il fiume Corace e poi risalirlo dalle rive : gli piaceva il luccichio delle acque chiare e fresche e la dolcezza del cielo azzurro. Un bel giorno giunse a Corazzo Ubaldo di Reims, cistercense proveniente da Citeaux e passato da Casamari. Giunse per erudire i monaci di Corazzo sulle dispute con i Florensi del “traditore” Gioacchino. I tre templari pensarono che fosse venuto il momento di partire con Ubaldo verso nord, anche se a lui non l’avevano ancora detto.

E in questo senso si organizzarono. Guido volle ancora una volta abbracciare con lo sguardo l’argenteo Corace, ma non poteva immaginare quello che avrebbe veduto sopra un prato verdissimo e brillante: una ragazza distesa con un fascio di capelli neri sparsi tra l’erba.

- E’ più bella della luna sopra le porte di Gerusalemme -

 Pensò in un attimo.

E soffiò le parole che gli rimasero soffocate in gola:

 “ Dimmi qual è il tuo nome”

Ma la ragazza volò.

“il suo nome è felicità” Dissero i rami degli alberi e lui le andò dietro senza pensare, senza poter più pensare, per un’erta faticosa fino alle capanne di un villaggio sulla collina.

 Poi il silenzio avvolse l’aria come i lini d’oriente e un freddo dolcissimo calò con la penombra crepuscolare. E Guido parve svegliarsi da un sonno strano. Fece ritorno all’abbazia con un tremore sconosciuto ed era già notte. Il fiume al chiarore lunare luccicava come le stesse stelle del cielo e mormorava bisbigli inquietanti. Per un attimo gli sembrò che fosse color del sangue ed ebbe paura. Proprio lui: Guido, lo sterminatore d’infedeli! Si portò le dita sugli occhi e li sentì umidi, ma con un sospiro profondo s’avvicinò al ponte e guardò di nuovo l’acqua scorrere: era color dell’acciaio e stavolta sentì bisbigli più forti provenire dall'’altra riva. Pensò ai morti che aveva lasciato a seccare sui campi di battaglia e alla Santa Croce e si rinvigorì. Quel misto irrazionale di paura e orgoglio, di sensi immotivati di colpa e la coscienza di aver agito in Cristo, non furono messi a fuoco, rimasero in un limbo di rimozione perché all’improvviso due nere figure sgusciarono silenziose dall'’ombra e si avviarono verso le mura dell’abbazia.

” Ma chi sono questi due monaci vestiti di nero? Io non li ho mai visti nell’abbazia: sembrano Benedettini! Ma hanno qualcosa di irreale...” Pensò Guido.

  E la luna si celò e Guido non riuscì più con lo sguardo a seguire il loro cammino. E il portinaio che gli aprì disse di non aver visto nessuno, anzi gli suggerì di andare a dormire perché la sua coscienza cominciava a svegliarsi! Ma nell’ombra del chiostro intravide due figure curve, s’avvicinò e sentì quasi in un bisbiglio:

“Fra queste mura regna ancora l’ombra opprimente dell’abate Gioacchino e la sua pesantezza è insopportabile.”

- Opprimente? Insopportabile? -

“ Si.. Si...Andate via...”  

“ Ma Gioacchino.. “

“ Nell’aria, nelle pietre, nel vento ristagnano le parole di quel monaco pazzo, voi non l’avete visto...”

E Guido non capiva chi fosse colui che parlava in tal guisa, ma riconobbe l’altro: era Pietro.

Quando Il giorno dopo i tre templari si ritrovarono per concordare la partenza, Guido volle interrogare Pietro sullo strano colloquio della sera precedente.

E Pietro raccontò che in quella abbazia  sperduta in quell’angolo di mondo sconosciuto non era tutto lieto: in realtà  ci si organizzava quotidianamente per combattere i Florensi di Jure Vetere, ma tra i monaci c’era qualcuno che nell’ombra coltivava ancora i semi gioachimiti ed era costretto a una sorta di clandestinità religiosa. Pietro era stato avvicinato da uno dei più agguerriti monaci nella lotta al ricordo del celichese chiedendo a lui un aiuto per individuare i pochi e tenaci “ eretici” che all’interno dell’abbazia avevano rintracciato i fili  dello Spirito di Gioacchino e ne custodivano i segni in segreto. Ma Pietro non poteva, non capiva.

Ma era giunto il momento di partirsene, Carlo accelerava i tempi con parole e atteggiamenti, ma Guido non riusciva a scacciare due occhi bruni dalla testa, né in verità dal cuore, e con l’inconsapevole complicità di Ubaldo che pareva essersi innamorato del vino di Corazzo e aveva deciso di sostare ancora un giorno nell’abbazia, ottenne quello che voleva.

Così s’avviò lungo il fiume in solinga riflessione, ma con gli occhi attenti. E davvero la rivide: la vide in mezzo alle pecore candide e lanose, come un angelo bruno tra  nuvole di candido velluto. Si fermò, lei era immobile, di spalle, e i lisci capelli parevano di seta, ma si girò all’improvviso come se l’avessero chiamata e lo vide nella sua fierezza che la guardava. Lei conosceva i monaci, ma mai nessuno s’era avvicinato tanto, e poi questo non sembrava un vero monaco ed era bello! Guido fece per avvicinarsi e le pecore s’allargarono come ali, la donna rimase ferma abbassando gli occhi finchè se lo trovò vicino. Allora gli alzò gli occhi addosso nel viso e lui ebbe paura delle sue labbra di corallo. Una paura sconosciuta lo avvolse e il cielo parve roteare come il mare in tempesta. Si guardarono in silenzio e la paura si mutò in rivoli d’emozioni. Fu allora che un monaco vestito di nero apparve per magia dietro le spalle della donna e parlò:

“ Guido, tu domani partirai, questa donna, questa donna è Paola, e se tu le parli non ti capirà, se resti in silenzio e continui a guardarla penserà che tu la voglia, ma tu domani partirai, come puoi spiegarle chi sei e che cosa vuoi? “

“ Ma tu, tu chi sei ?”

Disse Guido,

“ non t’ho visto a Corazzo. Ma non m’importa davvero chi tu sia, io voglio Paola.”

A questo punto la donna sentendo il suo nome pronunciato da quell’uomo sorrise e dal suo viso partirono raggi che penetrarono il petto di Guido. Il monaco vestito di nero si allontanò senza parole portando sulle spalle una bisaccia che prima Guido non aveva veduto. 

“ Puru tu si monacu ?”

Così parlò Paola e Guido allora sorrise senza capire e lei continuò a sorridere. Furono vicini mentre il sole scaldò d’improvviso e lei se ne andò urlando alle pecore.

Il cavaliere restò impietrito per un momento e quando non la vide più  tornò verso Corazzo risalendo il Corace. Poco più su il monaco pareva attenderlo. Guido gli disse che voleva portar via Paola in Francia e di andarla a chiamare.

“Anche tu sei un monaco!”

Disse il frate vestito di nero.

“ Questo Paola ti chiese...Lascia stare, vattene..”

Ma Paola apparve all’improvviso davanti ai due. Guido sentì più forte stavolta i suoi occhi e pensò: O lei a Pontigny o io in questa valle! E lo pensò ad alta voce e lei sorrise. Frate Fedele, il monaco nero, capì i disegni di Dio e disse a Guido:

“ Se resti qui non sarai più cavaliere del Santo sepolcro, non sarai più monaco, lei vuole che tu resti, io ti aiuterò, ma tu devi darmi una reliquia di quelle che portate..”

Scambiare quel

“ Frustum de lignum sanctissimae crucis D. N. Jesu Xpti “

con occhi di donna sarebbe stato o no, un sacrilegio? Se quella donna era Paola, se il paradiso in terra era l’amore, se la reliquia avesse per sempre segnato le mura di Corazzo infondendole dello spirito, Guido avrebbe donato alla valle del Corace, ai religiosi e agli uomini di quel luogo, un afflato divino.

 Era un imbrunire scioccante di rosso fuoco quando una scatola di legno si specchiò nelle acque del Corace passando dalle mani di Guido a quelle legnose di frate Fedele. Tremante il frate nero s’avvicinò al suo confratello di fede che sostava poco lontano e stringendo sotto la tonaca il sacro oggetto s’avviarono lungo il fiume verso le mura.

Così il seme di Gioacchino custodito e coltivato dai due frati di nascosto, si fuse con la reliquia nell’esistenza dell’abbazia e ne segnò i destini fideistici: rimase sempre a Corazzo una traccia profonda dello spirito come un filo di una memoria che non si cancellò e che talora, anche nei secoli futuri, anche in quelli che seguirono la sua rovina, sfavilla nelle notti come un tempo e solo pochi riescono a vedere, o a sentire, ma lo spirito corre in ogni pietra, come  a Celico, sopra quella della vigna su cui pregava giovinetto Gioacchino,  come a Pietralata dove egli fuggì cercando Dio, come a Pietrafitta dove lasciò la sua energia e il suo cuore...

Guido e Paola andarono via anch’essi lungo il fiume e nessuno seppe se la loro meta fu la Francia o Castagna...    

 

                            IL VIAGGIO

 

 Da bambino già celavo sotto un mantello di tenerezza la mia tenace ambiguità, un altro me mi scivolava dentro. Col tempo nella mia

stanza piena di silenzio appariva talvolta come un lampo il fantasma del suicidio: una scelta eroica capace di dare un senso ai piatti inganni quotidiani.

 Era un’altra vita: una vita cosparsa di silenzio. 

Mi era facile nascondere la mia seconda vita, mi accorgevo che era questa la cosa più facile del mondo poiché gli uomini sono stupidi, preferiscono non pensare, si accontentano di quello che si vede perché così sublimano la loro pigrizia mentale. Era cominciato come un gioco, un gioco nato per paura, per evitare una punizione dopo una infantile birichinata. E mi accorsi della facilità dell’inganno. La mia fragilità appariva irrimediabile come un  abito del destino, cucito addosso. Ma il mio cuore non lo conosceva nessuno. Gli urti che avevano segnato i secoli in realtà furono l’unica cosa che mi turbava, che faceva vacillare la mia mente. Urti grandi, poderosi: le lotte senza speranza degli schiavi e i briganti massacrati: m’innamorai irrimediabilmente dei condannati alla sconfitta e all’oblio,

dei randagi e dei perduti: i libri di storia erano il mio eden, le foto degli emigranti vestiti di stracci e dagli occhi spenti il mio pane. Macinavo in silenzio strategie vendicatrici. Un giorno, che finalmente avevo un piano ideale preciso per abbattere le logiche di questo mondo ingiusto, su un libro di storia sfogliato per cercare le parole giuste da utilizzare per il mio trattato teorico, lessi la parola comunismo: maledizione! Mi hanno copiato le idee!

“Nuvole rosse” era il nome che titolava i quaderni ora in cenere della mia gioventù. E mentre i miei amici non sapevano nulla di me e delle mie idee e continuavano a parlare di libertà astrattamente, di società di eguali e di salari, di classe operaia e di scioperi continuando a mangiare e a dormire tranquillamente, io di nascosto progettavo assalti armati alle sedi del potere. Niente avrebbe potuto far loro pensare o sospettare quello che io covavo nel cuore con una rabbia immensa. Era troppo forte l’urlo di generazioni di oppressi, era insopportabile! Ma come si può rimanere indifferenti alle maree di uomini che muoiono di fame, di bambini scheletri, mentre c’è gente che vive in palazzi inaccessibili, in un mondo dove solamente chi ha soldi ha diritti? Il mondo diviso in due: tutto è diviso in due: ma io da che parte sto? Io mangio, io leggo, io gioco...E Dio? Da che parte sta Dio? Scoccò l’ora di partire, di lasciare le parole nel fosso lungo la via della vecchia casa di pietra e creta, scoccò l’ora di partire come i miei zii, come quello che morì annegato a vent’anni nel canale Villoresi mentre tentava di acchiappare la vita protendendo le braccia verso riva e lo sguardo al cielo, e portai con me solo i quaderni con su scritto nuvole rosse.

 Passò il tempo nella confusione della mente e nella ricerca vana d’applicare le mie strategie in una Roma tanto sconosciuta quanto frenetica, quando un pomeriggio il mio grande amico Raffaele mi portò con sé in un posto strano dove la parola “movimento” occupava la gran parte dei discorsi. Ma lui, dopo qualche veloce scambio d’opinione con alcuni presenti che osservavano in silenzio come noi, mi tirò fuori e mi trascinò fino a via dei Liburni, vicino al suo appartamento, e mi disse che lui in quel posto non ci avrebbe più messo piede. E camminammo e vedemmo gruppetti di giovanissimi “fuori sede” che si dondolavano stupiti per le strade. I giovani studenti appena giunti si riconoscevano subito: vagavano come derive, stupefatti della grandezza di Roma su quelle strade luccicanti che i loro padri non conoscevano e non conosceranno, i loro padri contadini che puzzano di terra e sudore, i loro padri che li avevano “spediti”  a conquistare il mondo, il riscatto, per una “Nemesi” vagheggiata lungo anni di schiena curva per vederli un giorno tornare avvocati o medici fasciati da sgargianti cravatte. E loro tanto piccoli e tanto ingenui si ammucchieranno dentro stanze spoglie, dentro monolocali dove impareranno a friggere uova e continueranno, celati, in una solitudine e in una malinconia irrimediabili, a parlare il loro dialetto.    

Ma io invece ci tornai spesso in quel posto, senza passare più da casa di Raffaele: finchè un bel giorno lì non trovai più nessuno: cieli duri sulle cineree strade deserte del primo pomeriggio tiburtino, cieli d’acciaio sopra la terra amara dell’ingiustizia, non era facile  alzare il capo, guardare avanti e avere il coraggio di aprire gli occhi non sembrò facile su quel mondo che mi appariva devastato e ansioso di vendetta.  Quel giorno passai da Raffaele. Mi disse che quello era un “covo” e coloro che lo frequentavano avevano cambiato “sede” perché così facevano.

 Io insistevo a farmi dire dove avrei potuto ritrovare quelle persone e lui mi disse che si sarebbe informato e di ripassare da lui dopo qualche settimana. Ma prima che scadesse la settimana fui testimone di un episodio inquietante : vidi due persone scendere da una grossa moto e sotto il casco avevano il passamontagna, uno dei due era Raffaele. Lui non mi vide, ma io vidi loro armati. Mi voltai e mi nascosi. Dopo pochi minuti la moto rombò via sfrecciando. Il giorno dopo mi presentai a casa di Raffaele, ma lui non c’era. Non c’era neppure il giorno dopo. E non ci fu per quasi un mese. Lo incontrai per caso assieme ad una ragazza dai capelli corti e neri che fumava nervosamente a piazza Venezia. Gli dissi senza tanti preamboli che volevo essere con loro. Lui mi guardò, poi guardò la ragazza che sorrise calma e le disse di me un nome falso, poi continuò: “ Bene, allora vai dietro a quel tizio con il cappello verde e domani mi dirai dove abita, tanto con la tua faccia anche se ti vede non immaginerà certo cosa vuoi da lui!”

Dopo venti giorni il tizio si trovò cinque pallottole nei polpacci.

Io ridevo.

Raffaele aveva cambiato appartamento: ora abitava a via degli Ubaldi e ci vedevamo a scadenze fisse. Io dei suoi compagni intravedevo talvolta qualcuno e più spesso la ragazza, che era davvero molto carina con quel suo visino scuro. Prima di citofonare, però, dovevo controllare le macchine che stazionavano fino a cinquanta metri dal portone sui due lati della strada ogni giorno alla stessa ora. Raffaele mi raccontava molte cose della Rivoluzione: anche delle cellule del Nord. Raffaele non era romano, veniva proprio dal nord, ma a Roma era vissuto per molto tempo. Poi un giorno, finalmente, partimmo con la sua macchina e vicino al mare incontrammo una decina di compagni: qualcuno già lo conoscevo di vista. Ebbi il compito di appoggiare qualche nucleo incaricato di pedinamenti. Fu un periodo intenso e vibrante , provavo un piacere quasi sadico ad  ascoltare i discorsi banali della gente che commentava qualche nostra azione con la sua ipocrisia e la sua impotenza: durò poco. Un bel giorno Raffaele fu arrestato e un compagno di cui non ho mai saputo il nome mi disse che la mia avventura con loro doveva considerarsi chiusa, che c’era oramai solo bisogno di clandestini, ma un ultimo lavoro dovevo farlo: andare a Parigi e incontrare una persona, ascoltarla e poi una volta tornato a Roma scrivere le cose che mi avrebbe confidato e fare avere il documento al portiere di un palazzo di Primavalle, cosa che mi sarebbe stata facile, poi dimenticare tutto.  Pensai molto alle parole del compagno e vi compresi cose non dette: se vuoi stare davvero con noi devi scomparire, devi avere il coraggio di lasciare tutto...Non ebbi questa  temerarietà e scelsi il viaggio.

Cadeva una pioggia sottile tra le pensiline: era come un balsamo per le mie tempie arroventate dai pensieri. Che pensieri! Il sogno, l’ancestrale sogno di vedere Parigi, Parigi di cui avevo addirittura sognato le strade, le piazze, i cinema, nelle noie delle insonni notti adolescenti,  si sarebbe realizzato. Ci andavo in compagnia. Certo, c’era anche una lei, ed era carina, ma fredda e inarrivabile, e c’erano Nardo e Mauro. Alla stazione non c’era molta gente quella notte: Natale era passato e le flotte caotiche degli eterni emigranti navigavano ormai lungo le rotte della rassegnazione. Io pensavo che non avrei più rivisto il mio paese, ma non mi dispiaceva: tutta quella gente piegata su se stessa si sarebbe drizzata solo se io avessi fatto quello che stavo per fare. La mia fierezza mi sovrastava. Poi lei, che con me aveva parlato in verità solo poche volte, ma sempre sorridendo come ad un bambino, mi chiese se avessi freddo e io le dissi di toccarmi la testa. Me la toccò e sorrise in maniera diversa. E il treno arrivò: Espresso per Paris gare de Lyon. Montammo. La carrozza era semi vuota. Restammo in silenzio mentre Mauro controllava la sua borsa. Mi diede una cartina di Parigi,  e mi fece notare dei cerchi rossi, e un’agendina con delle istruzioni, poi uscì nel corridoio a fumare: Nardo non fumava e il fumo gli dava fastidio. Lei lo seguì. Nardo s’appisolò. Io mi rigiravo tra le mani la cartina. A Firenze, senza dir nulla Mauro scese dal treno: lo sapevamo già. A Bologna scese Nardo: e questo non lo sapevo! Era notte ed ero solo con lei. Lei parlò, mi spiegava com’era Parigi come si parla ad un bambino il primo giorno di scuola: io la guardavo così bella e pensavo altro...!Lei forse lo capì e  mi fece ripetere tutto per filo e per segno, poi mi diede un fugace bacio sulla guancia e mi disse:

 “Ci vediamo quando torni!” Non feci in tempo a capir nulla e lei era sparita nella stazione di Porta Garibaldi, quasi spinta dal vento sui marciapiedi deserti. Solo: tra le brume nordiche della notte e la borsa come un fantasma per compagna. Pensavo alla Rivoluzione in un confuso dormiveglia. Ma all’alba, in terra francese, giunse nel mio scompartimento Claudette con sua madre. Non so come fece a capire subito con i suoi occhi, due chicchi d’uva, che ero italiano, e mi disse: buongiorno. Ma poi tra i libri che portava con sé ne vidi uno che conoscevo bene:

“Le avanguardie letterarie nell’idea critica di Guillaume Apollinaire” con la sua copertina bianca. E così anch’io le parlai. Dapprima tentai in francese, poi in un italiano franceseggiante. Ma lei era brava: capiva lo stesso!  Parlammo di Baudelaire e Rimbaud, di Jarry e Cocteau, di Paris e Roma, persino di Gabin e Delon e lei di Simone Signoret e poi mi disse che era appena tornata proprio da Roma, dove studiava l’italiano e leggeva i libri dei poeti francesi nella nostra lingua. Avrei voluto lei per guida lungo la Senna. Ma scese dal treno prima di arrivare a Parigi. Non feci nemmeno in tempo a chiederle dove studiasse a Roma e la vidi già fuori dal treno correre verso un ragazzo biondo. Ripresi la cartina e l’agenda e sospirai lungamente. E fu all’improvviso che mi venne la nausea, come la piena rovinosa  di un fiume che travolge tutto. Scesi dal treno e mi sentivo triste, volevo annegarmi dentro Parigi senza più ansie, camminavo lentamente nella stazione finchè vidi due uomini che mi guardavano, due ragazzi : uno lo conoscevo! Per qualche mese, l’anno prima, aveva frequentato con me lezioni sul manierismo del Tasso all’università, mi diceva di essere di Perugia, poi era sparito. Mi si avvicinarono e mi parlarono molto confidenzialmente. Prendemmo un latte al bar e ci sedemmo ad un tavolino continuando a parlare. Dopo circa mezz’ora mi accompagnarono ad un treno che andava a Genova e mi dissero di non andare più all’indirizzo di Primavalle, ma di tornarmene al mio paese.

 E nel treno pensavo che una tappa decisiva nella vita è data sicuramente da quando si acquista la coscienza che nel mondo ci sono così poche persone fatte apposta per noi o, per lo meno, con le quali riuscire a star bene insieme, che diventa difficilissimo incontrarne almeno una, allora o ci si ammazza o si setaccia l’universo: spesso la scelta è dettata dall’umore di un momento o decisa da mera casualità. Se poi queste persone sono lontane nel tempo più che nello spazio, non si rintracceranno mai: Era questa la mia condizione d’animo tratteggiata da un silenzioso dormiveglia: avevo camminato nel mondo per venticinque anni e mi sembravano immensi e credevo che sempre “altrove” fosse quello che cercavo, altrove nello spazio e altrove nel tempo: ma poi chi avrebbe potuto spiegarmi che fosse il mondo, mio padre? Se l’unico mondo che conosceva era un campo da arare? Ma poi, stanco, mi assopii senza capire perché il mio cervello si fosse messo a elaborare quel ragionamento, compresi solamente che volevo fuggire da me stesso. Quando fui a Roma m’accorsi subito, dall’aria che si respirava nella stazione Termini, che molte cose in quelle quarantotto ore erano accadute. Eppure  volli andare spudoratamente a Primavalle per vedere quel palazzo: era bruciato!

Così andai a calpestar foglie morte lungo la solitudine dell’Aurelia antica.  Il giorno dopo mi recai con ingenua tensione in piazza San Luigi dei Francesi affinché un delicatissimo sogno cancellasse per sempre una disperata e violenta illusione, ma di Francia non v’era altro che l’odore e nemmeno l’ombra di Claudette. Allora girai alcuni precisi posti della città e notai le facce che volevo:  capii che nessuno sapeva o voleva saper nulla di me, proprio come io non sapevo e non avrei mai saputo nulla di Parigi!

Non ricordo come fossi in quel tempo: al tempo delle Parole, delle parole che stregavano! Né riesco a capire se quel viaggio fosse solo verso Parigi o anche, attraverso il cuore, verso la mente.

 

                      L’ULTIMO INVERNO

 

 

Vagante agli aliti del vento discendeva il corio poggiandosi al vecchio bastone e pareva leggero come una piuma:  volava e planava nella piazza come un condor. Allora esclamava parole piemontesi ai furfantelli che lo sfottevano, poi ringhiando dentro di sé continuava la discesa fino al pizzo sottano e si barricava in casa dopo un ultimo brandir di bastone. Quello stesso bastone che in un gelido pomeriggio d’inverno usò senza scrupoli per spaccare d’un solo colpo due piatti: i suoi amici di vino e rassegnazione, Pappici e Giacomino detto Pastillo, per un estremo tentativo di uccidere l’angoscia che li consumava, per assaporare pochi minuti di serena normalità, avevano deciso di mangiare un bel piatto di pasta e fagioli nell’osteria. I piatti fumanti sul tavolo già proiettavano aromi carnosi e vitali quando Cicito varcava l’ingresso del locale e i suoi occhi si fissavano sull’estemporaneo desco. I due forse non si accorsero nemmeno del nuovo arrivato, o forse fecero finta di nulla, presi com’erano dall’eccitazione del caldo pasto, fatto fu che il Cicito s’infuriò e dicendo:

“ Maledetti fedigrafi. Tho! Avessero detto almeno mangia un boccone...”

Sbattè il bastone con violenza sui piatti che li spaccò entrambi e schizzò il brodo sulle pareti e la minestra tracimò sul tavolo e sul pavimento. E all’ostessa incredula disse con voce ferma:

“ Li pago, Li pago...”

 E quando, nei freddi e noiosi pomeriggi invernali, dopo che nelle strade aveva sparato il silenzio in culo al vento, mentre sorseggiava il suo vino nell’osteria, poco prima che il buio scendesse senza scrupoli sul paese, rintonavano le campane a morto, egli si rizzava in piedi sulla sedia saettando il bastone e dicendo compiaciuto: “Mi son vivo: o Mastro Ciccio o il Prefetto!” Una sera che le disperate crudeltà adolescenti parevano aver superato i limiti imposti da un’etica invisibile, l’uomo aveva raccolto una pietra enorme che a fatica portava tra le mani come improbabile arma contro la sveltezza dei ragazzi, quando incontrò la banda randagia degli scapigliati e uno gli disse ridendo : “ Cicì hai comprato il sale?”.

Lui furibondo rispose: “Si, per sbattertelo in testa!”

 La sua virilità era ancora accesa e lo diceva senza pudore. Talvolta, con qualche litrazzo in più in corpo, abbordava la figlia di Meraglia e la invitava a casa sua per un altro bicchiere. La donna, grassa e sporca, sempre ridente per qualche virus di ebetismo, abbarbicata  ai segni atavici della povertà e di un dolore incomprensibile, affamata come un animale, abituata ai crudeli agguati della gente e alle angherie umilianti dei giorni e degli uomini, lo seguiva a testa china sperando in un pezzo di pane e un mezzo di vino, fugando con improvvisi ancheggiamenti i ragazzetti che la seguivano e la ingiuriavano. Ma dentro casa:

“Prima spogliati, poi il vino...”

E l’odore della puzza di sporcizia del suo corpo sudato invadeva l’aria stantia della stanza. A questo punto l’uomo si riprendeva la propria dignità e intravedeva nel suo animo una coscienza di vecchio:

“ Vattene via tentazione dell’anima mia...!”

 Urlava brandendo il bastone e la poveraccia si riprendeva gli stracci e fuggiva impaurita. La attendeva poco lontano, con lacrime soffocate, suo zio Nicola fingendo rimproveri per darsi un contegno in mezzo alle platee umane che aspettavano da lui un segno, una performance da guitto, e lui consapevole di essere al centro del proscenio, sentiva la responsabilità del ruolo, il peso degli sguardi. Lo chiamavano “Brutto lupo” forse per il fiabesco assioma che associava il suo nome al fascino misterico della belva dei boschi, pensando l’attributo congeniale alla sua strampalata faccia segnata dalla informe patata del suo naso e della fronte incavata. Non c’era  uomo che non l’avesse almeno una volta beffeggiato con parole irridenti. Ma i più colpevoli eravamo noi: i tardo - adolescenti. Eravamo allevati su modelli  che trovavano la ragione delle loro ideologie  piccolo - borghesi nella pantomimica imitazione della discriminazione sociale imperante. Essa imponeva, riproponendo caratteri tipici di una più vasta struttura sociale, riconoscimento di scale umane sui disperati. E questo anche in un mondo fatto di nulla dove per noi non c’erano né spazi né stimoli: solo la strada e il buio della notte. Lui, confusamente e goffamente, ai nostri sberleffi opponeva tentativi di appropriazione di dignità, tentativi di raggiungimento della mediocre dignità degli altri barcollando come un giunco tra la selva pungente delle ironie, poi forse ci bruciava qualcosa dentro e fuggivamo. Ci rifugiavamo da mastro vergine il filosofo calzolaio a bere vino e ad ascoltare storie di amori impossibili, come quello per una principessa trovata e perduta in un giorno o quello, nella  Torino operaia del ’60, quando abitava l’ appartamento proprio sotto quello di una prostituta...  fino a quando la malinconia s’impadroniva senza rimedio di lui e ripeteva la stessa filosofia: “Siamo tutti vermi di terra, perché qualcuno deve alzare la testa? “ Talvolta spiavamo il forte “Dambaradam”, reduce dalle glorie d’Africa, con la sua corona di peperoncini rossi appesa al collo, rifugiarsi nel cimitero, poi  fuggivamo verso le campagne e le strade di terra calpestate da passi furibondi lanciavano strali di polvere fino al viso segnato da foruncoli rinsecchiti, dalle tracce evidenti dei rasoi paterni. Saltavamo come arieti tra le siepi e i rovi fino ai ciliegi, splendidamente rossi e magici come sogni ancora incomprensibili, irraggiungibili. Dopo aver devastato orti e colture tornavo stanco tra le case del paese con sensi di colpa e mi rifugiavo da mia nonna.

  E un giorno, seduto sul gradino della casa àvita, vidi uno strano personaggio:

“ Nonna chi è quell’uomo che salta con solo due passi tutta la strada dall'’avvocato a compari Santo?” Agile come un grillo e leggero come una piuma quell’uomo volava a gambe lunghe e planava feroce e minaccioso al cospetto di qualcuno. Mia nonna fece dapprima finta di non sentire, poi guardò fuori dalla porta e mi disse: - Stai dentro!-

         Chi era quell’uomo dallo sguardo felino e dalle braccia nervose, secco e duro che sembrava un fulmine? Quando dopo anni lo conobbi da vicino, celava sotto modi gentili il suo cuore d’una volta che ardeva in silenzio. Partivamo numerosi con lui nelle Sile per funghi: numerosi e affamati, affamati d’avventura, pronti a succhiare la vita dai faggi secolari e dalla maestà della natura. E una volta mi persi: mi perdetti da solo, nella valle del Tacina. E quell’uomo urlò per ore il mio nome accompagnandolo a imprecazioni e bestemmie furiose, finchè all’improvviso apparvi da dietro un cespuglio fiorito, irresponsabilmente sorridente. Fu allora che quell’uomo dimenticò per sempre il suo passato e sorrise anche lui. Col tempo cresceva in me il dolore antico del tempo, l’angoscia mi si ficcava dentro i vestiti come un rettile e capivo il nulla! Il tedio di Castagna camminava con me come un compagno nascosto nella mia ombra. Le vie consumate tra rovine di catrame divelto dall' indifferenza, tra i ciottoli che ingombravano ad ogni passo i piedi, così meccanici e freddi, nella polvere che il vento scollava dai muri di creta, dalle pietre d’arenaria che si polverizzavano contro l’azzurro del cielo, le vie erano sempre e solo vie d’inverno. Gli orti rinsecchiti, minuscoli tra le case screpolate, l’odore della terra nera che si stendeva sotto drappi di ghiaccio, i pruni dritti irrigiditi e i fichi come scheletri inquietanti e il deserto di ogni via, la solitudine di ogni segmento di cielo erano però sepolcri dell’ inverno. Ma   nei giorni che il sole appariva quasi caldo a consolare si sentiva il  respiro dei secoli, negli orti si vedevano anche pagliai, baracche, capre, si sentiva l’odore dell’acqua, la fatica del vivere, si sentivano il sonno, le schiene curve e il mutismo. E mentre camminavo a pugni stretti verso la fine del giorno pensavo: è l’ultimo inverno che vivo qui.

Poi tornava il mattino .       

 

GLI ZINGARI DEL MARE

 

 

I capelli a cresta di gallo, disordinati e chiarissimi, le labbra troppo carnose per non turbare, una voce sottile e svergognata: ”Dammi una sigaretta!” Mario le ficcò gli occhi in viso come a dire: ”Ahò!” Ma il suo sguardo duro si sgonfiò presto e una sigaretta apparve per magia nelle sue mani che in silenzio si tesero verso di lei. La ragazza la strinse subito tra i denti e sparì ingoiata dall’azzurro. Dal mare arrivavano folate calde e il sole bruciava la testa. Gli amici di Mario cercarono l’acqua per affogare la cappa di sudore che avvolgeva i loro corpi e le bracciate furono lunghe e nervose. Mario non si tuffò, cercò con gli occhi quell’immagine fulminante e camminò sulla sabbia rovente finché i piedi resistettero. Poi al richiamo beffardo degli amici fu costretto a tuffarsi e tenne la testa sotto il pelo dell’acqua per un eterno minuto. Il mare lo consolò. Tornato sulla terra ferma riprese a camminare sulla sabbia ora intiepidita da una leggera brezza.E distesi vide strani uomini sulla spiaggia coi vestiti bagnati addosso e altri vestiti in mare e vecchie donne coi capelli lunghissimi sdraiate sulla sabbia dentro abiti fradici d’acqua. Allora s’accorse che stava tramontando: gli amici erano andati via e lui osservava quella strana gente. All’improvviso sentì un’aria troppo calda per quell’ora sfiorargli il corpo: la ragazza dai capelli di gallo passava vicino a lui ridendo e ancheggiando come se parlasse da sola. Mario si paralizzò per un attimo e lei era già sulla strada ove salì su una strana e vecchia macchina giallastra. Per giorni Mario andò su quella spiaggia a fumare ,finché, dopo vane attese, rinunciò alla speranza. Ma una sera, mentre i suoi amici leggevano ad alta voce il manifesto incollato al muro sfatto di una strada perduta tra i rifiuti suburbani sentì una voce: ”dammi una sigaretta!” Mario si voltò e rivide quelle labbra adesso più rosse e gli occhi malamente truccati e il viso goffamente incerato: la guardò quasi con le lacrime agli occhi e disse No! E lei chiamò un ragazzo con voce nervosa, lo prese spudoratamente sotto braccio e sparì nel boschetto arso di pini sul lungomare. Mario si allontanò da solo in quell’imbrunire caldo guardando il mare e la luna illuminava lenti pescatori alla deriva e al largo lanterne di sparute barche luccicavano come stelle sole. Allora capì che era già notte e tornò lentamente verso casa e s’infilò a letto con gli occhi già quasi chiusi, ma non dormì. Il giorno dopo Mario e i suoi amici si recarono sulla spiaggia quando il sole era già alto e mentre velocemente gettavano i vestiti sulla sabbia furono attratti da un chiacchiericcio concitato e vivace: uno strano gruppo di persone scendeva sulla spiaggia a branco. Donne vestite di nero, vecchi macilenti con giacche di velluto e bambini: essi soli mezzi nudi, sciamavano sulla sabbia rovente ridendo e parlando una lingua incomprensibile. Poi uno di loro scese nell’acqua a piedi nudi con i calzoni lievemente rivoltati ma con addosso la camicia e si tuffò senza esitazioni riemergendo con naturale piglio, poi una grassa donna fece altrettanto e piano piano quasi tutta la comitiva scivolò nel mare. Mario restò ad osservare le strane maniere di quella gente e notò una coppia di ragazzi che si bagnavano insieme, lui era robusto, capelli neri e lunghissimi, lei appariva magra con la maglietta incollata sulle spalle e, quando si voltò, incollata al seno e il viso era il viso che non lo aveva fatto dormire. Lei si tuffò sott’acqua da sola e riemerse di fronte a Mario, corse fuori dal mare danzando sulla battigia e quando lo vide si fermò cercando di mascherare una specie di disagio, ma fu un attimo e riprese una baldanza che forse le era consueta e parlò ad alta voce una lingua ignota. Mario per un attimo s’illuse che andasse verso di lui e cercò spasmodicamente le sigarette, ma la ragazza, dopo avergli dedicato un lungo e sibillino sguardo con i suoi occhi arrossati, cercò rifugio nel gruppo di quegli insoliti bagnanti vestiti. Mario guardò ancora in quella direzione come cercasse parole a giustificare il proprio stato d’animo.” Una zingara! Era una “zingara” disse dentro di sé e per un lungo attimo gli apparve l’immagine di un pergolato e di una volpe.

 

                                                          LEGGENDE

 

            LA TREMPA DEL MUTO

 

Viveva in un’epoca remota in un pagliaio addossato ad un grosso castagno, sopra un luogo reso umido dallo scroscìo di un torrente, un uomo: un pastore di nome Toti. Aveva moglie e tre figli. Uno di questi: Lino, non parlava. Egli era il maggiore, dopo di lui Nina e Mico. A Lino venivano affidati i maiali poiché per la maggior parte del tempo questi rimanevano legati e quindi non sparivano alla vista e non c’era bisogno di urlare. Nina, oramai in età da marito, governava le due capre e Mico le pecore. Maruzza, moglie dell’uomo, si dedicava per lo più agli orti e alle faccende della terra. Toti spesso se ne partiva e non si vedeva per giorni: talora ritornava sanguinante, altre volte con la bisaccia piena. Attorno al pagliaio poche abitazioni sparse qua e là sull’erta. La vita delle persone che vi abitavano era identica e immutabile. Un giorno Toti, segnato dall’enorme stanchezza del vivere, rese l’anima a Dio. Lo trovarono supino con la bocca spalancata  come se avesse voluto ingoiare il mondo, tra le felci di un pantano, attratti dal belare singhiozzante di una pecora, due monaci del monastero di Santa Maria del Corazzo. Essi conoscevano l’uomo, come del resto tutti di quella trempa, e caricatoselo sulle spalle lo portarono alla moglie e ai figli. Lino li vide salire e spinse i maiali in un recinto. I monaci pronunciarono parole latine e andarono via in fretta. Fu sepolto in cima al colle, vicino ad altre fosse, ad altre croci. Da quel giorno Lino, che avrebbe dovuto per antica legge assumere lo scettro di capofamiglia, fu quasi dimenticato dai suoi congiunti. Nina amoreggiava ormai sfacciatamente con un porcaro del fondovalle, il giovane Mico ebbe una sorta di regressione e si aggonnò alla madre che, da sola, si sfiancava a trarre dalla terra qualcosa da mangiare. Così il muto se ne partiva al mattino, spesso abbandonando il maiale libero nei boschi vicino casa, e faceva ritorno a sera giusto per dormire. Maruzza sentiva ogni giorno più forte il peso degli anni e l’inverno giungeva senza sconti. Riuscì un giorno a riunire i suoi tre figli dentro il pagliaio e gli parlò con un filo di coraggio, disse loro che bisognava stare uniti, farsi forza e decisero che era venuto il momento di scannare il maiale per poter ancora mangiare.            “Lo farò scannare a Torone” Urlò Nina e rise forte.                                                         Così l’indemani, all’ora di primo mattino, le strazianti corde dell’animale emisero nel gelo dell’alba vibrazioni tanto acute che penetrarono anche nella testa di Lino, nascosto dietro un frassino ad osservare il maiale dimenarsi e crollare a terra buttando sangue a fiotti dal collo lacerato: fuggì verso il torrente. S’inerpicò per il fitto selvame del colle fino ad un dirupo sul cui ciglio sedette a precipizio ad osservare il filo d’argento del torrente che si sgomitolava sotto di lui. A sera tornò al villaggio intirizzito dal freddo.   Un gruppo di uomini e qualche ragazzo, anche suo fratello, stavano intorno ad un fuoco da cui si sgretolavano odori penetranti. Si precipitò a scaldarsi le mani gelate e s’accorse dai movimenti delle labbra di quegli uomini che essi ridevano, ma nulla gli importò. Poi Mico, che pareva rinato, gli si avvicinò porgendogli un pezzo di carne: la divorò senza più ricordare l’immagine dolentissima del maiale scannato. Qualche giorno dopo Torone lo avvicinò chiedendogli a gesti di portarlo da sua madre. La donna appendeva alle travi più alte del ricettacolo pezzi di carne e quando vide i due entrare sorrise e pensò: “Una bocca in meno...”. In effetti Torone chiedeva di sposare Lina e di portarla via, dalle sue parti: un gruppetto di pagliai poco più giù. Verso la fiumara. E così qualche settimana dopo si decise di andare, le due famiglie insieme, al convento di Corazzo per il matrimonio. Il giorno destinato Lino non si vedeva.                        “Sarà alla sua trempa!” Diceva la madre ormai consapevole delle abitudini del figlio .“Andatelo a chiamare”.  Incalzò il padre di Torone spazientito. Ma ecco apparire d’incanto i suoi riccioli neri e il timido sorriso. Si partì. Lungo il vialotto di fango la breve processione procedeva lenta e circospetta. Quando si giunse vicino ai pagliai della valle alcune persone si videro in attesa e gli occhi di Lino si fermarono sul bianco viso di una ragazza che si unì allegra al cammino. Continuava a guardarla e lei si incuriosiva che non le parlasse. Lungo il sentiero che costeggiava il fiume, sfiorato da scheletri d’erba e ancor gelato, Lino restava l’ultimo della fila e tra le teste giocava a cercare quella di lei e lei giocava furbetta a nascondersi. Poi, appena traversato il Corace, la ragazza rallentò e finì proprio davanti a Lino. Talvolta si voltava e gli lanciava sguardi veloci e beffardi, finchè addirittura gli camminò a fianco. Il cuore di Lino cominciò a buttare sangue come il collo del maiale e, nonostante il freddo, un calore insopportabile gli aggrediva i piedi e la pancia. Camminava e ad ogni passo ingoiava saliva, camminava con lo sguardo gettato in avanti e non trovava la forza di guardarla, voleva scappare, fuggire, gettarsi nel bosco, sparire...E molte, molte parole si soffocavano nella sua testa...  si soffocavano. E lei all’improvviso si fermò e lo trattenne. Lui si voltò e i suoi occhi la penetrarono, ma le  labbra si mossero silenti:                                            “ Colpiscimi, finiscimi , fammi a pezzi!”                                             La ragazza restò sorpresa e si turbò, poi allungò il passo senza più voltarsi, il convento era già davanti a loro. Lino riprese lesto a camminare e già cadevano gocce pesanti di pioggia mista  a neve.                                                                                                                 Nella chiesa un solo monaco: diceva parole che non si capivano, poi cantava, poi sussurrava, poi taceva e guardava; ma lei più non c’era! Lino uscì, fuori pioveva lento e gelido, si stringeva nella pelle di pecora, e la vide sgattaiolare da dietro un cespuglio e venire verso l’ingresso della chiesa, gli passò accanto ma non lo guardò. Lui la seguì con lo sguardo e con il corpo girandosi, poi dal medesimo luogo vide uscire un monaco con fare mansueto e silenzioso. Il religioso lo notò e gli fece un ironico saluto con la mano destra alzata a tre dita e con la bocca sillabando: Cristus. Egli non capì, ma intanto era terminato il rito e la processione ripartì, vide che tutti erano contenti e anche lui sorrise. Poco prima dei pagliai, quasi s’era scordato di lei, la rivide col viso rosso e la bocca più larga, gli fece un’impressione strana, ma ella lo guardava in un modo...Gli si avvicinò decisa e prese la sua mano: a quel punto cominciò a nevicare. Lo tirò sotto una roccia e gli faceva segni con le mani, lui non capiva ma guardarla negli occhi era una vibrazione dell’universo.  Restarono soli e il freddo pungeva quasi come il suo sangue. Alzò faticosamente una mano e le toccò il viso con le dita gelide, lei sorrise e lo baciò fuggendo. Lino rimase immobile mentre la neve gli copriva le spalle e la guardò correre finchè divenne un punto nero, poi intraprese il sentiero delle Pantanelle.                         Il mattino dopo la neve aveva reso tutto uguale. Il muto camminava leggero sulla coltre, raggiunse a valle il torrente e l’osservò correre più veloce del solito baciato da quelle rive candide e tonde. L’attraversò saltando agilmente un’angusta gola e  si diresse sul ciglio del burrone, sulla “Trempa” e si fissò sulla roccia umida a strapiombo, dopo avere scalciato la neve. Faceva freddo ma dal fondo pareva provenire un’aria tiepida, come di vapore. Guardava i rami degli alberi ondeggiare per il candido peso e i fusti neri e piangenti.  Pensò alla ragazza e sentì proprio caldo, sentì l’impulso di rivederla, di guardarla negli occhi, di toccarla: per un attimo gli parve di scivolare, gli girò la testa. Ma ritornò giù per il sentiero lentamente e ripassò al di qua del torrente. La fonte che scorreva sotto il villaggio infilata tra le pietre era solo un filo di ghiaccio. S’avvicinò e lo ruppe portandoselo tra le labbra a dare sollievo alla sua stanchezza. Brillò allora l’acqua della fessura rocciosa come una canzone. Una canzone che solo lui poteva udire e che lo spinse verso valle camminando contro sole, quel sole che lanciava raggi accecanti come un invito. E dopo un po’ vide i pagliai come mucchi di neve. Si fermò: il cuore gli batteva troppo forte e tornò indietro, ma dopo due passi si fermò di nuovo, strinse i pugni e si girò, vide così una figura nel bosco china. Una tenera figura: era lei che ammucchiava frasche strappandole al gelo. Si avvicinò quieto e la guardò, la vide sudata e stanca, non s’era accorta di lui, la vide con la mano togliersi i capelli dal viso e fu allora che lo scorse. Balzò in piedi impaurita, ma avendolo riconosciuto gli fece segno d’aiutarla. Lino tolse le mani dalle tasche e cominciò a strappare i rami secchi dagli alberi e ammucchiarli con gli altri. Tentarono poi di legarli con lunghi fili di ginestra: mentre lui stringeva lei faceva i nodi e infine ella gli fece segno di caricare il fascio sulla sua testa. Lino abbracciò con tutte le sue forze il mucchio di legna e cercò di poggiarlo delicatamente a lei sul capo ma scivolò e le cadde addosso sulla neve, la fascina rotolò lontano e le labbra della ragazza spiccarono rosse come grosse ciliegie mature tra le sue gote gelate. La  bocca semichiusa apparve come l’ingresso di un mondo di tremanti sensazioni: il suo corpo era un giaciglio mistico. Lino restò prigioniero di catene roventi: le braccia di lei. Rotolarono sulla neve incollati finchè della ragazza s’aprì la camicia  e il seno balzò caldo e prepotente a riempire il palmo della sua mano e un brivido intenso gli corse dai capelli alle ginocchia. Ma la fanciulla a quel punto s’alzò di scatto e corse alle frasche mentre Lino rimase inginocchiato a guardarla. Lei sparì ingoiata dal freddo e il muto era ancora immobile e solo allora sentì gelare le ginocchia. Da allora lino passava gran parte delle giornate attorno a quel luogo, ma non rivide più la ragazza. Così spesso se ne saliva fino alla sua trempa ad osservare dall’alto lo scorrere del torrente e a sentire il vento sulla faccia. Un bel giorno che la neve s’andava sciogliendo e qualche uccello in più si vedeva nel cielo, vide passare dall’alto della sue rupe un monaco di Corazzo attraverso un viottolo a fianco del torrente. Non ne aveva veduto da parecchio così lontano dal monastero e senza bisaccia. Gli andò dietro incuriosito. Lo seguì fino alle baracche della “sua” ragazza. Qui il monaco incontrò un uomo, barbuto, nero e basso, e si fermò a parlare con lui. Lino li osservò celato dietro un grosso albero. Poi vide l’uomo voltarsi verso un pagliaio e subito dopo vide uscire “lei”: colpo al cuore! La ragazza s’avvicinò al monaco e gli sorrise. In quell’istante il muto ricordò il volto del monaco: era lo stesso che aveva veduto uscire da dietro il cespuglio vicino al monastero il giorno che s’era sposata sua sorella, dallo stesso cespuglio da cui era uscita lei. Sentì il suo petto sgonfiarsi e le mani farsi improvvisamente pesanti, si sentì inchiodato a terra. A fatica abbassò la testa e s’incamminò sul ritorno lento. Camminava piano piano, ad ogni passo spalancava la bocca come volesse urlare. Tornò sulla trempa e si coricò a pancia in giù sulla fredda pietra. Lì fu trovato senza vita da due viaggiatori sconosciuti pochi giorni dopo.   

 

                                    FORCINA

                             

 

  A sera tornavano i boscaioli alle misere case del paese. Avevano tagliato i pini che i baroni vendevano come fossero loro, come se quell’immensa selva gli appartenesse per decreti divini. A chi sudava e si spaccava la schiena bastava dare il necessario per tenerlo in vita : se non bastava, allora, erano fucilate! I baroni usavano veri e propri eserciti prezzolati, costituiti da gente d’ogni risma e senza scrupoli, pronta a uccidere per un pezzo di pane nero. Avevano ereditato fondi vastissimi delle foreste silane dai loro padri, i famelici usurpatori. Ed essi stessi perpetuavano con la violenza le loro pratiche di appropriazione e di difesa delle terre.                                                                       Una di quelle sere, in Maggio, faceva ritorno a Castagna, discendendo dalle colline con l’asino e i due suoi figli maggiori, Aloisio. Era costui un boscaiolo esperto, molto ricercato, che guadagnava con il suo lavoro qualcosa in più della mera sopravvivenza, anche se in realtà era testardo e indolente, appariva solo taciturno e disponibile agli occhi superficiali e cinici degli sgherri dei potenti. Non era del tutto buio, anche se il sole era tramontato da un pezzo, quando nell’ultima vallata, appena prima che si stringesse in una umida gola, quando proprio poco mancava ormai alle prime case, l’asino ebbe un’impennata e scaraventò a terra Cesco, il minore dei figli del boscaiolo. Aloisio fu svelto: agguantò con le mani le redini e il ciuco chinò il capo mentre Pasquale, il maggiore, aiutava il fratello a rialzarsi. A terra, con la testa su uno dei due sentieri che da lì si biforcavano e col corpo disteso quasi  a strapiombo, v’era un uomo esanime con una grande rosa rossa sul petto. Aloisio lo guardò e s’avvicinò fino a toccarlo: nella penombra non si videro le sue lacrime, restò un attimo immobile, era morto con un trombone fra le gambe.                                                                             “Dovremmo fare una fossa, ma questa via è oramai troppo frequentata” Disse ai suoi figli il boscaiolo guardandosi intorno al 

 

chiarore lunare.

 “Andiamocene papà”.

 Disse Cesco ancora dolorante per la caduta e impaurito. E così fu. Il mattino dopo di buon’ora i tre ripartirono con le asce levigate e una vanga. Risalirono la stretta via fino alla cresta del colle e ridiscesero dall’altra parte verso la fontana del pecoraio, da lì costeggiarono il colle verso nord, nella direzione d’ogni giorno. Alla biforcazione dei sentieri rividero il corpo alla luce dell’aurora. Aloisio non impiegò molto tempo a scavare una fossa e quel corpo gelido vi fu deposto delicatamente dai due figli.                  

“Che ne facciamo di questo? “ Disse Pasquale indicando il trombone e pensando di portarlo via con sé.                                                                                                            “ Metteteglielo sul petto” Sentenziò Aloisio. Si pensò a una croce ma in quel posto non v’erano alberi così si segnarono la fronte e ripartirono. Il boscaiolo sapeva bene chi fosse l’uomo appena sepolto ma disse semplicemente: “Un brigante!” E allungò il passo pesantemente silenzioso. Come avrebbe potuto spiegare ai ragazzi se anche per lui era difficile capire quei tempi, quante specie di briganti esistevano? Da pochi giorni erano passati da quei luoghi uomini armati fino ai denti su cavalli maestosi guidati da una specie di vescovo che si dicevano anche loro briganti, per cui era meglio, pensò, tacere di queste cose. A Napoli, correva voce, e correva soprattutto sulle labbra sudate dei baroni insolitamente nervosi, che qualcuno avesse fatto “La Repubblica”: e che era? Chissà cosa ne sarà del mondo! E il sole s’alzava piano alla sua destra come ad allontanare quei pensieri, ma mentre i ragazzi si trastullavano giocando con l’acqua di una sorgente egli li osservava pensando:

 - Ma che mondo sarà se anche i vescovi o i papi si metteranno a sparare?- Ma più che il sole fu l’odore della resina a cancellare dalla testa di Aloisio ciò che non capiva.  

Don Paolo giunse con due accompagnatori a piedi mentre lui se ne stava in groppa ad un mulo fumando.                                                                        “ Loì “ Disse. Oggi ti porterai a casa una sarma di frasche e te la conserverai per l’inverno”.

Aspettava un grazie di sottomissione ma sentì su di sé solamente uno sguardo lungo e impenetrabile. Ebbe quasi un brivido, ma sapeva di essere troppo più in alto del boscaiolo per accorgersene davvero e così passò oltre lasciando dietro sé un velenoso odore di tabacco che galleggiò sporco nell’aria oramai arida del giorno. I ragazzi pensarono di far bene ad ammucchiare presto le frasche per caricarle sull’asino in attesa della sera. Ma quel giorno il loro padre non attese che il sole calasse troppo per andar via e alle domande incuriosite dei figli Aloisio rispose che doveva vedere una persona nei pressi dei “Mantiani”. Così s’incamminarono che era giorno pieno e con l’asino traballante per i legni.                    

 Una baracca dai fianchi affumicati quasi nascosta in una valle vicino ad un enorme frassino apparve come desolata, triste e cadente. Aloisio non si turbò, s’avvicinò all’uscio e disse:

-Pasquà scarica l’asino. - E fischiettò.

 Apparve una vecchia donna minuta, curva e sorridente.              “T’ho portato un po’ di legna, sei sola? Ciccuzzu non c’è?” Disse il boscaiolo celando nella testa abbassata il rossore degli occhi.                                                                                     “ No, è quasi un mese che non lo vedo” Rispose la donna dondolando malinconicamente. E Aloisio recuperando coraggio:             “Ah non è ancora tornato? L’ho visto qualche giorno fa e mi ha detto che doveva andare in paese per una “imbasciata” e poi sarebbe venuto da te.”                                                                                 “Meno male, allora vuol dire che arriverà con qualche “vurracchia”.          I tre stettero giusto il tempo di sistemare la legna e se ne partirono.                    “Tatà chi è quella vecchia? Perché le frasche le abbiamo date a lei?”                                      - E’ una cugina di mio padre ed è sola, ha due figli maschi che ora non ci sono e due femmine sposate che abitano nelle marine e che vengono ogni tanto a trovarla”.                                    - E i maschi dove sono? E il marito? -                                                                                                  “Suo marito è morto ammazzato che i figli erano piccoli e non avendo da mangiare uno si è fatto monaco e non si è più visto, l’altro...l’altro si è “Buttato bandito...dài salta sull’asino.”

Era quasi il tramonto quando giunsero a casa. Mariangela li vide tornare così presto che pensò fosse successo qualcosa.                                                         “ Siamo passati da zia Rosina e le abbiamo portato un po’ di legna...” disse Aloisio cogliendo le domande non poste di sua moglie. Il giorno dopo sulle strade della Sila vi furono inconsueti e concitati movimenti di uomini a cavallo con strane divise.

“Questi devono essere i “Frangesi” - Pensò Aloisio che cercava di carpire qualcosa al mondo. Poi verso Piscitello incontrarono un monaco con una bisaccia sulle spalle che non mostrava timore d’attraversare quei sentieri tanto aspri.                                                “ Facciamo un po’ di cammino insieme?”                                        I ragazzi furono entusiasti dell’eccitante novità e tempestarono il religioso di domande.                                             “ Sono frate Carmine, sto fuggendo da Corazzo, cerco di arrivare a San Giovanni in Fiore, i Giacobini ci uccideranno tutti, Padre Carbone non l’ha capito che fra poco a Corazzo non resteranno neppure le mura, i sovversivi della Rivoluzione distruggeranno tutto...l’Apocalisse...”.                                                         Sulla Mandriagrande si fermarono i boscaioli e il monaco continuò la sua via crucis. Ma d’improvviso si popolò la grande foresta: da ogni sentiero sbucavano straccioni urlando, pecorai e servi, tagliaboschi e vaccari, tutti urlavano insieme mentre le pecore “s’ammuntonavano” e le asce tacevano.

Che succede ora?                                                       E uno di quella schiera variopinta, uno giovane con la barba, uno che non sembrava né un pecoraio né un boscaiolo, urlò ad Aloisio e ai suoi figli:                                                                           “Basta con i tiranni, basta con i preti, la terra è di chi la lavora! Questa è la Rivoluzione: Robespierre, libertà, uguaglianza, repubblica. W i Francesi! A morte gli usurpatori” . E l’urlo pareva venire direttamente dal cuore.                                     Aloisio s’infervorò come se avesse di colpo trovato quello che cercava da una vita, urlò anche lui e si disse pronto a seguire quegli uomini fino a Cosenza, ma poi pensò ai suoi due figli e alla moglie e si ritrasse, ma Pasquale era già nel mucchio, in mezzo al clamore e alla gioia rivoluzionaria e gli sorse una lacrima negli occhi: - Anche mio figlio farà nuovo il mondo - Pensò felice e, osservata la schiera scomparire cantando oltre lo smeraldo dei colli, con Cesco riprese la via di casa. Decise di ripassare ancora dalla vecchia zia. La baracca apparve diversa, forse il sole di quel giorno così nuovo, forse un saio intravisto: davanti alla porta c’era davvero un monaco, lo guardò: era lui, il vecchio cugino che non vedeva da anni, si abbracciarono. Ma dentro, dentro la baracca la zia Rosina stava distesa sulla paglia:                         “ Nipote mio sto morendo di contentezza, è tornato Pietro, è un santo...chissà dov’è Ciccuzzu? “                                     “ Zia, l’ho visto due ore fa: era alla Mandriagrande che cantava felice con altri uomini perché questo mondo sta cambiando...domani torna a casa, me lo ha detto...”                                                                                      “Vieni che ti abbraccio... Ma il tuo figlio grande dov’è? “                   “ E’ anche lui con Ciccuzzu, è rimasto lì, verranno insieme domani...”                          

 “ Sono contenta di morire allora” E chiuse gli occhi mentre frate Pietro recitava il rosario tenendole la mano. La coprirono con una vecchia coperta di fringi. Poi Aloisio confidò al monaco la verità sul fratello:

- E’ stato ammazzato, l’ho trovato io poche sere fa, l’ho sepolto, ma non c’è una croce...-                                                                                           “ Dove?” Chiese Pietro. E Cesco, che da allora divenne adulto:        “ E’ là, vicino al paese, dove il cavone si biforca, sopra il cavone della forcina”.

 

                              PISCIAROTTO                              Un giorno un gruppo di bambini della Trempa della Castagna, figli e nipoti di pecorai, approfittando della contemporanea disattenzione di alcune mamme che si scambiavano insulti sull’aia, s’ allontanarono verso il bosco seguendo l’istinto e senza curarsi dell’asprezza del luogo. Quando furono sul crinale e gli alberi erano più radi, sedettero stanchi. Nel frattempo le donne avevano scaricato le parole, tutte le parole che conoscevano e s’approntarono ognuna al proprio ricetto. Le parole rimaste in loro furono solo i nomi dei figli che echeggiarono quasi all’unisono nell’ aria calda. Furono guardati i crepacci, i cespugli e ogni filo d’erba. Le donne dimenticarono gli insulti reciproci e ogni mala parola fu spesa solo per se stesse. I bambini intanto avevano deciso di tornare, ma sbagliarono direzione e si diressero verso l’altro versante. Il sole era alto e vibrante. Le donne, insieme, salirono a ventaglio verso il colle: qualcuna fu certa di aver trovato le tracce del passaggio dei bricconcelli e le altre le credettero e la seguirono. I bambini non capivano dove  fossero, ma sentivano la frescura riposante del luogo e non pensarono ad altro più: più calavano più erano felici! Un rumore forte e invitante saliva dal fondo verso di loro. Si strinsero felici e puntarono senza scrupoli in quella direzione. Le mamme frattanto avevano raggiunto ansimanti la sommità della collina e diedero il via ad un crescendo di grida senza precedenti. Gli echi potenti delle loro voci si mischiarono ai suoni che provenivano dal fondo e i bambini furono stretti in melodie raccapriccianti e suggestive,  fluttuarono ammagati nell’equilibrio sonoro per un lunghissimo  attimo, poi si lanciarono giù. Tra erbe rigogliosissime e verdi di umidi fili camminavano sprofondando i piedi dentro la terra molle finchè il tuono ululante ebbe un volto: cascata d’acqua limpida precipitava con mormorio fragoroso da una balza lanciando veli freschi intorno, i bambini sentirono sui visi carezze incantate. Nel frattempo giunse sul colle un uomo che aggredì verbalmente le donne con urla e bestemmie, poi si lanciò nella valle senza remore. Alcune donne provarono timidamente a seguirlo, ma dopo pochi metri, temendo l’ignoto del luogo, tornarono indietro. L’uomo procedeva a passi lunghi tra le felci immense e le siepi di rovi in quel luogo stranamente privo di alberi ma denso di cespugli d’ogni genere. Talora si fermava e urlava dei nomi, ma anche lui dopo un po’ cominciò a sentire una specie di rombo monotono e cupo. Ebbe un attimo di esitazione, ma subito, stringendo l’amica ascia alla cintura, riprese a camminare. Il rumore si faceva più intenso man mano che scendeva e anche i cespugli diradavano: solo ampie radure, distese d’erba umida e verdissima gli si paravano davanti. Si fermò un attimo e tese l’orecchio. Come  a scalfire quel marmoreo, continuo suono, percepì l’acuto di una voce infantile.  Scordò la fatica dell’andare: con le mani spostava l’erba e non dava segno di temere le ortiche giganti che gli si schiacciavano sulle dita, che gli sfioravano le tempie. Le acute voci infantili furono più nitide ed egli emise un sospiro profondo. Davanti a lui il gruppo di bambini seduti ridenti che battevano le mani al coro della caduta maestosa dell’acqua, al rigoglio delle pozze, alle gocce aeree che schizzavano sui loro piccoli visi. L’uomo rimase attonito per un momento, poi si asciugò il sudore e andò vicino ai bambini lentamente. Essi se lo videro davanti all’improvviso come un corpo estraneo che turbava un’atmosfera ammaliante.

- Adesso ci porti a casa? - Disse il più grande di loro. E lui:               “ A calci in culo! “                               Ma li portò uno per volta in braccio alle donne che si muovevano nervosamente ormai nei dintorni. Il sole non era più tanto caldo, ma il sudore dell’uomo colava come un ruscello sopra le sue tempie, eppure lasciò i bambini alle donne e ritornò giù da dove era salito. Esplorò con attenzione il terreno, osservò i mille tipi d’erba che costellavano il luogo, toccò i radi, giganteschi alberi che si slanciavano verso l’azzurro e la loro molle corteccia, ma cercò con gli occhi la folle caduta d’acqua e pensò che quello poteva essere un paradiso per le sue pecore. Bisognava strappare via le erbacce, costruire una via agevole da percorrere e lavorare di zappone. Se ne tornò al tramonto verso le casupole del villaggio con dei progetti  e pensava : “Questo pisciarotto d’acqua mi darà molte soddisfazioni”.            

                                                                                               

 

                                LA LUSTRA  

 

 

      Il ciliegio, vecchio e possente, si vedeva da lontano per il rosso vivo dei succulenti frutti. Il ragazzo, sfuggito al giro degli occhi del padre, giunse ansimando sotto i suoi rami. L’imbroccatura era però protetta da fasci di rovi e il ragazzo rimase deluso e scoraggiato. Suo padre lo riebbe presto nel giro del suo sguardo e lo raggiunse in silenzio, quasi di nascosto, cauto come un gatto. Appena gli fu vicino e vide i suoi occhi umidi davanti all’ostacolo spinoso che gli impediva di arrampicarsi a quei frutti splendidi ebbe un moto di compassione e di rabbia: era suo figlio! Restò per un attimo indeciso sul da farsi tra l’affermazione della sua autorità e la rabbia del dolore per la tristezza visibile del ragazzo da esprimere con un parola buona e si bloccò dietro le felci. Poi pensò che fosse un buon compromesso dire: “che fai qui?” Papà avevo fame...”

   E quella parola fece il giro dell’aria prima di piantarsi come un palo davanti ai piedi dell’uomo. Saverio abitava, con i figli e la moglie, nel pagliaio, poche decine di metri più a valle della grande casa del padrone. Quando le pecore furono già negli stazzi e il sole era già tramontato, egli affilava i denti su dure scorze di pane e pensava alla dispensa della grande casa, ai “salatori” di grasso con le salsicce conservate dentro, ai capicolli e ai prosciutti che pendevano dalle travi. Talvolta capitava che anche lui entrasse in quelle stanze per qualche “imbasciata” e si riempiva gli occhi di gioia: solo gli occhi!

Quella sera non gli riusciva di prender sonno nonostante la stanchezza accumulata e uscì nel prato davanti al pagliaio. La luna era giovane e chiara e invitava a respirare la serata. Dalle finestre del castello s’irradiava un alone di fioca luminosità e, a tender l’orecchio, si udivano voci e risate. Saverio fu spinto ad avvicinarsi, ma con cautela: sapeva di alcuni cani poco disposti a fraternizzare, e quando giunse nei pressi, seminascosto da un grande melo, si fermò e le voci divennero più nitide, ma la sua attenzione fu attratta da una lucina intermittente che si intravedeva da una finestrella bassa sul muro, una lucina che si muoveva fulminea: appariva e spariva. S’incuriosì, si incollò al fusto del grande melo e attese. Dei cani nemmeno l’odore! Dopo un po’ sentì un cigolio come di una porta che si aprisse. Allungò il collo e vide due figure venire fuori da una porticina  a filo d’erba. Fu invaso dall’odore della “deda” bruciata appena uno dei due soffiò sulla lucina. Ma il chiarore lustro di quella sera bastò a vedere i visi delle due persone e  i prosciutti che stringevano  sul petto. “Cazzoni”. Pensò Saverio - “Io avrei portato un sacco!” Ma poi si disse : “Forse questi due non posseggono neppure scarpe per camminare”. A quel punto udì un timido latrare e fuggì verso il suo ricetto. Dai pressi del suo pagliaio gettò uno sguardo ancora alla grande casa e vide le luci spegnersi e tutto tacque nell’alone lunare. Il mattino seguente partì con il gregge verso i pascoli d’altura passando proprio davanti la casa del padrone. Osservò con attenzione ma non notò nulla di strano, neanche i cani del gregge diedero particolari impressioni. Intorno al mezzodì il figlio del padrone, un ometto mezzo calvo, nonostante l’età giovane, assieme ad un “caporale” curvo sotto il nero berretto lacero, lo raggiunse.  - Savè - intimò - vieni con me a casa che mio padre ti vuole parlare che qui alle pecore rimane Totò .- E s’avviarono verso valle.                                                                                           Il figlio del padrone marciava muto e austero, Saverio lo seguiva passo passo pensoso, pensando le cose più strane e proprio oggi che suo figlio Alfredo non era con lui. Il padrone stava seduto come sempre sulla veranda impugnando il fedele bastone come una sciabola e l’eterno largo cappello in testa. - Savè sali che la strada la sai...-   Il pesante portone era socchiuso, l’uomo lo spinse con delicata reverenza e prese la lunga scala di gradini di pietra quasi chinandosi all’aria che respirava. Camminò lesto sul corridoio fino al balcone dove con gesto servile si tolse il cappuccio di lana incollato sulla testa sudata e ossequiò don Bruno. - Siediti Savè - disse il vecchio indicando uno sgabello.                                            “ Don Brù comandate...”                                                                                - Tu sei molto tempo che stai con me, sei un lavoratore serio e rispettoso, sai qual è il tuo posto... Certo qualche marachella anche tu l’hai combinata, ma sei troppo furbo per rischiare inutilmente...Ma i tuoi figli? Sono come te? Quel Micheluzzo, per esempio, che se ne va in giro giorno e notte... E Mariano? Dov’è Mariano? Che è un bel po’ che non lo vedo. E Alfredo perché oggi non è con te?                              “ Barù che volete da me?”.   Interruppe implorante Saverio.        - Ti voglio offrire un altro lavoro, più importante, più di fiducia, voglio capire come sei fatto davvero...-                                            “E cosa devo fare?”                                               - Da domani lavorerai qui, in casa, e attorno alla casa di notte: farai la guardia, ogni cosa che manca l’addebiterò a te. Avrai il controllo della dispensa -                                         “Ma le pecore...”                             - Tu ti devi preoccupare delle pecore solamente quando te lo dirò io, hai capito? Pecorarazzo!                                                         - Saverio abbassò la testa stringendo il suo cappuccio umido di sudore tra le mani, munse gli occhi e disse:                                        “ Come volete voi don Brù”.                                           Nella dispensa, un ‘ enorme cantina fredda e scura a cui s’accedeva da una botola, pendevano come manne pancette e soppressate, capicolli, prosciutti e catene di salsicce. L’uomo camminava con il naso rivolto all’insù e come un lampo piombò nella sua testa un’idea: -forse pensano che sia stato io a rubare ieri sera, o qualcuno dei miei figli: Micheluzzo? E vogliono mettermi alla prova. Ma con tutti questi salami come si sono accorti che ne manca uno? Ecco perché quegli uomini ne avevano uno solo: per fare in modo che il padrone non se ne accorgesse, ma lui se ne è accorto! C’è solo una spiegazione: li hanno contati e li ricontano ogni giorno. E ora vogliono incastrare  me. E io ho fame -                       Poi un raggio di sole picchiò a terra e Saverio vide una finestrella e ad essa s’avvicinò ripensando ai due uomini della sera prima, la finestrella era inchiodata dall’interno! Riguardò i tesori penduli e ripensò: - Devo trovare il modo di abboffarmi...-  Risalì dalla scala a pioli e uscì davanti alla casa. Don Bruno era proprio lì che carezzava i cani e parlava con un tale che rideva a crepapelle, ma appena lo scorse :    

- Oh Savè hai visto quanta roba? Questo è adesso il tuo lavoro, controllerai le mura del palazzo di notte.-                                      “ Don Brù ma ci sono i cani...”                           - Per certa gente ci vorrebbero i lupi! - E l’ospite rise forte voltandosi verso Saverio. Quel volto...”Ma è lui l’uomo del prosciutto” Si disse Saverio sgranando gli occhi. ”Che bella sagoma d’amico! E ridono di me? Forse mi vogliono fare qualche scherzo!” Qualche giorno dopo, mentre Saverio teneva il cervello in moto, il figlio del barone scese nella dispensa.

“Savè, aiutami a contare”

Disse sussiegoso. Saverio, il cui cervello oramai era surriscaldato, sorrise. -sapevo che li avevano contati, questo mezzo uomo è più stupido dei cani di suo padre. -Pensò.

“ Allora , cominciò don Peppino, era questo il nome del baroncino: prosciutti, salate, capicolli, soppressate e salatori con dentro le salsicce per mantenerle fresche nel lardo, bello il lardo, liscio liscio . Ma Savè queste cose tu non le puoi toccare, le puoi mangiare solo con gli occhi, ih! Ih! “ E rideva con la matita in bocca e continuava cattivamente: “ Le puoi mangiare solo se noi, noi, continuiamo a vederle. E’ possibile? Bravo Savè, tutto a posto,” e rideva con il quaderno in mano. Quando don Peppino se ne fu salito il cervello di Saverio cominciò a elaborare le parole del baroncino: - le puoi mangiare solo se noi continuiamo a vederle. Certo... pensò Saverio - mangerò le carne delle soppressate e riempirò il “sacco” di terra rossa. No non è possibile! Ma il cervello era in moto. E gli occhi si posarono sui salatori di grasso: bello il lardo, liscio liscio, e vi infilò un dito e toccò le salsicce fresche là immerse. E vide la soluzione in un attimo. Il giorno dopo portò con sé una pietra ferrigna raccolta sulla riva della fiumara e un cucchiaio di legno che lui stesso aveva fatto nelle lunghe ore sui pascoli. Prese un “salatoro” e lo adagiò lateralmente, colpì con la pietra il fondo fino a rompere il coccio e dal foro infilò il cucchiaio e tirò giù lardo e qualche pezzo di salsiccia che divorò. Rimise in piedi il recipiente e tutto sembrò come prima: bello il grasso, liscio liscio....Passò il tempo e don Bruno convinto ormai che l’uomo non avrebbe mai toccato nulla delle sue leccornie lo rimandò alle pecore. Una sera sul tardi Saverio che non prendeva sonno, e la luna era luminosa, e camminava sul prato, vide i due uomini dell’altra volta armeggiare attorno alla finestrella. Il suo cervello era diventato un vero motore. Quando si accorse che non ce la facevano ad entrare, ebbe un’idea. La mattina del giorno dopo andò da don Bruno e gli disse di aver visto due uomini al chiarore lunare entrare nella dispensa e uscire con due salatori di grasso e ridendo dicevano che sarebbero ritornati con un sacco marinise l’indemani. Il barone in persona la sera successiva s’appostò con Saverio e i suoi figli armati di bastone, sotto l’ombra del ciliegio. La lustra della luna rese chiari i profili dei due uomini che si dirigevano verso la finestrella con un pezzo di ferro. Aprirono ed entrarono. Fuori don Bruno disse: O luna allustra questi farabutti di modo che in questa lustra ci restino! Quando i due uscirono con il solito prosciutto, furono presi dolorosamente a legnate e don Bruno riconobbe il suo pari don Pasquale che rubava come un morto di fame. “ Pure il lardo ti sei rubato, pure il lardo...

Da quel giorno, o meglio, da quella notte lunare il posto si chiamò Lustra e Saverio divenne il caporale.                                                                            

 

                LA MONTAGNA DELLA LUNA

 

 

Ogni mattina, presto, prestissimo, Cinghil guardava il cerchio rosso perfetto alzarsi da dietro la montagna lento e maestoso e lo fissava finchè gli occhi glielo consentivano, poi si nascondeva dietro le robuste foglie di fico del suo disordinato orto, dove già le gallinelle e i pollastri d’ogni razza setacciavano la terra nera. L’acqua ai colombi era già fresca dentro i canaletti di cemento che egli stesso aveva costruito. Il grugnire dei maiali lo infastidiva, odiava quelle bestie e stringeva al petto solo i suoi piccoli, morbidi criceti che anteponeva nel cuore agli stessi conigli, quegli animali per cui era famoso, e che addirittura, talora, minacciava con bastoni o acchiappava per la coda lasciandoli cadere a testa in giù senza pietà. Cinghil fumava lunghe sigarette senza filtro, per non sprecare nulla, a volte, infilzava i mozziconi con un ago e l’ultimo millimetro lo faceva consumare soffiandoci sopra fino al completo incenerimento.

Quella mattina, mentre il silenzio dell’alba stava rompendosi, il sole non ne voleva sapere d’alzarsi. “Mi costringeranno a comprare un orologio!” Pensò. E già la pelle cerea del suo polso fu scossa da brividi.  Poi un odore di bruciato gli entrò nel naso e capì che il fumo d’un lontano fuoco mattutino e strano copriva la palla rossa. Intanto i rumori del giorno cominciavano pian piano a sentirsi, come le fischiate complici di qualcuno dei suoi ragazzi che lo chiamavano da dietro il cancello incatenato al muro. - Chi sarà a quest’ora? Sono tutti a scuola! - Tutti meno uno: Francesco era lì, dietro il cancello con i suoi calzettoni lunghi sulle ginocchia, i suoi pantaloni corti e la scrima unta mentre dalla mano sinistra pendeva una cartella consunta.

“ Qua non puoi stare” gli disse Cinghil - se viene mia mamma... - Egli aveva un timore sacro  di sua madre: avrebbero potuto dirgli o fargli tutto , ma non parlare di sua madre. - E adesso dove lo nasconderò? -  Poi però lo fece entrare e lo sistemò dietro la porta, tra il muro e la gabbia dei  conigli. Poi lui cercò un posto da cui poter osservare da dove venisse il fumo e non trovò di meglio che montare su un ceppo di quercia che stava lì davanti da tempo immemorabile. E vide dal bosco di fronte salire compatta una nuvola nera. Ridiscese e restò pensieroso guardandosi le scarpe. Si  ricordò  di  Francesco e lo trovò immobile e spaurito nell’angolo dove lo aveva lasciato. Gli diede una sigaretta dicendo: “Queste sono buone, vengono dalla Francia! “ E il ragazzo dopo un tiro a quelle Gauloises non si trattenne dalla tosse che Cinghil fu costretto a riprendergli la sigaretta e a pensare: -Ma questo è un bambino, che cosa posso fargli fare? Lo porterò con me a “Pietrogiovanni” e lo terrò fino a mezzogiorno a riempire “vumbue” e “Varrili”, questo saprà farlo nonostante la sua faccia da imbranato! Ma quando furono sopra i massi pietrosi che sovrastavano la sorgente Francesco parve mutare aspetto, estrasse una “Muratti ambassador” con doppio filtro: bianco e nero, e intimò a Cinghil sorpreso: “Fammi accendere!” - E questa dove l’hai presa? - “ Me l’ha data Federico dell’avvocato che l’ha rubata al fratello assieme ad una “Senior service”,  lui la sua l’ha già fumata, io l’ho conservata per oggi, per questo non sono andato a scuola!” - Va bene, prima fumi e dopo prendi l’acqua, così ce ne andiamo da qui.- Così dicendo gli occhi di Cinghil salirono sulla montagna di fronte, che era quella che vedeva da casa sua, ma da quaggiù pareva toccasse davvero il cielo con quei colori cangianti d’autunno. E dal cielo, da dietro il fumo ormai diradato apparve rosso il sole, rosso e rotondissimo. Ebbe quasi paura, non l’aveva mai visto così grande che sembrava vicino. Prese Francesco per un braccio e disse: - Adesso andiamo, non vorrei che Pasquale Pirano passasse da qui ora e ti vedesse - E mentre andavano ricordò che a volte, anche in Novembre, resiste l’uva. La vigna del medico era lì, di fronte a loro, magari adesso il veleno che quell’individuo aveva spruzzato sugli acini era volatilizzato o lavato dalle piogge e infilò Francesco sotto  il filo spinato. Il ragazzo eccitato dall’avventura non fece caso ai cardi scheletriti che gli graffiavano le mani e le gambe e in un attimo rotolò nella vigna. Staccò grappoli e ritornò da Cinghil. Mangiarono voracemente l’uva e andarono via. Poco dopo Cinghil si rivolse al ragazzo con aria paterna: - Bèh! Adesso l’avventura è finita, vai a casa e dici a tua madre che siete usciti prima da scuola perché è morta la zia del professore di Catanzaro e se ne è dovuto andare per il funerale..! Francesco si convinse e sparì senza una parola oltre il cancello di legno. Così solo Cinghil gettò lo sguardo verso il sole, ma ora non lo poteva guardare. Accese una sigaretta e s’appoggiò con i gomiti sulla gabbia dei conigli: c’era Bianchina che diventava grande a vista d’occhio, c’erano i gemellini, unici vivi di una figliata di otto, che saettavano da un angolo all’altro 

e c’era “Pullitru” un gigante! Poi passò in rassegna i colombi: alcuni piccioni appena “volantini” saltellavano sulla siepe, lui li spingeva pizzicandogli la coda, altri “rugliavano”, segno che erano pronti all’amore...insomma in età da sesso! Così contento Cinghil trascorse quella mattina. A mezzogiorno la madre lo chiamò al pranzo, ma in un baleno tornò alle sue creature. Nel primo pomeriggio, dopo la scuola, ad uno ad uno, cominciarono ad arrivare i suoi “allievi”, mancava solo Francesco Tenefui, forse il dritto padre non aveva bevuto la storia del funerale e Cinghil si fece una risatina! Gli altri ragazzi furono subito investiti dei soliti compiti: chi a tagliar l’erba per i conigli, chi a portar acqua ai colombi, chi a contare tutte le bestie,  chi a vedere se in giro nel paese qualche operaio  avesse “scordato” qualche tavola nel cantiere...

Oramai l’autunno era inoltrato e di frutti non ce n’erano quasi più, perciò la squadra addetta alle “visite” negli orti veniva utilizzata per andare a comprare le sigarette “Stop” e i panini con la mortadella tagliata grossa, o, al limite, di guardare bene se nel paese ci fosse qualche gallinella smarrita.... Quando cominciò a far buio i ragazzi tornarono alle proprie case sudati e soddisfatti della giornata sociale. Cinghil, dopo cena, usciva per il paese e si fermava per ripararsi dal freddo, non portava giacche, nelle bettole : unici luoghi d’incontro.

Qui cominciava con il bere una birra, poi entrava inevitabilmente qualche tipo strano, tutti i tipi strani erano ovviamente suoi amici, e le birre divenivano due, quattro, ecc. ecc. Poi s’arrabbiava e urlava che non beveva alcolici, solo brandy! A quel punto veniva sistematicamente scaricato dagli “amici” occasionali, rimanevano attorno a lui che scalciava come un mulo, coloro che lui diceva di disprezzare perché non bevevano e che poi di forza lo trascinavano letteralmente a casa, staccandolo dai muri a cui s’aggrappava tenacemente perché il pensiero della vecchia madre che lo attendeva insonne diventava insopportabile. Ma quella fredda notte di novembre non era rimasto nessuno vicino a lui e uscì da solo. S’incamminò fumando per darsi un contegno, nonostante le sbandate, tra le case più vecchie del paese, tra le case cadenti abbandonate da anni, sentì un rumore. Dopo un attimo apparvero degli strani cani. “ Via, via..” Urlò. Ma quei cani non si muovevano, lo fissavano senza indietreggiare. Fu lui con cautela ad allontanarsi, ma sentì che gli animali lo seguivano al buio. Giunto vicino casa si voltò e dietro sé vide ancora gli occhi brillanti nel buio: tremò! E d’improvviso udì un fruscio in direzione della montagna dei suoi mattini, gettò lì gli occhi come per aggrapparsi e una luna immensa sorgeva con un alone indicibilmente candido. Restò a guardare per un tempo incommensurabile e sentì come un volo: i lupi erano scomparsi!  

 

               LA LEGGENDA DEL PALLONE

  

Quando mia madre mi portò a Napoli dall’esimio prof. Augusto Scalise per un consiglio sulla  fistola che tenevo in gola avevo cinque anni e già frequentavo la prima elementare: avevo imparato a leggere l’anno prima. Il grande medico ricordò d’essere nato anche lui a Castagna e forse, nonostante le sue malcelate borie, la portava ancora in qualche angolo del cuore perché incollata alla sua adolescenza con le sue crudeli dolcezze e guardandomi e scrutando la mia commovente gracilità e la rozzezza di mia madre, stupefatto della mia vispa prontezza a leggere tutte quelle parole stampate su quell’immensa stanza piena di libri e di quadri e di vasi, mi disse:      “ E’ bella Castagna, vero? Cosa vorresti da Napoli da portare al tuo paese per farlo ancora più bello?” - Il mare - Dissi io ridendo e saltando. E lui senza scomporsi, mentre mia madre non sapeva che pesci prendere, tirò fuori una bottiglietta e mi disse: “ Metti l’acqua del mare qua dentro e portatela a Castagna, nascerà anche laggiù un azzurro mare!” Ed io rivolto a mia madre:

”O mà duve u mintu? - E lei : - duve vò tu - E io raggiante : -Allu chianu!” Il “chianu” era un piano sopra casa mia ove i castagni seminavano di ricci il terreno anche nella breve isola che vedeva le gambe implumi dei ragazzi correre fino a scoppiare dietro ad uno straccio che chiamavano pallone, quando io, sfuggito ancora una volta alla presa delle grandi mani della genitrice, li osservavo attento. Ma giunto a Castagna con il sogno struggente del mare in tasca mi arrampicai fino al piano: e rividi quei ragazzi e stavolta m’invitarono a correre anch’io dietro a quelle pezze legate con il fil di ferro e a gridare : “Sigori Sigori” (Sivori, Sivori). Mi entrò allora nel sangue una leggenda più struggente di qualsiasi mare: scordai la bottiglietta per sempre. Da allora ogni sera con il pane in bocca attendevo che passassero i ragazzi: Bisonte, i fratelli Cocolicchi, Carmine della Cabellota, Luigino di Caterina, Filippo Macinello e Ligino di Giovita, Quarto Liscio, Gino Sciorta, Felice e Armando del Crapio col piccolo Nicola, Turuzzo di Fiorina, Bianchino, Nicola della Tosta, Colbert, Virgoletta, Serafino Panchione, Vecchio Manto, Ndringhiti, Tonino del Cantoniere, Chiavino, Luigino il Putighinaro, e dietro, lungo le loro scie, i miei coetanei più duri : Peppino di Barberi, Franco di Lucia di Pirano, Emilio della Filagrossa, Brunetto di Fressura, Giovanni dello Abbattararo, Francesco di Marchionno e Filippo Cutrumbulo, spesso anche due oriundi “ mutati” di Catanzaro: Geniuzzu  e Fidericu, segnati anch’essi nel sangue dal pallone. Così piano piano qualcuno di noi piccoli cominciò a entrare in qualche partita, ma per lo più noi stavamo dietro le porte, segnate soltanto da pietre, a raccogliere i “palloni” che prendevano spesso la china dei burroni e degli strapiombi. Poi, erano altrove gli anni fantomatici del “boom”, molti dei “grandi” imboccarono la via segnata del loro destino di partenze , e si aprirono le porte dell’esordio competitivo a molti di noi piccoli. Con il tempo il boom anche da noi finalmente si espresse: vedemmo allora i mitici  palloni di cuoio con camera ad aria e beccuccio e cucitura della “corazza”. Arrivarono  le “divise” nuove e luccicanti addosso a quelli che tornavano per la prima volta d’estate a ostentarle come segno di appropriazione di una dignità mai avuta, arrivarono le divise da Torino, città simbolo, arrivarono a strisce bianche e nere a suggellare quale dovesse essere il mito invincibile dei poveri: l’identificazione con i propri carnefici. E fu così, senza colpe della “Juventus” che presi a odiarla e volli farmi diavolo rosso e nero: colori che inseguìi ovunque. Memorabili furono le sfide tra milanisti e juventini. La mia prima partita tutta intera finì venti a venti, sospesa a causa di una nuvola che coprì la luna. Spesso restavo a guardare i grandi giocare e gridare, bestemmiare e poi ridere a squarciagola, ripetere come formule magiche i nomi stravolti dei calciatori nell’impeto agonistico, nomi deformati dalla distanza tra il loro vero mondo e quello nostro: erano allora i mondiali del 1962 e l’unico nome ripetuto correttamente era Pelè. Violenta e appassionata fu una delle prime partite giocate a tempo: solo sei ore, dalle 14 alle 20. La partita era quasi finita quando Filippo, un milanista, scagliò la sfera verso la porta avversaria difesa da Marianello di Chiavino, alto poco più di un metro e venti: “Alto!” Sentenziarono i terzini. E lui stanchissimo ma determinato: - No! E’ gollo. Voi in porta ci mettete un pigmento! -  Il mio più grande sogno era quello di avere un pallone tutto mio e l’ebbi un giorno. Me lo portò mio zio da Napoli: un pallone di gomma, tutto rosso che io disegnai immediatamente con strisce nere usando un carbone e sul quale tirai calci lungo la via faticosa e irta che saliva verso “Malosperanza” andando dietro, quella volta felicemente, a mia nonna e a mia madre senza stancarmi e senza lamentarmi. Quando fui finalmente sull’altopiano, sul prato immenso che mi si apriva davanti come un universo da acchiappare, da ingoiare, il pallone scalciato con tutta la forza viaggiò più del solito e finì dentro un roveto sgonfiandosi velocemente sotto i miei occhi come i sogni schiacciati sul viso sonnolento del mattino. Piansi e  strinsi la gomma morente tra le mani, la celai in un buco del muro dell’antico casolare dei miei nonni come un’offerta sacra alle radici del tempo e dell’immensità.     

 

IL RISVEGLIO DEL CAVALIERE DELLE STELLE

 

      La casa era solitaria,  appena fuori paese, immersa nell’orto di cipolle e lattughe, quasi  nascosta tra i fichi e i pergolati, appisolata ai piedi di antichi castagni morenti.

A sera, nella fulminea sera invernale, fredda e piena di sé, Ginetto lasciò sul cuscino il libro di filosofia aperto su Platone senza averci capito granché e  scivolò, stringendo al petto una sciarpa e negli occhi una specie di sorriso, lungo la strada annerita che conduceva verso il gruppo  di case raccolte a cerchio e illuminate dal grande lampione che il comune aveva appena messo per dimostrare che i sindaci, nonostante tutto,  esistono, dove anche il bar fiondava tenui colori e luci agli occhi inquieti e ribelli  dei suoi amici che lì l’attendevano per la grande e unica avventura a loro concessa: la passeggiata serale con risate e grida al cielo nero. Ma quella, una sera come le altre, mentre camminava quasi danzando con sorrisi celati tra le labbra,  proprio prima della curva grande oltre la quale avrebbe veduto le proiezioni strambe delle luci, si trovò davanti, appena appena disegnata dalla luna chiara, una sagoma enorme e impressionante. Ristette il ragazzo schiacciato da un impatto visivo violento e inconsueto: un mulo sostava tranquillamente nel bel mezzo della strada. Il freddo serale si fece improvvisamente più intenso e i brividi arrivarono alla faccia. Ma con coraggio e lentamente il ragazzo aggirò l’animale e oltrepassò la curva: non si voltò. Nei pochi metri che oramai lo separavano dalla piazza del bar pensò milioni di cose e i film di cow boy visti alla sera in televisione parevano avessero sfondato anche i confini estremi del suo dimenticato paese. Gli amici stavano quasi tutti dentro al bar a ripararsi dal gelido alito dell’inverno: anch’egli entrò strofinandosi il naso. Sedette vicino al tavolo ove gli altri giocavano a carte con il mozzicone stretto tra i denti e osservò il fumo delle sigarette salire veloce verso il soffitto: sorrise agli amici e distese le gambe sul pavimento come se avesse finalmente trovato quello che cercava. Gli amici ridevano stranamente e quasi sfacciatamente: uno di essi gli fece segno, Ginetto si voltò  e vide un uomo con un cappello nero calato quasi per intero sulla faccia che a stento si appoggiava con i gomiti e col petto al bancone del bar,  mentre le sue gambe dinoccolate danzavano divaricandosi pericolosamente. E fu allora che costui  girò la faccia verso i ragazzi esibendo nella mano un quartazzo di vino e negli occhi il rosso di un tramonto. Ginetto ebbe ancora un brivido e non capì se di freddo o di altro. L’uomo si avvicinò al tavolo  aprendo la bocca al riso e mostrando un paio di denti perduti sulle gengive e non parlò: osservò per un attimo, poi ingoiò il vino e svanì.

Qualche minuto dopo tutti i ragazzi furono fuori. S’incamminarono vociando lungo la strada e sfumava lentamente la luce della piazza e i riverberi del locale sparivano: il buio che avevano di fronte li ingoiava a poco a poco. Ginetto non parlava, immaginava un vecchio pistolero texano che aveva smarrito la strada e che ora cavalcava solitario sopra le praterie dell’Arizona ricordando il nome di un paese perduto nel  buio: Castagna. La passeggiata quella sera durò poco: un’atmosfera inconsuetamente mesta pareva avesse abbracciato anche i più imperterriti e focosi ragazzi del gruppo e così, dopo la pisciata rituale, i ragazzi sciamarono in silenzio. Ginetto, mise la sciarpa sul muso e guardò la lunga strada nera che lo avrebbe portato a casa: Platone era sicuramente ancora lì: Atene non era più quella di una volta, i “ Carri Alati” correvano via trascinati da cavalli imbizzarriti.

 Ma all’improvviso, quando si accorse d’esser rimasto solo che i suoi amici erano già volati, il cielo parve illuminarsi: molte stelle apparvero nella volta del cielo e lo resero chiaro. Camminò così più spedito e dietro la curva ricordò il mulo, ma non c’era. Pensò a quell’uomo e si disse che certamente non un pistolero ma un cavaliere portato dalle stelle doveva essere sceso su quella strada e ora alla luce stellare era volato via. E Platone ritornava nella mente più chiaro nel mito della caverna. Ma subito apparve ancora l’animale: stavolta ai margini della strada. Ginetto gli andò vicino: proprio sull’argine, dove i fili d’erba sembravano aghi inghirlandati, un uomo dormiva quasi sotto la pancia del mulo. Il cavaliere venuto dalle stelle aveva deciso di sostare ancora un po’ sulla terra. Ginetto lo osservò ora che la luce del cielo lo consentiva: e vide una bisaccia adagiata vicino alla testa dell’uomo. Forse strumenti siderali si celavano in quella sdrucita sacca, strani comunicatori radio tra il cavaliere e le astronavi madri sostanti sopra le nuvole e provenienti dall' Iperuranio:  quell’uomo assumeva i connotati di un uomo che aveva spezzato le catene ed era fuggito dalla caverna incontrando le ombre, le statue, gli uomini e la luce e aveva solamente desiderio del “Ritorno” a salvare gli altri!

 Ma il suo viso nero d’anni e di freddo, secco e serrato, tradiva ben poca filosofia. Poca ascesi, poca mistica! Solo, forse, contemplazione!

 Così Ginetto se n’andò cercando nel cielo carri alati.

 La mattina dopo, presto per la scuola, Ginetto ripassò dalla strada ripetendo a mente il  mito della caverna, ma con gli occhi cercava il mulo. Nulla! L’argine appariva intatto e il consueto deserto s’apriva allo sguardo. E la sera, quando il freddo prendeva possesso delle case e delle cose e un buio di catrame si scioglieva davanti agli occhi, Ginetto usciva alla ricerca di una vita, di una risata. Apparve allora di nuovo il mulo, apparve di nuovo nel mezzo della strada: legato stavolta dalle redini al palo di una siepe. Il ragazzo osservò alla luce del cielo se ci fosse qualche altra figura nei dintorni e con lo sguardo voltato all’animale continuò poi il suo cammino. Nel bar gli amici bevevano birra e ridevano dell’uomo col cappello nero, eccitato in racconti strambi di battaglie e cannoni, di treni zeppi d’uomini e d’altri mondi. Ma l’uomo beveva solo vino e i suoi occhi arrossati fendevano l’aria cupa di fumo del locale e il suo viso tagliente sembrava staccarsi dal resto del corpo e volare. I ragazzi tentarono di portarlo con loro fuori dal bar per una passeggiata al chiaro di luna, al chiaro di una luna a pezzi, al chiaro di un mondo disteso, ma lui disse di no con la testa gettata all’indietro facendo segno di dover andare via verso un mondo che pareva dovesse essere solo suo. E Lo guardarono camminare sulla strada solitario e barcollante come un fantasma che si frantuma lentamente nella rugiada. Ginetto quella sera pensando alla via di casa aveva paura come se quell’uomo fosse davvero un essere venuto da un altro mondo, ma non manifestò i suoi timori agli amici, cercò solamente di convincerli a passeggiare nella direzione della sua casa. Così, mentre le ultime risate si perdevano congelandosi nel buio, un gruppetto di quattro ragazzi superstiti oltrepassò intorno alla mezzanotte la curva grande. Non c’era più luce se non quella delle stelle inchiodate alla volta oscura e avida dell’universo. Ma sottilissima la poca luce disegnò all’argine della strada un enorme mulo disciplinato e silenzioso: quasi immobile, e sotto la sua pancia, coricato sul cuscino dell’erba gelata russava l’uomo del bar, il cavaliere venuto da chissà dove. I ragazzi si misero a ridere ma d’improvviso un rumore parve salire dalla terra e proiettarsi sulla superficie attraverso la bocca dell’uomo e i ragazzi fecero un passo indietro come impauriti. L’uomo si rigirò e si sedette con uno scatto ardito: in quel momento una stella cadde sulla sua testa e illuminò i suoi occhi spalancati e lui s’alzò: con la stella in testa montò sul mulo e volò via.  

 

                         LA LEGGENDA DI PETRALBA        

 

Petralba era lì inchiodata al vento, ma il manto dell’uomo che saliva era troppo pesante perché il vento lo schiodasse dalle sue spalle. Troppo forte era l’uomo perché il vento non avesse paura: i suoi occhi gelidi fendevano l’aria  e il vento scomparve. Ma di fronte alla donna quegli occhi si sciolsero e una leggera smorfia di sorriso rigò il volto crudo dell’uomo. Petralba gli mise le braccia al collo. Lui fece fare e ricambiò con una carezza sui cortissimi capelli disordinati. Poi ancora in silenzio si guardarono percorrendo con gli occhi la strada rovente di quello che restava della loro vita. Molta vita era passata: Trent’anni erano tanti! Pasquale detto “Fuoco” viveva e amava e uccideva nei boschi da oltre dieci anni, lei, la dolce Petralba, già da otto, ma da sempre stavano insieme, da quando correvano al fiume scalzi e nudi e si bagnavano ridendo.

Da bambina, già da bambina, per il suo testardo mutismo, per i suoi occhi neri che non si staccavano da ciò che voleva, per il suo stringere i pugni, fu chiamata “Pietra”, ma quando sorrideva si apriva il cielo. E lui, di pochi anni più grande, fu innamorato dal suo visino un giorno di Aprile, proprio all’ora che il sole sorgeva vellutando di rosa i germogli dei boschi: “Pietra all’alba” egli sognando la chiamò e ne fu prigioniero! Da allora i giorni correvano segnati da un filo sempre più tenace. La loro gioventù però scoprì subito la fame, le ingiurie, la morte: e per lui furono i boschi. Lei lo aspettava sempre, aspettava di vederlo tornare dal sentiero quando imbruniva, quando il timore della legge declinava, per un minuto insieme, un minuto e poi di nuovo le foreste! Finchè un giorno Pietra lasciò la sua casa e i suoi fratelli, sua madre e se ne andò inseguendo l’amore. Ma che vita era quella? Freddo e fughe! Eppure quando stavano insieme, quando insieme percorrevano i sentieri tra i faggi e i pini secolari, dritti al cielo come lunghe canne di fucili, sentivano che quella era la loro vita e le risate e le corse, le paure e le emozioni di quando lei lo vedeva passare davanti casa forte e sicuro di sé erano vive ancora  e i timori di quando lei lo guardava di nascosto scomparire oltre le siepi si ripetevano ogni giorno, anche se ora era lì, accanto a lei. Ma per quanto ancora? Soldati e spie gli erano addosso, falsi  amici sapevano troppe cose di lui e dei suoi cammini. Gli occhi neri di Petralba, la sua magrezza dolce e quel sorriso vibrante facevano tremare ancora il cuore di un vecchio brigante ormai stanco. Abbracciati camminavano lenti sul sentiero segnato, verso Castagna. Non era breve il cammino, ma l’energia antica li sosteneva. L’autunno dipingeva il cielo di grigio e un’aria già fresca avvolgeva i loro visi: i castagni perdevano a tratti i primi pungenti ricci, abbattuti dal tempo o dal vento e i loro dolci frutti consolavano a tratti una fame antica. E mentre il sole prendeva di mira il monte Reventino, essi erano già sulla cresta del Cariglietto. Castagna era di fronte a loro: appariva dall'alto il cimitero e si scorgevano alcuni tetti. Così s’abbandonarono a discendere il colle fino alla strettissima  gola ove un’acqua limpida e fresca gorgogliava libera. Risalirono ansimanti dall'altra parte e giunsero sotto le mura del cimitero. Poi celati dall'imbrunire,  tra orti e cespugli, furono nei pressi delle case. Pasquale Attirò a sé Petralba e la guardò senza parole, lei gli disse di andare e di non preoccuparsi: la vecchia madre le avrebbe dato certamente qualcosa da mangiare per entrambi. Così il brigante la osservò scomparire nel buio dei vicoli solitari, deserti, e rimase un momento, un momento solo inchiodato su quella terra dove i suoi passi bambini avevano schiacciato irrimediabili sogni, poi scappò via. Il buio aveva annerito tutto, gli occhi del brigante faticavano a trovare il cammino, così appena fuori paese si fermò addosso ad un albero e tentò di riposare.

 S’assopì lo stanco brigante. Ma all’improvviso un fruscio gli fece spalancare gli occhi: una luce strana e diffusa lo colpì: una luna camminava piano nel cielo sfuggendo alle nubi. E poco lontano sentì un vociare concitato. Ebbe quasi paura, se paura possono avere le persone come lui! Si alzò e si nascose dietro il grosso albero. Passarono lenti due uomini nella penombra: briganti anche loro, ma di un’altra razza! Pasquale li fece allontanare un po’ e li seguì come un felino la preda. I due giunsero nella piazza di Castagna e si fermarono continuando a parlottare; Pasquale li teneva d’occhio.

Dopo un po’ s’avviarono circospetti tra i bui vicoli e  li perse di vista. Stette un po’ a pensare e non sapeva bene come comportarsi, poi decise di andarsene. La luna ora usciva quasi del tutto allo scoperto e schiariva alquanto il cammino. Ma il pensiero di quei due uomini diveniva tarlo: quelli come lui non trovavano mai davvero pace! Tornò indietro e si diresse dritto dritto verso la casa di Pietra. La luna scompariva e il buio avvolse le piccole case. Pasquale continuò a camminare con passo felpato. Ed ecco leggeri rumori provenire dal profondo della via, proprio dove stava la casa della sua donna. Si avvicinò lento e silenzioso: qualcuno armeggiava alla porta, ma riuscì a intravedere che gli uomini ora erano quattro. Che fare? Mise d’istinto una mano alla cinghia a toccare l’impugnatura del coltello mentre stringeva il fucile con l’altra. La luna non ne voleva sapere di scrollarsi di dosso le nubi. Il suo viso avvampava e le braccia fremevano, le dita corsero al grilletto e partì uno sparo, gli uomini scapparono verso la strada della fontana sottana, Pasquale rimase fermo: intorno tutto era rimasto uguale, nessun segno dalle case. Così il brigante, stringendo tra le ginocchia il fucile, sedette sul gradino e non si mosse fino a che al mattino non sentì aprire la porta della casa di Petralba. La vecchia madre apparve sull’uscio quasi cercando con gli occhi tracce dello sparo notturno. Pasquale si fece vedere ed entrò furtivo. Raccontò l’accaduto dicendo di voler subito riprendere Petralba e partire, intanto chiese di mettere in una cesta pane e quello che era possibile: bisognava andar via prima che il sole s’alzasse. Uno dei fratelli di Pietra aprì la porta e uscì senza parlare, e mentre la vecchia donna stringeva la figlia al petto come non volesse lasciarla più, egli rientrò con una scarpa in mano e la scagliò addosso a Pasquale dicendo:

“  Ecco che cosa hai portato a casa nostra: scarpe vecchie!”

E il brigante abbassò la testa mentre Petralba gli accarezzava la nuca e con la testa chinata rispose:

“ Presto avrai tutto quello che c’era dentro...”

E quasi strattonando la sua donna, varcò l’uscio. L’aurora nasceva alle loro spalle, davanti a loro i boschi. E camminarono a testa bassa, senza parlare per ore e ore, finchè il sole fu alto e bruciante come non era da tempo:  Petralba si fermò poggiando la cesta a terra. Il brigante si guardò attorno e capì di essersi abbastanza imboscati: potevano riposare. All’ombra di faggi dalle foglie d’oro ruppero il pane. E continuò quel silenzio costruito d’amore e dolore. Poi presero il sentiero che scendeva alla grande fiumara  e al punto prestabilito penetrarono nel crepaccio dove, celato dalle radici di un ontano maestoso e da giunchi svettanti come campanili, era l’ingresso di una grotta: un rifugio.  Solo quando furono là dentro parlarono, come avessero temuto che le loro parole preziose, da dedicare solamente l’uno all’altra, potessero altrove perdersi o essere consumate dallo spazio, affievolite da un universo ostile. Ma la stanchezza li divorò e le parole si stamparono sulle pareti umide e riempirono i loro sogni. Ma poteva Pasquale dormire? Gettò un sacco sul corpo di lei e si mise seduto a pensare.

Il sole in quell’anfratto non giunse più e le ombre del sonno calarono anche sul tenace brigante.

Il mattino fu freddo e Pasquale levigava l’accetta con il sangue negli occhi: “ Li scannerò!” Disse alla compagna che dormiva ancora. Poi s’alzò allacciandosi corde e cordicelle attorno al corpo e infilando il coltellaccio dentro uno stivale. Poi caricò il fucile e mise il cappello a tese larghe, come andasse ad una festa.

“ Non ti lascerò!!”

Il grido di lei che stava dritta alle sue spalle con un pugno alzato lo inebriò. Si voltò e l’abbracciò: insieme uscirono verso la vendetta, verso la giustizia!

Di certo il pagante di quei quattro “saltafossi” era Don Mario, un vecchio ufficiale del comune che voleva tutti ai suoi piedi e che aveva tentato di tutto per avere il corpo di Petralba da quando lei era ancora ragazzina. Ma i primi a essere ammazzati come cani dovevano essere i quattro fetenti che avevano osato sfidare il “Fuoco”, dovevano essere “bruciati” e ardere come “restucci”.

Pasquale ne aveva riconosciuto due: non erano di Castagna, forse di Cicala o delle zone di Taverna. Sapeva che attorno a Panettieri in quei giorni dovevano muoversi degli scalzacani che rubavano pecore e spesso anche galline, così cercò un suo cugino, Angelo, per avere delle informazioni. Angelo comandava una banda composta quasi esclusivamente da gente di Castagna, ma c’era anche qualcuno di Albi e di Cicala, oltre a un parente del feroce tiriolese Perrelli e sapeva anche dei movimenti di Pietro Bianco e dei “cosentini”.

Così con la rabbia di sempre, ora gonfiata dall' offesa personale, si diressero di nuovo verso i paesi.

 Solo quando furono nella zona delle Porticelle Pasquale “sentì” la presenza di qualcuno: ‘Ntoni Carretta montava la guardia a due aniglie celato da cespugli di ginestre e rovi. “Fuoco” lo chiamò sibilando il suo nome e l’uomo gli si prostrò ai piedi:

“Comandate!”

“Nessuno comando, solo cerco mio cugino...”

“Fra poco passerà di qua, lo sto aspettando”.

Così anche Petralba sedette stringendo il suo trombone tra le ginocchia e ferendo con lo sguardo intriso di veleno l’aria intorno. Pasquale la guardò e riconobbe quell’ espressione:

“ Risparmia adesso il tuo odio, presto ci servirà”

Ntoni provò a parlare e “Fuoco” gli rispondeva con benevolenza cercando di capire se sapesse qualcosa dei quattro. Così gli descrisse i due uomini che quella notte egli aveva veduto:

“ Ma sì, uno è Putame, “nu sgriancu” che si vende per quattro soldi, lo sto cercando anch’io per un “servizio” che gli devo. E’ di Cicala ma se la fa nella zona di “Chiano d’asino”. L’altro non lo conosco, ma “U sgriancu” va girando con un ubriacone di Sorbo e fa il forte con i “piccirilli”. Disse Ntoni.

Allora fuoco e Petralba decisero di non aspettare Angelo ma di puntare diritti verso Arcimuso e da lì a Chiano D’asino.

“Saluta Angelo”

 Dissero a Ntoni, ma proprio prima di scomparire tra le frasche e il grigio dell’autunno, Angelo giungeva con una truppa di sei o sette uomini. S’abbracciarono, mentre due degli uomini di Angelo se la diedero improvvisamente a gambe. Fuoco mangiò la foglia e chiedendo chi fossero i due a suo cugino, digrignò i denti e li rincorse. Si spezzavano i rami all’impetuosa foga di Pasquale che come un lupo affamato cerca con la bava alla bocca la preda per troppo tempo agognata e Petralba subito correndo dietro a lui non ce la fece a tenergli dietro. Così rallentò e ne seguì le tracce dalla scia di rami spezzati. A un certo punto un grido lacerò l’aria e subito dopo un altro, e poi un latrare. Quando Petralba giunse Fuoco puliva l’accetta dal sangue infetto dei venduti. Due corpi annegati nel sangue giacevano in un roveto con il petto squarciato e gli occhi di fuori. “ Uno lo riconosco: era lì quella notte, l’altro mi ha detto che ce l’avevano portato afforza...!Ora tocca allo “sgriancu ”. 

Anche Angelo intanto era giunto e vide lo spettacolo. Fuoco lo guardò senza parlare ma si capirono, poi si salutarono e Pasquale cingendo le spalle di Pietra, s’inoltrò nel bosco.

Camminavano adesso lenti i due, come soddisfatti e rassegnati a una dannazione senza rimedio, a una vita scritta da chissà chi per loro due in un cielo troppo lontano per essere capito!  Non fecero molta strada e si fermarono vinti da una fame sconosciuta: addentarono le croste di pane come se volessero mettere dentro i loro corpi al più presto qualcosa di buono, come per dire poi che l’ultima cosa fatta era stata mangiare! Poi una pioggerella cominciò a cadere lenta e s’affrettarono. Sul colle degli zingari giunsero ansimanti e  Petralba cadde seduta lamentando inconsueti malesseri, Pasquale ne fu turbato poiché sapeva bene il coraggio e la forza di quella donna e   una preoccupazione invase il suo animo. Pareva non riuscire a muoversi, la dolce, terribile Petralba, il brigante non sapeva che fare: non pensò più alla vendetta, ma divenne tutto per lei. Le diede dell’acqua, la carezzò, la coprì con il suo pesante mantello nero: gli occhi del feroce “Fuoco” erano adesso dolci e teneri, era evaporato il sangue dai suoi occhi e l’odio fu scaraventato in burroni profondi, solo una cosa contava! Stette seduto accanto a lei per un tempo che non contò, mentre la pioggia bagnava. Poi un rumore di passi dinoccolati lo riportò improvvisamente in guardia. Saltò in piedi e si nascose dietro un albero: un uomo sulla groppa di un vecchio asino giungeva stancamente. Lo fermò con la mano e con voce imperiosa. Il tipo quasi cadde dalla groppa dell’animale e piagnucolò:

“ Oh Madonna santa, non fatemi niente, non ho niente, vi prego...”

E il brigante:

- scendi subito - Lui fu a terra in un baleno e si inginocchiò. Pasquale prese le redine dell’asino e dicendo - seguimi - si portò vicino all sua donna. L’uomo, muto,  guardò la donna a terra ed ebbe un moto di paura, Ma il brigante gli si rivolse con voce delicata:                    “ Chi sei? Dove vai?

Mi chiamo Turuzzo, ma mi chiamano “Sceccu” perché cammino sempre con l’asino, sto tornando a casa a Panettieri, e mi faccio sempre i fatti miei -

 “ E adesso sta piovendo, perché non ti fermi un po’? Non posso, il mio padrone mi aspetta -

“ Il tuo padrone? E chi è? “

“ Don Luigi, il fratello di Don Mario, l’ufficiale di Castagna”

A questo punto Petralba si mise a sedere e guardò Pasquale, rimasto un po’ confuso da quel nome, mentre l’uomo non tradiva nessuna emozione particolare a vedere la coppia. Ma l’occasione era troppo ghiotta per non provare, e così “Fuoco” tornò ad ardere:                     “ Siediti se non vuoi che ti tiri l’intestino e te ne faccia una collana” L’uomo cadde letteralmente seduto. Pasquale continuò: - Conosci quello “Sgriancu” che se la fa a Chiano D’asino?

si, si.. lo conoscevo..-

“ Perché adesso non lo conosci più?”

E’ morto...

“E come? Ha sbattuto la testa?

Non lo so, ma stamattina il mio padrone me lo ha caricato sull’asino e me lo ha fatto seppellire vicino al passo dei greci-      

”Solo lui, o c’era anche un altro?”

- Solo lui. -

“ Ma l’altra sera tu dov’eri?, con lui?

A questa domanda l’uomo si buttò con la faccia nel fango e pianse: forse proprio allora riconobbe “Fuoco”.

“ Dov’eri Pardio? Dov’eri?”

- Tu non mi credi, ma io non c’ero, non ci volli andare  a Castagna e mi imboscai qui a Fra Luca -

“ Dimmi chi era l’altro o ti strappo gli occhi, dimmi chi era?”

Erano in quattro - singhiozzando disse, ma non li conosco, conoscevo solo lui... gli altri sono scappati, due si sono arrollati con De Fazio, uno ha toccato Borgia...

“ Va bene ti credo, oggi ti è andata “dei dieci” ma una cosa devi fare: vendermi l’asino e te ne scendi a piedi che fai prima. Domani a quest’ora passa da qui, sotto questa pietra troverai i soldi, adesso scappa, via....”

E a quell’uomo in un batter d’occhio spuntarono due ali.

Intanto Petralba era in piedi, ma non stava bene e Pasquale la fece salire sull’asino e presero la direzione del rifugio mentre continuava  a piovere. All’imbrunire la donna era già distesa sul giaciglio. “Fuoco” la lasciò e partì con l’asino verso Parenti. A sera inoltrata bussò alla casa del farmacista che vedendo  la sacca piena di monete non ebbe problemi a dare al brigante degli unguenti e qualche coperta. Sulla via del ritorno Pasquale lasciò l’asino legato a una siepe nei pressi di Bocca di piazza e si diresse deciso verso Iuliano. A Notte profondissima accese il lume nella grotta e lei dormiva come un angelo dal viso lieve , le adagiò addosso la coperta e si distese anche lui. Il mattino dopo una nebbia crudele inondava l’aria e abbracciava gli alberi rendendoli figure inquietanti. Petralba era sveglia e sembrava rimessa, ma appariva debole, così Pasquale l’abbracciò forte e le disse:

“ Aspettami, non uscire, tornerò...si, tornerò e ti porterò via...”

Lei non parlò, sapeva che non serviva farlo, strinse il suo uomo con le lacrime che le scendevano lungo il viso e lo seguì finchè lo ingoiò la nebbia pensando:

- Non lo vedrò più! -                                     Passarono giorni e Fuoco non tornava e lei tremava e le notti furono insonni. Poi ella decise: non posso più aspettare, pensò, e staccò il trombone dalla parete, si legò un coltello in pancia e, indossato un cappello che le copriva i corti capelli, partì.

Partì che il sole declinava a oriente, per poter giungere a Castagna di notte.  Ricordò che aveva tagliato i capelli perché la potessero scambiare per un uomo, e un uomo pareva davvero, se è un uomo chi sa sopportare, chi sa difendere se stesso e i propri sentimenti.              Strani silenzi nella notte novembrina inconsuetamente dolce, solo fruscìi di animali notturni, e nell’aria un odore forte di libertà: sentire sul corpo la brezza le dava sensazioni vitali che la eccitavano, che le risollevavano lo spirito, nonostante il pensiero di Pasquale tornasse repentino nella sua mente. Stanchissima giunse alle porte del paese e si diresse decisa verso la casa della madre. La madre l’abbracciò e la trascinò dentro: lei quasi cadeva a terra dalla fatica. Quello che rimaneva della notte lo dormì profondamente. Ma a mattino già inoltrato giunse a casa il fratello gridando:

-Li hanno presi, li hanno presi e uccisi...al ponte della Cupa -

Lei si rizzò in piedi e fece per correre fuori, ma la madre la fermò urlando: 

“ Pasquale non c’era” . E il fratello continuò:

“ No, a Pasquale gli hanno sparato adesso nel bosco dietro la casa di Don Mario”.

Nemmeno mille catene sarebbero riuscite a trattenerla: si catapultò fuori e raggiunse il posto: silenzio inumano circondava il luogo, il cielo di Novembre improvvisamente azzurro roteò. Petralba camminò a passi stretti e lenti su quella terra con le mani carezzandosi il viso scarnificato dal dolore e vide tra l’erba linee rosse e gli occhi le bruciavano e tremava tutta, poi si buttò a terra raschiando con le dita ogni filo e il sangue a terra apparve come una  presenza, il segno di un’anima e lei strappò l’erba e la mangiò.          - L’erba rossa del sangue di un uomo, di un uomo che non tornerà, ma qualcosa di lui deve rimanere dentro di me!-

Questo pensava Petralba mentre ingoiava piangendo il sapore della vita.

La banda di Angelo De Fazio era stata annientata grazie alla spiata sul covo da parte di Serafino Mazza,  fratello di uno dei briganti, che intendeva “salvare” il congiunto, ma la “giustizia” deve fare il suo corso. I briganti furono stanati dal nascondiglio con il fuoco e a uno a uno uccisi a bastonate. Nei boschi pochi ancora abbracciavano l’aria. Petralba rimase per un po’ nascosta a casa: il suo malessere era la gravidanza. Dopo poco tempo andò sposa  a Don Mario, che morì dopo meno di un mese. Ma un bel giorno  la testa di Serafino Mazza rotolò dal piano del Cariglietto fino al torrente.  Petralba all’ottavo mese, era il principio della primavera, passava molta parte della giornata sulla veranda di casa a guardare lontano, verso gli impenetrabili boschi, spesso fino a sera, talvolta le pareva di scorgere una piccola luce intermittente, o di sentire voci concitate e odore di resina. Ebbe una bella bambina che nacque a Maggio e che chiamò Aurora perché il cielo a quell’ora è rosso come il fuoco. Ogni sera osservavano insieme al tramonto il cielo incendiarsi all’orizzonte del Reventino.

Passarono alcuni anni e nessuno parlò più di briganti, ma una voce camminava nel paese: che “Fuoco” fosse vivo e che vivesse da monaco nel convento di Grillo, ma lei non lo credette, lei aspettava ogni sera i tramonti. Li aspettò per anni e anni finchè Aurora si sposò e le regalò un nipotino. Ma il giorno del battesimo vide in chiesa che al fianco di Don Santo, il parroco, c’era un vecchio monaco con il cappuccio abbassato: lei pensò che fosse davvero lui, venuto a vedere il piccolo e sorrise. Ogni giorno da allora tornò nella piazza di fronte alla chiesa, finchè le parve che lui la chiamasse dal “Pizzo sottano” e un giorno si sporse tanto dal muretto che cadde e morì. Una croce di legno fu appesa a quel muro: vi restò per anni a ricordare quella che oggi a Castagna chiamano ancora “ La brigantessa”.                                  

 

                                                                         SOGNI

 

                                SOGNI                     

 

 

Camminare, camminare, camminare nel bosco, ad ogni passo stupirsi, piangere nel bosco, ad ogni passo la paura, il coraggio, il vento...sentire il cuore gonfiarsi, gli occhi gonfiarsi, la testa gonfiarsi, cadere sulle foglie tra i sentieri, abbracciare la terra, fredda rugiada sulle gote: immobile! La foresta si apre con il silenzio, chiama e avvince, mi cerchia di silenzio, mi scuote, fa di me una foglia strappata al ramo, mi naviga dentro, mi cammina addosso...mi urge! Il bosco è il luogo misterioso della vita, è il cominciamento e la fine dei cammini. “Felicità da me provata dentro le foreste, dentro le solitudini inconsolabili delle foreste, nella sconfinata dispersione dei cieli, ai piedi degli alberi, sull’erba e le ruvide felci, tra rovi e biancospini, sui cigli dei dirupi ammantati di tenerezza...”

        La scena si amplia, il teatro degli uomini assume contorni sfocati : sale sul palco il sogno. Si perde all’improvviso il confine tra le cose, tra l’essere e il niente, tutto è riconducibile ad immagini senza tempo, dentro uno spazio incommensurabile. Il dolore e la stanchezza modellano una libertà antica che i venti disegnano crudele. Ma che cos’è il sogno? Una dimensione onirica fatta di lampi e di oscuri presagi, o quella sequenza logica di progetti che si catapultano ingenui verso orizzonti che pensiamo di vedere? Nelle caverne abbandonate che corrono nei sotterranei dei palazzi dei chip, ovattate da potenti masse mentali, vive ancora una realtà: ed è questo il sogno!

 Eccola! Appare come un grande abbraccio, pullulante di uomini che varcano in silenzio la porta dei sogni tutte le mattine: è la terra! La terra dura di zolle e di fatica, dimenticata nelle valli del Tacina o alle falde di Montenero, o alla Mandriagrande, o nei crepacci del Roncino, o alla valle dell’inferno o a Carlo Magno, dove volete nella disperata, malinconica solitudine della Sila, dove i pini sfondano le chiome dei faggi. Gli uomini della Sila celano il segreto della vita, incontaminati dai sorrisi. Il travaglio quotidiano si chiama sopravvivenza: il silenzio è la musica dei giorni.

Dietro le pupille di qualche vecchio, dietro le parole mai dette, dietro la loro età imprecisa appare talvolta il Carso, ma quello che vi hanno lasciato è incomprensibile, come i motivi dei suoi morti: una coltre di muffa si è stesa sulle loro vite. Sale invece negli altri  l’orgoglio di una povertà feroce, antica, seminata nei solchi della storia da padroni lontani. Volti che il tempo e la terra hanno scavato non hanno che una tenue parvenza di sorriso. Tutto viene dal cielo come una pioggia, anche i clacson delle macchine, e si chiudono in un guscio, in una corazza d’indolenza. Ma sono gli uomini che conoscono l’umanità. La terra è madre ed elargisce l’elemento vitale ai figli che non l’hanno abbandonata fidando in benevole deità. I paesaggi sono lo specchio dell anima di questi uomini, della loro amenità, delle ritrovate strade di monologhi antichi, delle solitudini campestri, dei loro sguardi infiniti. Strade bianche di polvere, o sentieri erbosi profumano dei passi dei pastori e dei loro greggi: buoi osservano maestosi i viaggiatori incauti e tornano al giogo antico come ad una festa. Facce indurite, mani nere, gesti uguali da sempre. Uomini dimenticati da millenni che la storia ha dipinto una volta sola oggi sono eroi. E  davvero è infelice quella terra che ha bisogno d’eroi ? Nei loro cuori è racchiuso un tesoro che si beffa  di internet: l’umiltà. La consapevolezza di vivere un mondo che nessuno potrà intaccare finchè i loro occhi avranno luce è l’orgoglio profondo inteso come frutto sofferto dell’albero della vita che matura all’autunno dell’esistenza, goduto e ostentato con una luce negli occhi  che nessun altro potrà mai avere. Gli uomini non parlano: la parola è inutile sfarzo. I comportamenti e le scelte scivolano nell’esistenza piani e inesorabili come la morte quotidiana dei vecchi, come le vecchie strade e le mulattiere che odorano di tempo, ove procedono lente le genti della Sila, eredi silenziose e tenaci degli antichissimi Enotri. Nelle lunghissime ore dell’inverno, quando anche l’odore della neve appanna le case ammassando fango e tutto ciò che il vento e l’acqua trascinano dalle campagne battute da temporali maestosi, gli uomini s’acquattano attorno ai focolari, le donne addobbano lumi alle ingiallite immagini dei santi e l’intimità familiare si adagia in quel silenzio duro di attesa.  

 

                             CHILLA BANDA

 

Dal balcone ogni mattina osservavo con gli occhi spremuti sotto le ciglia quel bosco immenso custode di mondi inviolati. Già quando il sole mi stuzzicava il mio piccolo viso, profondo nel cuscino, e lo eccitava di tepore attraverso i vetri, il primo pensiero del mattino era per quella distesa verde e profumata.

 “Stamattina non vuoi andare a scuola?”

  Le parole di mia madre mi scuotevano come assalti e lasciavo dolente l’estasi di quegli attimi, ma a scuola dovevo andare, altrimenti non crescevo. Parti della mia mente divoravano le distanze e contavo i centimetri che mi separavano dall'’ età adulta. Sotto la mia finestra c’era la strada e sotto di essa la vigna coltivata a terrazzi fino al piano verde smeraldo ove giganteggiavano i castagni e più giù, nella gola, il rio. Ma al di là del torrente saliva impenetrabile la foresta addosso al colle. Quali tesori si celavano oltre le fronde? Quali meravigliosi animali popolavano quello strano mondo? Lo stesso nome con cui si indicava il colle : “chilla banda” era foriero di fatidiche allegorie: “Il Luogo” per antonomasia, quel posto che non ha neanche un nome suo!

Per chissà quale misteriosa ragione gli uomini non hanno saputo o voluto, o potuto, dargli un nome proprio? Il regno sconosciuto e eccitante della fantasia era lì, di fronte alla mia casa: vicino e irraggiungibile. Gnomi e folletti, forse la fata di Pinocchio, lo stesso Lucignolo e la “madre dei venti” inconoscibile donna evocata talvolta da zia Serafina, vivevano in quel luogo.

 Mio nonno sembrava un gigante: forte e sprezzante non mi ascoltava mai se gli chiedevo cose strane. I suoi occhi chiari piantati in quel viso rosso di fatica, però, un giorno si posarono su me, gli avevo chiesto: che vuol dire “Chilla banda?” .

 Egli non capì cosa volessi dire, ma mentre mi fissava ricordai che la sera lui leggeva e pensai che forse qualcosa sapesse...Ma sorrise e mi parlò del libro che ogni sera ripassava quasi sillabando alla luce del focolare a voce alta e del personaggio a lui più caro: l’abate Faria, e subito tornò a spaccar legna. Ma la nonna con la sua finta noncuranza mi disse: “Quel posto che sta di fronte a casa tua?” -Si-

Una volta, tantissimi anni fa, quando non c’erano strade e nel paese c’erano solo pagliai in quel posto non si andava mai perché faceva troppo freddo. La prima volta che un pecoraio attraversò il torrente e s’inerpicò, al suo ritorno, infreddolito e stanco, a chi gli chiedeva dov’era andato rispose: “Chilla banda u cavune” cioè dall' altra parte del torrente.”

 Un giorno d’autunno, quando il giallo diventava colore dominante in tutto quel mondo, m’affacciai al balcone ad osservare la meravigliosa magia dei colori cangianti: sprazzi verdissimi in mezzo al rame e all’oro parevano intensi e compatti come micromondi sconosciuti. Il sole, che mai illuminava tutta la montagna, spesso una linea netta divideva nettamente la zona d’ombra dalla zona di luce, quel giorno era anch’esso giallo. Nubi gonfie vagavano nell’azzurro e talora si urtavano e si stringevano, il vento mormorava appena. D’improvviso udii un rumore nitido provenire dal folto dei ciuffi verdi, un rumore mai udito, poi silenzio. Tesi l’orecchio ficcando la testa tra i ferri del balcone ma non sentivo più nulla. Rimasi tempo imprecisabile da aspettare finchè la pioggia cominciò a cadermi in testa e corsi dentro. Cominciavo però a fare progetti, a chiedere a tutti la strada che conduceva in quel luogo, ma conoscevo solo i miei genitori, zii e nonni e  non mi prendevano sul serio. Ma oltre? Oltre la montagna, là dove nasceva il sole, c’erano paesi? E bambini? E scuole? E chiese? E lacrime? E palloni grandi? Ma poi mi rifugiavo nel silenzio stendendomi a terra e mi convincevo che l’unico paese a esistere fosse quello dove vivevo e “Chilla banda” non foss’altro che il confine insormontabile, specialmente ora che era inverno e il sole nemmeno si vedeva nascere più. E con l’inverno la neve coprì le vite che si celavano nel bosco e pensai alla loro fine, alla loro disperata lotta per sottrarsi a quella gelida coperta che tutto schiacciava con il suo sinistro bagliore. Ideai minuscole case di legno da trasportare là per i misteriosi e piccoli abitatori, maglie di lana e cappelli. Fu un inverno triste. M’ero quasi scordato tutto quando una mattina il sole mi sorprese nuovamente sotto le coperte. Giungevano profumi intensi e suoni e canti di uccelli: era bello star seduto al balcone con le gambe penzolanti sulla strada. E un bel giorno vidi muoversi qualcosa su una bianca linea che non avevo mai notato: una mulattiera resa visibile dal taglio di alcuni alberi. Chiamai mia madre e mi disse che si trattava di qualcuno con un asino: niente di straordinario, per lei!

Al crepuscolo serale , dalla curva della strada, apparve un asino con in groppa, seduto, un uomo altissimo e due fascine di legna attaccate al basto. Passò sotto il mio balcone con un’andatura ritmica e armoniosa e con un rumore metallico degli zoccoli che tuonava come se parlasse. Non ce la feci a trattenermi e gridai. L’uomo si voltò e sorrise: la sua bocca spalancata senza denti mi turbò e ammutolìi: pareva avesse un aspetto mistico e inconsueto,  ebbi un moto di sacro timore, pensai fosse il padrone dei boschi, il padre di tutte le creature che vivevano in quel luogo e che mi avesse visto sempre al balcone e avesse sentito la necessità di venire a vedermi se ero buono per prendermi e portarmi là. Ma io non andai più al balcone e lo guardavo passare tutte le sere solamente attraverso i vetri.

 

                          PRIMA DELL’ARCOBALENO                                                                           

 

Il vento frugava dentro i vestiti, leggeri di miseria,e lasciava sulla pelle brividi d’eccitazione come le mani di una donna.E l’acqua tiepida che scendeva dalle nuvole rigava il viso come le lacrime versate per la stessa donna.Poi,piano piano,si fece tempesta il blando autunno e gli occhi di quella donna annegarono dentro i vestiti inzuppati di freddo e rabbia.Volare era solo un pensiero irridente.Il fiume scendeva con segnali chiari di sofferenza recando schiume lattiginose.Ma lontano:all’orizzonte,strisce d’azzurro sfioravano le cime delle montagne annerite e fu allora che apparve,scaturendo dalla giostra delle gocce con quel suo viso umido,la donna.I vestiti incollati addosso parevano stracciati e parlò come una sonnambula:”perché sei fuggito?”E il vento ritornò a frugare dentro i vestiti,ma un vento umido:così avvicinò il suo corpo alla voce dolce e drammatica della donna come per farsene carezzare,e non parlò:il naufrago danzava sull’acqua piovasca e plumbea come un circense e guardava la donna torturata da quelle gocce acuminate.Poi lei s’appoggiò all’albero antico delle rive con la testa e lo sfidò con gli occhi e col sorriso che le consentivano i capelli inchiostrati sul viso.Il naufrago sentì il cuore inondarsi di sangue e le mani brulicare di fermenti:la spinse sul tronco con la bocca sulla bocca e lei rise!Poi davanti a lui smarrito fuggì verso il fiume.Sul fiume transitavano passeggeri inconsueti:foglie marce e pezzi di vetro.La donna si fermò ad osservare fino a quando lui la raggiunse e videro insieme passare sulle acque una bambola di pezza:”Oh come vorrei-egli disse-scaraventarmi in questo fiume per poi donarti il mio cuore prigioniero!”E lei,donna nera,vestita improvvisamente di nero,con gli occhi di velluto nero: ”Biondo e bruciato il tuo seme m’ha colto, hai fecondato una donna che non conosci e che mai ti darà un nome.” Poi l’urlo del fiume si fece costante e alti e struggenti i suoi riflessi: la donna fu improvvisamente sparita tra i flutti. Dalla riva si potevano vedere le sue braccia tendersi verso la bambola di pezza che scendeva sempre più giù nell’acqua nerigna. Tua madre te lo aveva detto: ”Com’è grande questa fiumara, troppo grande per te: un giorno ti ci perderai!” E ora osservi i mulinelli che rivivono ad ogni schizzo della pioggia e divengono sempre più grandi fino a sbattere contro gli argini e ripiombare nel profondo. Cammini lungo le rive con le scarpe bianche dell’umidità , oramai vuoi solo quella donna, che  sia tua per sempre e tu solo suo, vuoi i suoi occhi vellutati ,le sue labbra sfuggenti, il suo profumo intenso e non senti più l’acqua tra il grano maturo dei tuoi capelli ,non senti il sapore dell’acqua sulle gote, dentro la bocca, dentro le spalle. Non alzi più la testa verso quello che noi chiamiamo cielo e non vedi i filari di azzurri pergolati che ricamano il tuo nome. E dal centro del fiume s’alzò come un canto del tuo “Francesco” delicato e avvolgente , una donna “d’oro e d’argento” e scivolasti tra le sue braccia. E da quello che noi chiamiamo cielo si partì allora una luce di mille e mille colori a cingere il fiume e il mondo .Il corpo di Filippo fu trovato adagiato sul letto dell’Arno nell’Aprile del 1984.                                                                 

 

                    MALEDETTO  PIANTO

 

La storia delle anime maledette è una storia antica che si stende nell’universo come un lenzuolo di gelo. Le inquietudini che hanno penetrato le loro vite come lunghi aghi hanno cosparso di dolore e di colore la piatta ipocrisia del mondo. Le anime maledette hanno traversato il tempo come un fiume di sangue: contarle non si può per la loro invisibilità e per il loro pudore: io sono riuscito a staccarmi da quel cammino quasi senza accorgermene e a volte ricomincio da Socrate a contarle...

Ma quante saranno se persino a Castagna in poco tempo hanno invaso di pianto e solitudine le vie?

Per ognuna di loro, per ogni loro morte prematura, per ogni goccia di lacrima caduta dentro la terra impassibile, non c’è che un pensiero che devasta:

 Quante anime ancora così intelligenti da voler andarsene prima che il tempo le riduca come noi ci faranno sussurrare sottovoce allo specchio: ma che mondo è? 

Maledetto pianto che consumi come una lima le parole che non possiamo più dire, le parole che non spaccheranno più i silenzi,  le vie che non possiamo più tracciare! Le vie che abbiamo abbandonato nelle fragili mani di coloro che sono morti soli! Sono le vie  sotto le soglie definite, le vie che portano nei mondi perduti ove vivono  uomini dimenticati. Esistono in ogni posto, basta guardare bene in profondità, oltre i sorrisi delle facce borghesi: oltre il mio ipocrita sorriso. Le vie celate si stendono sotto prati di sale e la gente che vi cammina solo sfiora la propria vita, senza toccarla mai e se vi prova si brucia senza rimedio. Le vie celate non conducono da nessuna parte: coloro che vi camminano lo sanno! Sono lunghe e diritte senza la speranza del mistero di una curva e su di esse non v’è neppure speranza di  fontane: sono aride . Un giorno tutte le vie saranno celate e anche noi cammineremo a piedi nudi su pietre aguzze e incontreremo  finalmente i maledetti e questa volta li riconosceremo.  E questo giorno non è lontano!

I maledetti quando sono ancora vivi vagano dentro un’inquietudine senza appello alla ricerca di quello che mai avranno: possono morire in ogni momento, essi portano nel sangue la loro dannazione!

Ma davvero queste anime sono maledette? O è proprio la loro fragilità che commuove persino Dio tanto da volerle presto accanto a Lui? Davvero muore giovane colui che è caro a Dio? Ma esse, gigantesche, continuano ancora di  notte a sfilarmi davanti: Sanno che le ho tradite ma perdonano la mia viltà: Tasso, Alfieri, Foscolo, Pavese, Tenco e Pier Paolo,  poi l’ intera compagnia di Francia... da Rimbaud ... ai mille dimenticati! Ma c’è una collina nel cielo, una collina solitaria e dolce che si chiama Corazzo celeste, e ci sono alberi e fontane e Castagna è un villaggio popolato da ragazzi : molti non li conosco, di alcuni so il nome e non il volto, altri li ricordo appena... alcuni giocano a palla, altri raccolgono fiori: per ognuno ricordo una storia, per ognuno un mondo, in tutti la medesima ansia.

C’è Emilio: la prima lancinante frustata. Emilio: povera fanciullezza tra l’odore delle capre dentro chiuse assolate tra le balze aggredite da rosai selvatici e dalle carnose more, covavi sogni di vita e fu cercando la vita...

C’è  Pippo travolto dalle correnti di un’esistenza inquieta, e annegato in un sogno irrimediabile di libertà...

C’è Francesco: La rigogliosa primavera gli cavalcò addosso lungo  i campi della vita succhiandogli il sorriso...                     Poi Cesare:  finito con violenza inaudita  contro il muro degli inganni, imprigionato nelle feroci strade della nebbia...

Ed ecco Serafino: strappato alle radici senza rimedio, la bufera tagliente e ipocrita del mondo lo uccise...

E un altro Francesco: a lui si  squassò la corazza di fragilità inchiodandolo al silenzio troppo presto...

C’è Giovanni : la sua solitudine fu cancellata lentamente, inesorabilmente..    

C’è Domenico: il dubbio oceanico, la scienza devastatrice, i fiumi del pensiero: cosa ha tolto Dio al mondo togliendo lui?

E poi e poi...Marcellino. la sua morte è la mia morte: nelle parole in coro c’ è il silenzio, c’era sempre il silenzio, troppo silenzio: l’istinto visionario dei poeti, avevamo appena parlato di Baudelaire: Il male dei fiori...

Vai! Disse Dio - Va e uccidi! - all’angelo devastatore. E lui, ignobile quanto vigliacco, si scagliò sui buoni, su chi colpito non aveva cattiveria di ributtare veleni e pugni all’oltraggio, così fece stragi d’innocenti e le anime pure riempirono il paradiso, così Dio fu contento!  

Scusami Dio, ma avevo voglia di bestemmiare!

 E ci sei anche tu su questa collina. Bisognava che più di vent’anni fa io avessi avuto il coraggio ...di morire a 24 anni e non vedere te a 34...Sarei stato un decisivo ammonimento perché tu non prendessi questa strada...A 24 anni, mentre la tua adolescenza brillava, io fremevo di rabbie inesplose, di pianti amari, di impeti impotenti. Ah se avessi trovato allora la forza giusta per sconvolgermi,  annegarmi in una  fossa lontana sognando paradisi di perdizione, Oh se solo avessi avuto la debolezza di farlo anch’io a 24 anni e di morire abbandonato nei prati di villa borghese, .Ma ancor oggi non so bene se sia stata debolezza o coraggio non averlo fatto, “Oggi scopro il sapore del dolore” questo scrivevo..., ma oggi annegavo nel mio essere piccolo borghese illudendomi di essere e di capire e vedevo te ripetere le mie angosce e non lo capivo, non capivo più un cazzo. Sono colpevole di non aver capito...che eri come me. Proprio la mia intima fierezza di avere saputo evitare...ti ha condannato......oggi saresti vivo...sarei stato un esempio infausto e ti avrei salvato. Oggi la luna s‘è chinata. Saccheggiavi le mie carte alla ricerca di un’anima e ti sei imbevuto di rabbie : la tua intelligenza mi feriva: non avrei voluto che tu capissi...per non diventare come ero io. Quando mi venivi dietro con l’ostinazione del fratellino saccente per carpire i miei pensieri nascosti, piangevo dentro come oggi . Non so se tu lo capissi. Forse ero lusingato, o forse avevo solo paura di deluderti, ma tu volevi solo riuscire a fare quello che io non ero stato capace, e ci sei riuscito...

Ma la luna s’è chinata sotto i ponti, nell’immondezzaio, a bere dolore e rabbia  ed è divenuta nera, lontana fredda come una pietra scagliata nell’oscurità, invisibile e acuminata e t’ha colpito il cuore...E nei tuoi libri c’è la mia anima celata, quella che non ho avuto il coraggio o l’orgoglio o la paura di mostrare e parlavi di me...E mi seguivi come un cagnolino nelle foreste stanco e affannato per starmi dietro , nelle giornate di pioggia e nebbia ti perdevo...e poi spuntavi ridendo...con due funghi rossi come il tuo cuore devastato.

         Come il mio sopravvissuto....

Le ali della notte sono planate su noi, anche su di me. Non c’è respiro, solo vento. Queste morti sono mie! Il silenzio trafigge le membra: ma non sangue, un silenzio ancora...infinito. Le parole, solamente le parole sono finite! E nella Corazzo celeste ancora uomini vagano tra le rovine: ci attende paziente. Se chiudo gli occhi la rivedo come nel sogno che ricorre le mie notti : finale, dolcissima attesa, pianto di libertà, catene spezzate, occhi che si aprono di un Cristo ruvido, doloroso, sporco di fatica, appeso in una croce, che ci osserva con un amore inimmaginabile e noi non riusciamo a staccare i piedi dal fango. Corazzo celeste è perduta, annegata nelle acque vorticose di un fiume lontano, eppure talvolta mi appare come una madre che rivuole il figlio.. Tra i canneti primitivi noi, in una turba incomposta, ci muoviamo lenti stropicciandoci gli occhi e non una luce ci consola, camminiamo chini senza speranza, incapaci di dolore. Ma Corazzo celeste è al di là, nella radura del mattino, oltre i giunchi umidi delle paludi e una fila di monaci s’appresta alle sue mura precedendo il nostro andare...

 

           BREVE STORIA DI UNA VOCE                        

 

  La marea del suo viso poteva solo immaginarla, la tempesta dei suoi occhi la sognava all’imbrunire, quando le foglie brillavano agli ultimi raggi: quello che possedeva soltanto davvero era la sua voce.  L’unica cosa che poteva stringere tra le mani. Ma come si può stringere tra le mani una voce? Era impossibile trattenerla: essa rifluiva nell’aria riempiendola di tenui colori imprendibili. Ma sulle onde dei suoni egli navigava...Un giorno d’ autunno che uno strano vento saliva la voce portò parole improvvisamente nuove:

- Chi conosce il suo viso? Chi i suoi occhi? E chi le sue labbra? Esiste qualcuno che può guardarla? O è una voce senza corpo? Una voce vagante nell’universo, perduta nello spazio del mondo? - Ed egli rispose liberando  la sua voce di un canto struggente, non capì che anche lei dalle profondità dove viveva si sarebbe chiesta se la sua voce  avesse una bocca, un corpo, degli occhi...                                                                 Di giorno le voci s’incontravano, s’intrecciavano amanti, scivolavano nell’aria, di notte tacevano o parlavano solo  nella mente.                                                 “ Ma tu sei vera? “                                                      - Io sono vera - Lei rispose.                                                                 - sei tu che non esisti -                                                        “Di una cosa sono certo: della mia esistenza”. Disse lui.                                 - Allora se io sono certa della mia esistenza e del mio dolore e tu davvero sai di esistere noi due siamo veri! -                                               Ma erano due verità parallele come linee geometriche: s’incontravano solo all’infinito!  E i giorni passavano trascinati dalle voci finchè un mattino una voce tacque. Ma non fu all’improvviso: la voce aveva cominciato lentamente a sfumare lasciando cadere a gocce quell’intensità finchè si perdette. A volte la voce tornava nel suo sogno come un’eco lontana, ma non riusciva più a capire se mai l’avesse davvero sentita o tutto apparteneva allo stesso sogno come quando con il vento in faccia, con la polvere vischiosa delle folle addosso solo un viso...solo un viso appariva e il mondo, tutto il mondo svaniva davanti  ai suoi occhi di mela acerba stampati nell’aria come un sogno evanescente e il viso chiaro, dolce come un silenzio scavava il  petto mentre andava via...                                                                                             

                               VISIONI

 

Davanti agli occhi una foresta splendida e inconsueta, armonia di un tempo che cerchiamo: alberi svettanti su erba gonfia di rugiada, tappeti ai passi avidi dell’assetato. Questo il sogno. Vento e acqua sul viso, sbuffi gelidi sui capelli, strade di fango e solitudine angosciante: buio. Questo vedevo. Ma sulla strada una sera, sulla strada buia e fredda, mentre camminavo a testa bassa per evitare gli spruzzi della pioggia, incrociai un uomo con un cappuccio, ci guardammo e proseguimmo oltre. Dopo un po’ mi chiesi dove avevo visto quel volto, quel volto...Mi girai e non c’era più nessuno. Quante volte ho percorso la stessa strada e non l’ho più rivisto, quante volte ancora la percorrerò? Quel viso che tutti conoscono come ho fatto a non riconoscerlo nel momento stesso in cui lo vedevo? E sognai  parole quella notte, senza sapere cosa significassero, mi danzavano nella testa come  trapezisti lontani di un circo perduto nell’infanzia:

“la comunione dei beni, questi sono gli Esseni.”

  Ma quel volto così familiare, così rassicurante in realtà l’avevo riconosciuto e l’emozione me la modellò il suo sorriso diluendola nel tempo, in tutto il tempo della mia vita. Sulle cime degli alberi talvolta osservo il lavoro del vento e so che è lui a soffiare. Quando è solo un ramo a muoversi e solo le sue foglie danzano non si può sbagliare! Quando vedo l’azzurro attraverso le foglie nei cammini che amo, quando alberi inseguono alberi e non finisce il ricamo dell’universo che mi appartiene, la sua presenza nella mia antica e inconsolabile solitudine la sento nei respiri del vento che sfiora la mia pelle e talvolta mi ferma costringendomi al pianto. Così le mie lacrime cadono sopra la terra mentre i capelli tra le dita sudate sono l’unico appiglio alla mia corporale ansia. Una volta dentro un bosco lo pensavo, e funghi non ce ne erano; e mentre l’idea di tornare si andava impadronendo di me, vidi un uomo che camminava leggero: mi sorpresi a guardarlo ammirato, dietro di lui un bambino dolce e silenzioso. Ci guardammo, ci parlammo, io dissi: “ I funghi sono ormai finiti!” lui sorrise, mentre il bambino mi osservava, e mi rassicurò: “ No. Devono ancora nascere...” E mi parve che scomparissero insieme sotto l’azzurro. Tornai in quel luogo qualche giorno dopo e scoprìi che era vero, ci torno da allora ogni anno da solo e un’aria calda m’imprigiona!  Un giorno lo vedrò avanzare da dietro cespugli di rovi, tra le spine scoprirà il suo volto ancora insanguinato, ma con un sorriso di luce che mi rapirà, e me ne andrò con lui, camminando sulla sua ombra dentro un bosco che aprirà ad ogni passo azzurri sogni.                                                                                                      

 

                                   INCONTRO                          

 

Io non so se ci siamo mai visti prima, se i nostri occhi si siano mai incontrati o uguali siano state per qualche tempo le vie che abbiamo percorso, se i nostri passi abbiano talvolta calpestato la stessa erba, se il cielo azzurro che ci copriva era lo stesso un giorno lontano, se i sogni che oggi vorremmo riavere li abbiamo sognati con la stessa passione con la quale li abbiamo perduti, con la stessa devastante tristezza che ci consuma. Non so se ci siamo mai sfiorati nelle folle di grida e colori che scorrevano come fiumi lungo piazze e viali, se abbiamo fumato  nella stessa disperata cartina i sorrisi di ragazze che alla sera se ne andavano in silenzio. Ma il vento che ci scuoteva era lo stesso. Quello che so è che  se ti guardo negli occhi adesso rivedo i miei colori e sento voci che solo noi sentiamo. Io non so dove sono finite quelle strade, se puzzano ancora di dinamite e rabbia, se la bonaccia d’agosto abbia spento il luccichìo delle lacrime sui selciati, del sangue sulle mura annerite dalle pantere. Non so se il tuo viso tra i mille fiati fischiasse canzoni di protesta attorno al mio andare, ma se ti guardo riconosco le canzoni del tuo cuore perché sono mie. Io non so se quelle strade portano ancora verso l’infinito e se qualcuno le cerca con la stessa passione con la quale le abbiamo dimenticate, con la stessa devastante rabbia che ci consumava, non so più se le abbiamo perdute per sempre, ma tu ci sei ancora. Amico sconosciuto, dolce compagno che ti vai spegnendo senza avere sconfitto mai il disagio antico di una vita lacerata dalla sete inesausta di una giustizia sociale che non vedremo! Ma i tuoi occhi sono vivi, solo gli occhi: evapora il tempo sciogliendo nell’indifferenza i nostri anni e i nostri amori, i nostri visi rossi e i pugni stretti. Addio! Le parole scavate, svuotate, non ci inebriano più, ci hanno steso addosso un manto di velluto violaceo e sono andati via lasciandoci consumare come lenti ceri... Addio! Custodisci ancora i tuoi sogni, se puoi... se posso...    

 

                                                     EPILOGO

                       ----------****-----------

Come posso, qualcuno si chiederà, come ho potuto custodire nello stesso scrigno fiati mistici e foghe ribelli? 

La risposta è caduta nel vento!

 

 INDICE:

 

STRADE

Lungo il fiume

Il viaggio

L’ultimo inverno

Gli zingari del mare

 

LEGGENDE

La trempa del muto

Forcina

Pisciarotto

La Lustra

La montagna della luna

La leggenda del pallone

Il risveglio del cavaliere delle stelle

La leggenda di Petralba

 

SOGNI

Sogni

Chilla banda

Prima dell’arcobaleno

Maledetto pianto

Breve storia di una voce

Visioni

Incontro

 

EPILOGO                                    

 

Salvatore Piccoli

 

 

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