UNA FREDDA STAGIONE DI SPERANZA
Se la bellezza potesse esprimersi in parole sarebbero parole roventi a narrare di un viso come di una prigione. Francesca scivolava leggera tra le pozze d’acqua che insidiavano le sue scarpe di vernice e l’orlo dei jeans s’appesantiva ad ogni passo. Trenta metri di dolore su quel vialotto sterrato. Poi la sua andatura si faceva aerea. I capelli lucidi svolazzavano sulle spalle, mentre gli occhi nerissimi indagavano lo spazio che s’apriva all’orizzonte delle cose: un orizzonte stretto. Alla fermata del tram le altre ragazze, anche le donne, la guardavano arrivare da lontano, poi quando lei era vicina abbassavano lo sguardo celando l’invidia. Ella passava a testa alta. I maschi incollavano su di lei gli occhi, ma, sorpresi dal suo sguardo, piegavano la testa sconfitti. Francesca era sola. La sua dignità fiera era confusa con alterigia. Era consapevole di sé, la sua esistenza era una trincea alle mute violenze d’ogni giorno. Aveva imparato a rintuzzare le aggressioni serrando le labbra, aveva trovato riparo nel silenzio e nell’indifferenza. Sconosciuti addirittura l’avevano fermata per strada confessandole segreti amori o improvvise e sconvolgenti passioni. Tutto pareva una lotta quotidiana senza tregua. Anche sul lavoro. Già una volta, dopo appena un mese, aveva lasciato il suo impiego perché le parve, in un lampo improvviso d’intuizione, che la tenessero lì solo per guardarla. Ora c’era un altro lavoro e Francesca faceva di tutto per essere efficiente, anche se già cresceva in lei il malessere per i “non t’affaticare” del padrone. Un giorno, alla solita fermata del tram, ma in un’ora insolita, mentre pioveva a dirotto e era sola ad attendere, giunse correndo Giovanni, un taciturno e ombroso barbuto. Non doveva essere poi tanto vecchio, pensò Francesca nel vederlo e meravigliandosi di pensarlo, ella lo conosceva di vista, anche se mai aveva colpito davvero i suoi pensieri: forse perché non era uno spavaldo, o forse perché non ricordò che l’avesse mai guardata. Gli offrì quasi d’istinto l’ombrello, un gesto strano di cui lei stessa non fu padrona, ma Giovanni s’infilò sotto un portone regalandole solo uno sguardo distratto e dicendo: “Grazie ma non credo che ci stiamo tutti e due!” Questo cortese e fermo gesto di rifiuto la toccò, non capì come e perché ma si sentì come mai si era sentita. Nel tram però egli sedette vicino a lei e le sorrise. Cominciarono a parlare come se si conoscessero da sempre. Giovanni faceva discorsi seri, senza apparenti cedimenti alla bellezza sfolgorante di lei e reggendo con tranquillità il suo luminoso sguardo. Nei giorni che seguirono, nella selva di occhi e rumori, Francesca lo cercava con lo sguardo per stare a parlare con lui: non perché le piacesse particolarmente, era goffo, quasi trasandato nel vestire, faceva discorsi noiosi, ma solo perché poteva rappresentare un’utile ancora cui aggrapparsi nel momento dell’orda vorticosa delle occhiate, d’altra parte, non sembrava “pericoloso”, come se la bellezza di lei non lo turbasse minimamente. Col tempo i discorsi di Giovani divenivano meno oscuri, più comprensibili: mentre prima Francesca s’annoiava, non ascoltava nemmeno quello che egli diceva, ora le sembrava di scorgere dietro le misteriose parole volanti, concreti modi di essere, significati profondi, ma non perché egli avesse mutato espressioni, era lei più attenta e più capace di penetrare nel suo mondo, un mondo così lontano ma così quotidianamente presente. Più i giorni passavano, più una coscienza nuova si faceva strada nella mente di Francesca, si accorgeva di non essere più osservata come una volta, salutava tutti, era sorridente e serena. Le parve di scoprire un altro mondo, un mondo impenetrabile agli sguardi, agli ammiccamenti, alle allusioni volgari. Ma intanto anche il secondo lavoro di Francesca finì. E fu allora che seppe che razza di lavoro facesse Giovanni: il medico. “Non è possibile!” pensò lei. Lei che aveva da sempre veduto i medici come persone lontane, strane si, ma lucide, eleganti e fredde. E fu la parola “strano” che la turbò: mai una volta che l’avesse guardata con desiderio maschile, “e se fosse...?” Quasi si rattristò per quel dubbio che si piantò nella sua giovane mente. Poi un giorno, l’ultimo giorno che Francesca saliva su quel tram, visto che ormai s’era licenziata, con quel chiodo fisso in testa , con le mille facce dei viaggiatori su di lei, cercò Giovanni con il furore negli occhi. Non lo vide e sedette delusa sull’ultima fila. Osservò attraverso i vetri l’immensa città, le strade e il pullulare delle macchine, ascoltò il rumore straziante del giorno che moriva nelle braccia della sera e chinò il capo. Ma alla fermata successiva Giovanni salì. Lo guardò per un attimo non vista e in quell’attimo ne desiderò gli occhi. Quando egli la scorse le si avvicinò sedendole a fianco. Francesca fu petulante con lui, petulante e sciocca: rideva come un’oca. Quel breve viaggio divenne lungo e pesante. Giovanni cercava di frenarla con piglio quasi paternale, ma la ragazza era intrattabile... Appena furono scesi una pioggia sottile fu alibi per sostare sotto la pensilina. In silenzio osservarono lo sciamare dei passeggeri e quando l’ultimo incravattato sparì nel buio, egli le parlò e la trattò male risvegliandole la vecchia coscienza della sua bellezza accecante, ferita e rabbiosa gli disse:” Ma è questo l’effetto che ti faccio? Solo questo? Sei di pietra o sei un gay?” E rise di un riso maligno. Giovanni ammutolì. Sotto quello strano tetto parve d’improvviso buio totale e una pioggia d’improvviso violenta scrosciò sulle lamiere, le luci delle macchine erano lontane corde d’argento e splendeva il rosso delle labbra di lei. Poi ella continuò con l’ironia spavalda della gioventù: “Dimmi, non ti piaccio, vero?” E allora le tappò la bocca con un bacio per non sentirla più, poi spingendole i capelli le disse:” No! Non mi piaci, sei una stupida bambina presuntuosa.” Ella arrossì. L’acqua penetrava spinta dal vento fino ai loro corpi. Passarono due ragazzi fumando e ridendo con i capelli incollati alle tempie. Loro due in silenzio. Giunsero delle persone ad aspettare il tram e allora s’incamminarono fino al crocevia che li avrebbe visti dividersi. “Davvero non ti piaccio?” E la pioggia le aveva rovinato i capelli e il trucco. Lui pareva triste, ma l’impronta morbida delle labbra di lei era stampata nella testa. “Fammi finire di parlare - disse Giovanni - non mi piaci, io...potrei amarti.” Quel brivido lungo la schiena di Francesca non fu di freddo e capì la differenza.
II Presto vi fu un nuovo lavoro per Francesca, un lavoro che non pensava mai dovesse fare, ma prese il coraggio tra le mani ed entrò in quell’ immenso palazzo bianco. Stanze ovattate e silenzi lunghi e pesanti, orari e regole di ferro e poi parole incomprensibili da scrivere, compilare cartelle e vestirsi anche lei di bianco e non parlare mai con i “malati”, e non guardarli. Ma la sera Giovanni le chiedeva ragione di ogni suo momento di lavoro ed ella ne era lusingata. A volte rimaneva incredula ad osservare quegli uomini strani nel loro andare disarmonico e nei gesti improvvisi e goffi: pazzi! Sono pazzi! Pensò. Ma una dolcezza nuova le saliva dentro e la rendeva incapace di parole, si sentiva avvolta in una malinconia sconosciuta e sentiva svanire dietro l’impenetrabile il resto del mondo. Quando i suoi occhi grandi erano corsi dagli sguardi veloci e beffardi di qualcuno di quegli uomini un brivido di silenzio le cancellava ogni segno dalla coscienza. Poi, come chi reca un tesoro sulle spalle ma non riesce a prenderlo con le mani, Francesca cercava affannosamente di catturare i sentimenti che aveva dentro per regalarli a Giovanni, ma non capiva mai se le sue parole bastavano, se erano quelle giuste. Ella capì che le parole non solo non bastano: a volte nascondono quello che davvero si vorrebbe dire, che parla di più il silenzio, che parlano di più un gesto od uno sguardo. Gli echi di rumori lontani giungevano morenti nelle vaste disadorne sale dove i malati si cullavano nei loro misteri: con tuniche candide danzavano come sospesi nell’aria. Che mondo! E fuori non lo sanno. Che ne sanno fuori? Corrono, corrono, ma dove corrono? Quando scivolava la sera Francesca lenta si lasciava quel mondo alle spalle ma lo portava nel cuore. Attraversava i viali fino al cancello senza voltarsi e guardava le luci gialle tra i cespugli e le siepi, tra le panchine vuote. Fuori c’era lui che l’aspettava e la “mini” volava via sulle strade alberate tra i palazzoni neri, tristi, tra i marciapiedi deserti, segnati solo da ombre di ragazzi a testa china. Ma Francesca aveva un pensiero come un tarlo e ne parlò con Giovanni: la solitudine e i lunghi silenzi di uno di quei malati. Ogni tentativo di condurlo ad una qualsiasi forma di rapporto umano falliva. Egli evitava con scrupolo di avvicinarsi ad altre persone e sfuggiva gli sguardi di Francesca. Talora solo una specie di sorriso si ricamava sulla sua bocca, ma se si accorgeva nel silenzio di essere osservato celava il viso tra le palme delle mani. Ma un giorno nei giardini del dolore, di questo dolore muto, tra il turbinio delle foglie al vento ottobrino, tra quei mulinelli incantati e la danza imprecisa delle ombre al crepuscolo, quell’uomo ciondolava con un libro sotto il braccio. Francesca lo vide da una finestra e in un moto istintivo corse giù scordando il suo lavoro. La vide arrivare decisa, con i capelli stracciati dal vento e il camice incollato dal cammino lesto sulle gambe, scopriva ad ogni passo il bianco della carne sotto la corta gonna. “Ma non hai freddo?” gli disse con voce calda. Egli, che l’aveva guardata, alzò gli occhi e sorrise con ironia; sorrise anche lei. Fu allora che lui aprì la bocca:” Sai-disse guardando attraverso gli occhi della ragazza- stanotte ho sognato di essere ancora vivo, di inseguire farfalle e di aggrapparmi a dei fiori che a poco a poco perdevano i loro colori, ho sognato le parole di questo libro: “Les fleurs du mal”. Si! Erano proprio i fiori del male che stringevo tra le dita”. E fu buio all’improvviso, e una tempesta ululò lontano: fuggì. Rimase sola Francesca, immobile e sola; poi, come le prime gocce le bagnarono il viso s’avviò. Ma parve rotto un incantesimo: aveva parlato! Nei giorni che seguirono Francesca ebbe l’impressione di vederlo meno guardingo. Mentre gli altri s’incupivano all’incupirsi del tempo, incipiente era l’inverno, Miscél pareva insensibile agli umori climatici, rassegnato a quel mondo come ad un mondo tutto e solo suo. Era un mondo compiuto, astratto da altre forme di esistenza, se altre forme di esistenza esistevano. Bastava osservare sugli alberi di quel giardino gli uccelli svolazzare rabbiosi alla ricerca di riparo dal freddo per capire che fosse la vita! E quando gli occhi s’inumidivano e le palme delle mani si stampavano sulle guance, quando le lacrime scivolavano tra le dita, era quella vita che rinasceva. E fu una coscienza totale che Miscél ebbe d’improvviso e le lacrime furono fiumi: ruppe in un pianto singhiozzante e quel pianto cancellò silenzi e solitudini, nebbie e nausea. Poi con le mani inondate si asperse il petto e sorrise con gli occhi arrossati. Francesca parlava spesso con Giovanni di Miscèl e lui amava sentirla parlare, amava il suo sforzo di trovare le parole giuste, amava vederla maturare nei sentimenti, nelle cose che per lui avevano valore, in una ricerca e in una crescita lenta e costante, autentica, verso una dimensione umana più profonda, meno vacua e soprattutto meno artificiosa rispetto a stereotipi ipocriti e cristallizzati di gente conformista e superficiale. Ma quindici anni di differenza erano comunque tanti e a volte si sentivano tutti. Lei non sempre riusciva a seguirlo nei discorsi, specialmente quando egli s’inoltrava in racconti o esperienze del passato e pareva recitare al vento o a qualcuno che non c’era. Ed una sera Giovanni le chiese di andare a casa sua: abitava da solo, lei ebbe un tremito alla proposta, ma accettò. Entrare in quella casa fu per Francesca come se cadessero in un mare i piccoli fiumi del suo pensiero raccolti miracolosamente in un fascio. Tutto il mondo grondava dalle pareti, tutto il mondo: il bene e il male! Come sottrarsi alle parole di Giovanni? Come resistere ad una personalità così avvolgente? Ma lei sentiva di doverlo fare, non poteva abbandonarsi, la sua diffidenza, poi, la prendeva ancora nel profondo, eppure non voleva dire di no, voleva qualcosa che non si può spiegare. E lui la guardava convinto di non avere sbagliato a portarla lì, la guardava mentre si avvicinò e la mano cercava la mano: lei era splendida, una lucertolina impaurita che cadde sul letto, lui la guardava come un bocciolo di rosa e si sentì perduto. Avrebbe voluto dirle: - Prenderti adesso tra le braccia e stringerti, baciarti fino a trovarti l’anima sarebbe come cogliere un fiore, morire dell’intensità del suo profumo, ma strappato alla terra appassirebbe in un attimo tra le mie dita: lo lascerò alle sue radici a costo di non sentir mai l’ebbrezza che solo il suo profumo può darmi, ma solo così potrò sempre ritrovarlo vivo.- E nei silenzi di entrambi, nei loro occhi, mentre le mani si serravano, si consumava il tempo. Guardavano il soffitto come se qualcosa impedisse a tutti e due di volgere gli occhi negli occhi, le parole non bastavano più a squarciare i veli delle paure, e i battiti dei cuori divennero cannoneggiamenti ostili. Francesca allora si alzò e lui la seguì fino all’uscio, la chiamò e lei si voltò dicendo: “Perché è così difficile? “ E lui ripeté ancora il suo nome mentre lei usciva. Giovanni rimasto solo pensò che Francesca appartenesse inesorabilmente ad un altro mondo: forse aveva bisogno di discoteche, di risate, lui era figlio di un altro tempo e ogni sforzo che ognuno di loro faceva per avvicinarsi all’altro era dettato solo dalla tenerezza, non c’era altro, nient’altro. Ma il giorno dopo, al mattino, lui era davanti casa sua e lei l’aspettava. E la macchina rombò più rabbiosa del solito e per loro due ci fu quasi solo silenzio. La stagione invernale era oramai alle porte, i primi grappoli di nevischio si dondolavano nell’aria fino a disintegrarsi sui rami bassi degli abeti del giardino dell’ospedale, non riuscivano a prender terra interi. Mille pensieri quel mattino accompagnavano i passi di Francesca lungo il viale gelato. E Giovanni, oltre il cancello possente e arrugginito, attraverso i vetri quasi opachi della macchina, la guardava andar veloce finchè dei suoi capelli vide solo un punto e se ne andò. La prima e forse l’ultima volta in quella casa! E Francesca cercava di scacciare i pensieri. Giovanni non voleva essere triste, cercava con tenacia nella sua mente di convincersi di sapere da sempre che prima o poi sarebbe finita quell’illusione , che lei avesse troppa vitalità per accontentarsi della propria rassegnata filosofia, delle sue certezze stantìe. Sapeva che ognuno vive il proprio tempo. Ma celava una punta d’orgoglio per quella luce nuova che aveva acceso in lei che la portava oramai a non accontentarsi dell’esistente, a vedere oltre ciò che si vede. In realtà anche Francesca sentiva qualcosa di nuovo e di importante in sé, grazie a lui, ma a volte le pareva di essere ingessata. Si. Anche lei cercava disperatamente di convincersi che il separarsi fosse inevitabile e che, in fondo, avesse sempre saputo dell’impossibilità di un futuro per loro insieme e quel meraviglioso sogno fosse solo davvero un sogno. Ma appena varcò il grande portone questi pensieri sparvero. Miscèl era là con una valigia e un goffo vestito di lana addosso. “Buon giorno”. Gli disse cercando di sorridere. E lui rimase serio e immoto, ma ella non si perse d’animo e insistette: “Ciao, come va? Potresti anche sorridere oggi! E lui stavolta sorrise davvero, sorrise come un’inconsueta giornata di sole: - Sto andando via, forse grazie a te, ho le idee confuse ma ho voglia di fare ordine in questa testa...- “E dove andrai?” disse Francesca quasi tremante, quasi emozionata. - Starò per adesso in questa città, c’è un mio cugino che vive da solo, ieri è venuto a trovarmi...è così grande questa città...c’è tutto quello che uno può volere...e io voglio... - E lei stupidamente non lo lasciò finire: “ Dove abita questo tuo cugino? Qualche volta verrò a trovarti, dammi l’indirizzo...” E Miscèl tirò fuori un pezzo di carta e lesse d’un fiato: “Via Ettore Majorana numero uno scala c.” “ E dov’è?” chiese la ragazza. -E che ne so?- rispose lui e varcò l’uscio d’improvviso, come se mille vermi in quell’istante l’avessero aggredito. Quella sera non ci fu Giovanni ad aspettarla e Francesca, dopo una smorfia di disappunto, sbocciata sulle sue labbra come a smentire la forzata indifferenza con cui provava a vestire il suo cuore, salì disinvolta su un autobus. Sentì di nuovo gli sguardi viscidi su di lei, le sembrò di piombare in una preistoria, accennò un sorriso di sufficienza e celò la testa tra i capelli. Quando scese dall’autobus, alla fermata del tram, di quel vecchio tram, i visi della gente le apparvero sconosciuti, incolori: - tutta gente nuova- pensò. Nessuno la guardava, meglio così. Faceva freddo, un freddo gelido che sferzava il viso, e il tram tardava. Si mise a passeggiare nervosamente, non era poi molto tardi, ma il tempo rendeva il buio solido come carbone che gli sfarzosi neon scalfivano appena, e i fari taglienti delle macchine, sfreccianti davanti a lei, ritagliavano solo cubi neri. Finalmente il tram arrivò, lento, e lento ripartì, carico di facce. Ormai Francesca aveva deciso, non sarebbe più andata a lavorare in quella clinica, sentì che le erano venuti a mancare nello stesso momento, come un inquietante segno, i due motivi che a quel lavoro la tenevano legata. Era la prima volta che decideva in piena libertà di lasciare un lavoro e nel buio che l’accompagnava verso casa cominciò a sognare le canzoni del suo “Spring”. Poi la notte arrivò e passò come le altre.
III Il mattino però le apparve tetro: pioveva e una sottile nebbia pesava sulle cose. Dalla finestra si scostò subito per allontanare un senso d’angoscia, poiché i freschi umori in viso non servirono a dissolvere il pallido scenario veduto attraverso i vetri. Si guardò allo specchio con rinnovato interesse e osservò i lineamenti precisi del suo volto, i suoi grandi occhi assonnati e le lunghe ciglia. Tornò verso il letto, ma ebbe la forza di ripensarci e s’impose di uscire nel pomeriggio, di andare un po’ a spasso per sentire le folle attorno a lei, per sentirsi parte della gente. A mezzogiorno squillò il telefono, era Giovanni: “Ti ho cercato in clinica e non c’eri, come mai?” Ho bisogno di stare da sola, sola con me stessa, tu non capisci...- E lui: “Sei sicura di quello che fai?” - Si- rispose Francesca in un soffio. E ancora lui: “E va bene...ma noi due? Voglio dire...ci vediamo?” E infine lei: - Come no? Ogni tanto telefonami, ciao!- Le strade della città erano quasi deserte in quel primo pomeriggio e un freddo vento spazzava le vie. Il cielo metallico, grigio e impenetrabile. Stretti sotto i portici due africani battevano i denti. Ma Francesca non sentiva il freddo, non sentiva dolori, né l’aria umida la turbava. Ogni tanto si fermava davanti a qualche vetrina e osservava i manichini vestiti alla moda. Poi piano piano le strade s’andarono popolando, aprirono i negozi e anche gli africani uscirono dai rifugi a vendere elefantini. Era bello sentire aliti e sussurri, i passi della gente sconosciuta vicino a sé, osservava i visi e le figure, fantasticava sulle folle e sulle loro traiettorie: era come un bagno di vita, scordare i discorsi di Giovanni, la sua terribile serietà, le angosce di Miscèl. Riposare, non pensare! Eppure in lei qualcosa era mutata, non era più la Francesca di prima: questo doveva confessarselo, non le bastava più guardare i vestiti, sbirciare i gioielli delle signore, tamponare gli sguardi fastidiosi degli uomini. Aveva capito che c’era altro al mondo. Ma quella passeggiata fu un sollievo, si accorse che “ci voleva”, anche se alla fine si sentì come svuotata. Capì allora che era necessario trovare una sorta di equilibrio tra la leggerezza del non pensare e la gravosità di un ripiegamento su sé. Partire per il paesino dove vivevano alcuni suoi parenti le sembrò un’idea eccellente. Da molto tempo desiderava fare una gita in campagna, anche se avrebbe preferito in primavera, ma ormai poco importava: andò. La vecchia corriera d’un azzurro stinto singhiozzava sui tornanti, tra colline increspate di pioggia e brevi pianori macchiati da case coloniche in disfacimento. All’interno dell’autobus erano poche persone, oltre a lei due vecchi, forse moglie e marito, seduti proprio dietro l’autista, Francesca ne scorgeva il cappello nero, nuovissimo, di lui e il grosso collo; di lei solo un fazzoletto scuro in testa. Essi parlottavano talvolta col conducente: tarchiato e con baffi alla mongola, con sigaretta spenta tra le labbra. In fondo c’era un tipo magrissimo con giacca di velluto consumato e lunghe gambe sporgenti sul corridoio, quasi sdraiato sul sedile e ogni volta che sbadigliava un odore di vino inondava l’abitacolo. Infine un ragazzo con viso tondo e rosso, capelli cortissimi a spazzola e sguardo furbo. Ogni tanto il curioso suono della tromba scuoteva Francesca quasi del tutto assopita. Poi vi fu una sosta vicino ad un muretto e montarono due donne ridendo grassamente andandosi a sedere vicino all’uomo magro. Il tempo volgeva al peggio: acquaneve. Francesca avrebbe voluto chiedere quanto mancava al paese ma si pentì. Le due donne continuavano a parlare e a ridere tentando di rivolgersi all’uomo, che si limitava col capo ciondolante a distratti cenni d’assenso. E finalmente le case, dietro una curva, improvvisamente. La casa degli zii di Francesca era un po’ lontana dal capolinea, ella strinse lo zaino e s’incamminò, non pioveva quasi più. La strada era deserta, solamente dagli usci qualche donna osservava curiosa la corriera fare manovre. Ed ecco incontro venirle una vecchia macchina, era Viola, la cuginetta di antica memoria. “Hai fatto un buon viaggio?” E Francesca scordando la stanchezza disse : - Si, certo, e come state? La zia? Tuo padre?- “Tutti bene, tutti bene, tu, piuttosto, come t’è venuta quest’idea di questi tempi? Ma sali in macchina che ce ne andiamo a casa, ti sederai accanto al camino.” Durante i pochi istanti di silenzio che accompagnarono il percorso fino al caseggiato, Francesca posò gli occhi sul cruscotto della macchina, sulle guance paffute della cugina e, attraverso i vetri, sui muri delle case e sui camini fumanti e pensò a Giovanni quasi senza accorgersene e alla sua macchina così simile a questa nella trascuratezza. Ma subito furono davanti casa. Cataste di legna e vecchi ferri arrugginiti addossati ad un melo dai rami neri su cui ancora con ostinazione due o tre foglie testimoniavano una vecchia primavera e poche erbe irrigidite ne segnavano il cortile. Riprese a piovere mentre le due donne si tuffarono oltre la porta semichiusa ridendo. “Francesca, come stai? Cambiati subito” Disse la vecchia zia Marta asciugandosi le mani : “Sei tutta bagnata”. E la baciò. - E lo zio Pietro?- “E’ di là dagli animali, verrà subito, ma tu cambiati” insisté la donna. Era quasi buio e la pioggia non faceva più rumore, si capì presto come mai: erano farfalle bianche quelle che cadevano senza clamori, era pura neve! Il vecchio zio apparve troneggiando e dopo aver salutato Francesca si piazzò davanti al focolare e cominciò a parlare, pareva raccontare al fuoco storie di un tempo incomprensibile. Francesca ascoltava attenta mentre Viola puliva la stanza e con un occhio seguiva la telenovela in televisione commentandone ad alta voce le sconnesse trame. Poi Marta, rivolgendosi al marito: “Ma Pietro, lasciala stare con queste storie, Francesca vorrà guardare la televisione!” - Ma no zia, ne ho la testa piena di televisione, mi piacciono le storie che racconta lui!- E Pietro dopo uno sguardo di fuoco alla moglie riprese a parlare e a gesticolare. Fu buio completo, ma dalla finestra riverberi apparivano in lontananza, la neve aveva preso possesso della terra e la luce dei lampioni del paese rimbalzava sul tappeto bianco schizzando dentro il buio. Nella stanza ove le due cugine dormivano c’era un piccolo televisore che Viola guardava quando se ne stava da sola e non aveva l’istinto di pensare, e quella sera non l’accese per non disturbare Francesca. I due letti erano vicini, in mezzo stava un comodino con una piccola luce e un posacenere. - Viola, ma tu fumi?- Chiese Francesca. “Si, ogni tanto qualcuna, quando sono qui da sola...” Francesca osservò la cugina nella penombra della luce soffusa e bassa e rimase un attimo in silenzio a pensare...Poi fu Viola a rompere quella specie d’incantesimo tirando fuori una strana sigaretta tutta bianca e storta: “ Io fumo una di queste, quando sono stanca o annoiata, quando mi pento di non essere andata via...” Un odore penetrante come l’incenso riempì la camera appena la sigaretta fu accesa, il fumo sembrò attratto dalla luce e creò un alone nebbioso attorno alla lampadina. Francesca guardò incredula la cugina, la osservò: era grassottella, paffuta, ma a ben vedere le parve che avesse una misteriosa bellezza, quasi celata di proposito, che però veniva fuori prepotente se la si osservava con attenzione. - Ma ce l’hai il fidanzato?- Viola schiacciò la sigaretta nel posacenere e con la mano provò a diradare il fumo. “Vuoi sapere perché non sono sposata? E’ questo che vuoi sapere?” Francesca sorrise perché capì che, nonostante il tono, la cugina aveva comunque intenzione di dare una risposta seria e così continuò: -Certo, anche questo!- “ Ho dei corteggiatori” disse sussiegosa Viola, “anche occasionali, ma nessuno mi piace davvero...”. - Non ti sei mai innamorata? - incalzò Francesca. “Ah! Il grande amore...” Proruppe tra l’ironico e il divertito la ragazza di campagna mentre tentava quasi nervosamente di recuperare la sigaretta. ” Beh! si! L’ho avuto un ragazzo vero, ma forse la mia pazza idea di non muovermi da qui mi ha fottuto. Voleva che andassi via con lui, ma gli dissi di no, avrei voluto che lui insistesse, ma non lo fece...” - Quando?- “ Tutto è finito due anni fa, lui non c’è più! Era uno del paese, è andato a lavorare in città”. - Ora è sposato? L’hai più rivisto?- “Si, l’ho rivisto quest’estate, mi ha salutato appena... ma lui ha sempre avuto un po’ di soggezione di me, sai ero più snella di adesso...però era da solo...comunque non credo che mi sposerò mai!” Poi la notte col suo carico di simboli sfuggenti prese possesso dei loro corpi. Un cielo limpidissimo, levigato da un’aria gelida, apparve agli occhi di Francesca il mattino dopo. Un sottile ma soffice spessore di neve le regalò una gioia intensa. Col sapore dell’orzo ancora in bocca ella si mosse sull’aia bianca e ad ogni passo si voltava a osservare i segni dei suoi piedi stupendosi. Volle andare verso il ruscello, era certa di ricordare la strada. La incuriosiva l’idea di un corso d’acqua tra la neve. Nel cammino gli stivali sprofondavano pesantemente rendendo faticoso il cammino, ma non aveva fretta. A tratti i rami esausti degli alberi scuotendosi facevano piombare a terra coaguli di neve semi ghiacciata e si drizzavano con rumore secco, quasi con un sospiro di sollievo. Francesca aveva ficcato la matassa dei lunghi capelli neri dentro il bavero del cappotto che una sciarpa annodata sul petto stringeva, il suo viso, arrossato dal freddo, ma abbagliante come i riverberi del sole sul tappeto dei cristalli di neve, pareva naturale a quello scenario. Ma il cammino lentamente la scaldava: allentò il nodo della sciarpa fino a scioglierlo e dopo un po’ sbottonò addirittura il cappotto e i capelli le si gonfiarono sulla nuca fino a esplodere sul collo e sulle spalle come cascata di seta. E il ruscello era là, vellutato e segreto. Francesca si sfilò anche i guanti e osservò quell’immenso filo d’argento srotolarsi all’ infinito, scivolare tra le anse orlate di bianco e non finire mai. Si abbassò e tese una mano nell’acqua affinché tutto non fosse un sogno: era tiepida l’acqua e s’accorse che di lei non solo la mano era come immersa in un mondo che non ci è consueto, che noi soltanto sogniamo ma che non abbiamo davvero mai il coraggio di cercare, di lottare per esso, stretti come siamo in un egoismo che chiamiamo necessità. Il ritorno fu leggero e meno freddo, e non soltanto per il sole alto. A mezzogiorno l’odore della farina diede a Francesca sensazioni nuove, come nuovo fu l’atto di prenderla tra le mani e vedersela schizzare tra le dita e sconosciuta e intensa fu l’emozione di rubare al nido le calde uova appena deposte da una gallina. Mancava poco ormai a Natale e quella sera le due cugine decisero di fare una passeggiata nel paese. Palline luccicanti cominciavano a vedersi sui balconi e ragazzi trascinavano enormi rami di vischio per il presepe della chiesa vociando allegramente. Ma come il freddo andava crescendo col buio incombente della notte i ragazzi sciamavano verso le proprie case rassegnati all’ora. E poi silenzio. Un silenzio maestoso regnò di colpo sulle cose. Le due donne camminavano lente e felici per le strade deserte e parlavano, parlavano alternando risate a sguardi lunghi e silenziosi, mentre la luna piena appariva a tratti in mezzo a quell’universo opaco ad illuminare il velo bianco che faceva tappeto ai loro passi, finchè il tiepido sapore delle coltri s’insinuò nei meandri delle loro parole rendendo vicina la strada di casa. Il crepitio del fuoco le accolse gioioso, scaldarono i piedi bevendo latte caldo con miele e s’addolcirono persino i pensieri, solo i capelli ancora spruzzavano sul viso, ad ogni scotimento del capo, tracce di gelo. Fosse profondissime separavano quel mondo dal tumulto, una dimensione più umana, dove i rapporti fra le persone apparivano più continui e pressanti, dove l’ipocrisia aveva ben poche speranze di sopravvivere, ma un mondo prevedibile, uniforme, quieto come morto. Francesca s’accorse che non era il suo, che poteva viverci bene solo per qualche settimana, con la stessa convinzione rassegnata con cui Viola lo riconosceva come l’unico mondo possibile per lei: le folle, i rumori incessanti, potevano esaltarla per qualche settimana, non di più. Sorrisero le due cugine sul piazzale della corriera pensando queste cose e fu Francesca a parlare: - Ora, cara cugina, dovrai venire da me e ti farò vedere i negozi, i vestiti, gli uomini di città - E Viola appoggiata sulla portiera della sua macchina annuiva ironicamente. Sorrisero ancora, si abbracciarono e ognuna sparì lesta verso la propria direzione.
IV La città apparve fredda all’arrivo di Francesca, come se una cappa grigia la stringesse oltre il velo del crepuscolo, ma non vi era neve, solo un venticello dispettoso. La ragazza quasi correndo si diresse verso casa, attraversò il giardino pubblico pressoché deserto, intristito dall’imbrunire dell’aria e dalle ombre vaganti di figure umane che si perdevano nel buio incipiente delle siepi. Al mattino seguente si svegliò con la volontà di cercarsi un lavoro, fece qualche telefonata, ma sulla agendina, scorsa velocemente dalle sue dita, vide scritto l’indirizzo di Miscèl. Ma fu a Giovanni che ripensò, e al loro primo incontro sotto la pioggia. Fu un attimo: decise quasi d’impulso di andare a trovare Miscèl, ma con la testa ferma a Giovanni. Le parve che cercare Miscèl volesse dire, stranamente, fare un passo verso Giovanni! Perché? I palazzotti della periferia, distribuiti disordinatamente come caduti per caso dal cielo sulla ampia, piana, distesa di terra bruna, parevano giganti di fragilità. Crepe come tratti infantili di matita ne rigavano le facciate e dai balconi screpolati linguaggi sconosciuti e incomprensibili s’accavallavano nell’aria umida. E d’improvviso: “ Ho visto Dora volare: la prenderò come fa il vento alla schiena”. Parole rubate a vecchi poeti e adattate a nuove donne echeggiavano come graffiti su quei muri desolati di periferia, parole scagliate nell’abisso dell’indifferenza e perse là ove nessuno potrà coglierne l’infinita pena. Francesca ne restò turbata. Bambini giocavano nelle pozze d’acqua piovana, qua e là grosse auto sembravano a guardia del tutto. Francesca bussò alla porta con decisione, quasi con fretta. Fu proprio Miscèl ad aprire: quando la vide si vergognò un po’ per la sua barba incolta, per i suoi occhiali, per i capelli arruffati, ma le disse senza esitazioni di entrare. Una piccola saletta con un tavolo in mezzo, una vecchia credenza e un divano accolsero Francesca, e fogli sparsi ovunque. “Ti puoi sedere, sono solo, mio cugino tornerà stasera”. Disse Miscèl, mentre uno strano odore giungeva dalla cucina, dall’angolo cottura. E così continuò: “ Si. Sto cucinando, gli preparo io da mangiare”. E Francesca: - Come stai?- gli chiese osservandolo con tenerezza. “Bene, sto bene.” Silenzio. Gli occhi di Francesca scorrevano sulla figura di Miscèl e sulle pareti della casa. Così lui continuò: “Non è molto grande come casa, ci sono un’altra stanza per dormire, il bagno e uno sgabuzzino. Mi trovo bene qui...certo se ci fosse un’altra stanza... ma l’affitto non è caro, in due si può stare.” E lei: - Quei libri sono tuoi?- “ Si, ogni tanto leggo: poesie, quasi sempre poesie. Le poesie sono lampi impetuosi che contengono tutta la luce del mondo, accendono per un attimo bagliori nel buio...Strano per uno che doveva diventare medico!” - Medico? Dovevi diventare medico? Non me l’avevi mai detto...- Interruppe sorpresa Francesca. E così lui: “No, non te l’ho mai detto, ma è durata poco la mia avventura di studente modello: dieci esami e sono crollato...o forse pensavo ad altro...Ma ti offro qualcosa, prendi un caffè? O un tè? E’ meglio un tè, vero?” Francesca adesso lo guardava incredula, adesso Miscèl aveva un’aria strana, professionale, sembrava davvero un medico. - Si, dài, fammi un tè.- Disse scuotendosi. “E che fai di bello?” Riprese Miscèl “ stai ancora in quel posto?” - No, sto cercando un altro lavoro, e tu?- “ Io mi sto dando da fare: ripetizioni a studenti imbranati, qualcosa presso un editore...ma ho anche molte cose in testa, cose concrete!” -...E non hai tempo per raderti...- Sentenziò Francesca. Poi ella bevve il tè di gusto. Egli la guardava e però la vedeva triste. “ Che c’è in te che non va?” Le disse cambiando tono : “ Sei bella, dolce, puoi avere molto dalla vita, se non le chiedi troppo...o sono io che vedo ancora i fantasmi?” E Francesca: - Non so neanch’io cos’ho, mi sento strana, insoddisfatta, come se mi mancasse qualcosa - E Miscèl: “Ah! Forse lo so io che cos’è che ti rende triste: l’amore! Sei innamorata. Innamorata non corrisposta. E’ il colmo per te vero? ...Scusa, non volevo...” - Figurati!. E poi non è completamente vero. Nella mia vita ho avuto solo una storia decente, ora è finita...era un medico.- “ Brutta razza” disse Miscèl mentre fuori i tuoni fragoreggiavano. E continuò: “Razza insensibile e fredda” Ma Francesca non era d’accordo: - Lui no!- E Miscèl non insistette poiché vide il bel viso dell’amica adombrarsi. E dopo un attimo di silenzio cambiò discorso: “ Ma hai la macchina? Vedi come diluvia? - Io non ho macchine, son venuta con l’autobus - “ Se attendi un po’ posso accompagnarti io, ho una specie di macchina qua fuori.” Senza barba Miscèl sembrava molto più giovane, dall’aspetto più dinamico, anche se il suo fare appariva lieve. La vecchia “127” si lasciò alle spalle gli alveari e si tuffò nelle strade del centro illuminate come giorno. Pioveva ancora. “Vedi quanta gente: è gente che si crede felice perché guarda le vetrine e pensa all’estate!” Disse Miscèl d’improvviso scuotendo il silenzio. Francesca lo guardò senza parlare, sorpresa del tono così deciso, così insolito dell’amico, parole così uguali a quelle di Giovanni, fece un sorrisino dentro le labbra e annuì. Ma Miscèl continuò: “ Come si chiama?” - Come si chiama chi?- disse Francesca. “Questo medico.” E Francesca che forse non aspettava altro: - Ma è finita...Certo se l’incontrassi...Si chiamava...Si chiama Giovanni.- “ Giovanni” ripeté Miscèl “Un nome evangelico...” E all’improvviso egli si fece serio e parve cercare dentro sé tornando muto. Ma la casa di Francesca era là. Ella s’avviò mentre la macchina di Miscèl spariva come un fantasma, sull’uscio stava la madre che contenta le disse: “ Francesca, ha telefonato uno, voleva sapere se c’eri, no, non ha detto chi era, ma io ho capito...Non ha detto altro, ha chiesto solo di te. Non è stata la prima volta...Francesca, aveva una voce seria...” - Va bene mamma, ho capito - Rispose stringendo gli occhi Francesca. Passarono giorni e nessun’altra telefonata arrivò per lei che non usciva quasi più da casa. Ma era giunto il Natale. Chi poteva far finta di nulla? Le strade scintillavano, innumerevoli costumi rossi e lunghe barbe bianche spuntavano ad ogni angolo della città, l’odore delle castagne arrostite penetrava come un’antica magia e le vetrine illuminate erano pompose cornici ad un presepe profano. Ma il senso vero del Natale dov’era? Francesca non s’era mai davvero posta il problema della religione se non nei ricordi dell’infanzia, accerchiata com’era da una società edonistica, ma, chissà perché, sentì allora un bisogno quasi fisico di fuggire dal tumulto del consumismo e ricercare una quiete pensosa, ricercare valori più saldi. Sentiva che era giunta l’ora di scappare dal chiasso, dal caos. E mentre pensava queste cose, a passeggio da sola nella città, s’accorse d’una chiesa. Fu un attimo: entrò. Come in un altro mondo scomparve il frastuono d’improvviso, un silenzio avvolgente la rapì, provava quasi timore a camminare per il calpestio dei suoi passi sul sagrato e procedeva lenta voltando il capo qua e là sulle pareti, osservando quelle figure ieratiche come viventi dentro un mondo imprescindibile, quei volti chini sul dolore degli uomini, poche donne inginocchiate avevano l’aspetto di rade stelle nel firmamento, le batteva il cuore come se un’emozione antica e inconfessata le stesse entrando nella coscienza prepotentemente. Rimase un po’ immobile a pensare e si sedette come se fosse stanca di lungo cammino. E quando nell’uscire varcò il sacro portale e risentì il brusio violento delle strade avvertì l’impulso di rifugiarsi di nuovo in quel tempio, ma sui gradini vide Giovanni con una donna. Anch’egli la notò subito e le andò incontro quasi urlando il suo nome: “Francesca!” - Questa si che è una sorpresa...- disse lei guardando la donna. Le parve più grande di Giovanni ma non vecchia, molto bella, dal viso rosso e dagli occhi chiari. “Lei è Francesca.” Disse Giovanni rivolto alla donna. “Come va?” Esordì Questa in tono confidenziale. - Bene. E lei?- Ma la donna, quasi come se non avesse sentito, rivolgendosi a Giovanni: “E’ più bella di come appare nei tuoi racconti.” Poi osservando Francesca le disse: “Ah! Io starei benone se non fosse per lui, invece di curarmi sono io che devo curar lui...” “Francesca,- intervenne Giovanni - E’ mia zia. Sono passato a prenderla per portarla a casa mia, tu non vai a casa? Ti accompagno?” Quella richiesta quasi pudica e imbarazzata restò per un attimo senza risposta, poi Francesca disse: - Mi piacerebbe fare due passi a piedi...ma mi piacerebbe anche che mi accompagnassi tu...- E s’incamminarono sui marciapiedi fradici di pioggia e il vento che s’era alzato impastava la pioggia sui visi e sotto i portici come un estremo rifugio un ultimo babbo natale trascinava stancamente il sacco dei regali ormai appassiti sul fango dei passi degli uomini. Il fango schizzava come schegge di pianto e il vecchio cadde come un ubriaco sul sacco dei doni, i tre passarono davanti all’uomo che aprì gli occhi solo per un’ultima febbre d’orgoglio proprio quando le luci gialle di un lampione infilate nella calotta nera del cielo illustrarono una figura evanescente attaccata alla stessa umida parete che s’afflosciava. Troppa tristezza! I tre fecero ritorno: la macchina di Giovanni stavolta non era il solito vecchio macinino, ma una fiammante berlina . Silenziosamente l’auto scivolava sulle strade che cominciavano a farsi deserte. Le luci dei lampioni erano strozzate da una nebbia sempre più fastidiosa, mentre Francesca scrutava il cruscotto e seguiva il movimento delle mani sicure di Giovanni sulla cloche. La zia accese una sigaretta e un aroma sottile invase l’abitacolo. Giovanni talvolta girava la testa verso Francesca come per dire qualcosa ma poi rinunciava. Sbandò sulla strada improvvisamente un curioso personaggio dai capelli lunghi, con un mantello nero sulle spalle e la frenata causò il batticuore. Poi gli occhi dell’incauto pedone brillarono ai fari della macchina e s’alzò un braccio nudo e magro da sotto il manto e l’uomo scomparve nella nebbia come un’ombra. “ Porco Dio!” Disse Giovanni seguendo con gli occhi scagliati al nero orizzonte quella figura svanire, dando l’impressione di essersi scordato delle donne con lui. Era la prima volta che Francesca lo sentiva bestemmiare e le parve che quello sfogo non celasse ansia per lei o per sua zia e nemmeno per se stesso, ma non parlò. Dopo un po’ Giovanni le guardò come per scusarsi e ripartì. Una leggera ma gelida pioggia argentava l’aria quando apparve la casa di Francesca. Ridendo Giovanni fermò la macchina, ne discese e andò ad aprire la portiera di Francesca, le coprì la testa col cappotto e cingendole un fianco la accompagnò fino al portone. Francesca stava muta. Sotto il portone però l’antica magia del tempo con quella pioggia che cadeva si rivelò in tutta la sua stringente forza. Nella macchina la zia accese un’altra sigaretta. Si guardavano senza parole, come se nulla avesse potuto rendere quei momenti più del ricordare insieme, con gli occhi! Sembrò un attimo senza fine. Ma toccò a lui, con voce straziata, graffiare quel silenzio: “ Ci vediamo a Capodanno?” Lei abbassò la testa, non voleva dare un altro colpo al dolce silenzio ma fece capire un tenue si. Egli le prese la mano e gliela baciò, poi tornò correndo alla macchina. Nuvole di fumo lo accolsero, ma non ci fece caso. “ Davvero bella!” sentenziò la zia. Lui non parlò.
V
Miscèl arrivò nella piazza stringendo nelle labbra una sigaretta che si consumava al vento, s’appoggiò alla fontana e , lieto, guardò la poca gente passeggiare. - Chissà le discoteche come saranno piene, e i ristoranti...ma qui si sta meglio, eh! Si! Sono persone intelligenti queste - Pensò. E cominciò a cercare i visi semi nascosti dalle sciarpe. Poi si diede anch’egli a camminare. Osservava le vetrine lucide e illuminate, l’ampiezza inconsueta dei marciapiedi, il cielo immenso come un nulla, quando s’accorse che davanti a lui camminava una figura femminile che gli parve familiare. Vide che non era sola: al suo fianco s’agitava un uomo. Guardò la coppia con curiosità e la seguì a distanza. Mille e più pensieri gli si mossero in testa, mille e più pensieri che sembravano addolcire il freddo della sera. Poi all’improvviso la coppia si fermò e uno dei due voltò la testa. Miscèl si sentì come colto in flagrante e s’irrigidì davanti a una vetrina a osservare un enorme babbo natale dondolante, mentre con la coda dell’occhio riconobbe nella donna Francesca e il profilo dell’uomo accese in lui tumulti di memorie. “Chi cazzo è?” Si chiese con rabbia, mentre un ritmo sonoro come di mani che battevano saliva nella sua mente e un suono violento di sirene sembrò coprire lo spazio. Per un attimo si sentì catapultato verso un mondo lontano, disperso. Ma quell’attimo servì a fare sparire Francesca e “lui”. Li cercò con gli occhi, poi allungò il passo mentre la poca gente spariva piano piano dalle strade e il deserto luminoso delle piazze pareva ormai un paradiso inutile. Ma riuscì a scorgerli che salivano in macchina. Giovanni al rumore dei passi si girò di scatto, ma Miscèl si trasse dietro un angolo. “Non mi ha visto” Pensò. Ma la macchina tardava a partire: “Mi ha visto!” Ebbe il coraggio di spiare e vide i due in macchina: “Meno male, non mi ha visto!” Poi finalmente il rombo inequivocabile di quell’auto che s’allontanava. Cominciavano a scendere giù dal cielo leggeri fili d’acqua, freddi e taglienti. Miscèl riaccese una sigaretta e s’alzò il bavero, s’avviò con passo lento come cercasse qualcosa. La sua macchina era ora davanti a lui, gli sembrò un oggetto inutile, una cosa morta. “ Ma è un oggetto” si disse. Eppure quella immobilità in quella sera era simile a una morte. “ Ora salirò, mi porterà a casa e mi sembrerà che sia viva, poi la lascerò e sarà solo morta, senz’anima”. Che strani pensieri! Ma sul muro di un palazzo come un mezzogiorno si stampò con fragore una luce accecante, intermittente. Un motore ruggiva dietro di lui. Poi le luci si spensero, si spense il motore, le luci si riaccesero e si rispensero. Miscèl vide due volti nella macchina e il suo cuore scoppiò. Ed eccoli a terra come alieni approdati dall’ iperuranio a rapirlo, a condurlo nel cosmo infinito, ai limiti di un universo... “Ma tu sei...” Ed un abbraccio soffocante rapì i due uomini, mentre Francesca rideva come una bambina. Non una parola osava oltrepassare il cancello dei denti, solamente dagli occhi usciva qualcosa. E fu Francesca a graffiare il silenzio: “Voi vi conoscete!? - Si - Dissero insieme. E l’acqua si mutò in neve. Il tappo dei sospiri si svitò e le parole non si contarono e le bianche farfalle danzavano come suoni sospesi. E Francesca rideva come una bambina. Anche la macchina di Miscèl sembrava adesso animata. “Sei viva”. Disse lui battendo la mano sulla carrozzeria gelata e rise, risero tutti. Nessuno sulle strade della città limate di bianco, solo musiche lontane. Ma altri ritmi nelle teste dei due uomini: presero a battere le mani, e Francesca non capiva. Ma che importava? Erano lì davanti a lei gli unici due uomini che nella sua vita avevano portato sorrisi e tremori, non capiva ma aveva imparato a non capire, li guardava e le bastava. Miscèl riuscì a tener dietro alla macchina di Giovanni tra le strade larghe e deserte di una città dal volto inconsueto, quasi umano. A poco a poco le case diradarono e i lampioni scomparvero. La strada percorsa era lambita da alberi che i fanali delle macchine rendevano vivi per lunghi attimi sotto cappotti bianchi, poi ingoiati dal buio. E all’improvviso la macchina di Giovanni rallentò per infilarsi in una stradina che faceva breccia in un bosco. Il sottile strato di neve si schiacciò sotto le ruote, poi, ai fari, apparve un muro. L’auto di Giovanni si fermò. Si fermò anche Miscèl. Non nevicava più. La luna piena. I visi illuminati. Una piccola casa pareva sonnecchiare sotto il candore del suo tetto spiovente. Francesca si strinse nel cappotto. Miscèl si avvicinò all’amico. Giovanni s’avvicinò alla casa cercando a palme aperte finchè, da un anfratto, tirò una grossa chiave nera dicendo: “eccola”. Poi alla luce della luna cercò di aprire la porta. Le mani erano gelate, ma la volontà e l’esperienza di un medico sanno fare miracoli. Giovanni entrò da solo: Miscèl e Francesca seguirono lenti nel buio. In un attimo una luce giallastra e compatta apparve oltre la porta come un cilindro informe. Vecchi scaffali alle pareti con pochi libri che parevano sepolti da grigi vetri sottili, un vecchio divano coperto da un plaid e lo scheletro di una poltrona barocca davanti al camino. “Sedetevi” Disse Giovanni con aria indifferente. Poi da una vecchia cassapanca trasse della legna secca e la sistemò nel camino: dopo un po’ il fuoco crepitava. Miscèl passeggiava nella stanza osservando, mentre Francesca si scaldava le mani e Giovanni trafficava con altra legna da fuori. Poi due lumi a gas apparvero sul tavolo dove prese forma un “mangianastri” che d’improvviso sparse nell’aria gracchianti note di nastri consumati dal tempo, di voci perdute. “Ho anche viveri per una settimana...” Disse Giovanni sorridendo. Ma Miscèl lo interruppe: - Ah! Ho capito, come le chiamate voi rampanti queste case? Garconnieres? - “Rifugi” replicò Giovanni, e continuò: Guardati meglio intorno”. E Miscèl vide contro le pareti scatole di cartone piene di giornali tutti identici e rossi, vide “posters” inchiodati alle nebbie del tempo, uno quasi cadente con una testa riccioluta di donna nera e gli venne un groppo in gola. E fu in quel momento che Francesca parlò rivolgendosi a Giovanni. “Chissà che programmi avevi in mente questa notte! Chissà con chi? Dopo avere accompagnato me a casa...”. Giovanni quasi arrossì, tentò di replicare e dirle come stavano davvero le cose, ma capì che una parola, una sola parola avrebbe potuto essere fuori posto e, dopo averla guardata con dolcezza, lasciò cadere la provocazione cambiando discorso: “ Ma voi due come fate a conoscervi? Dove vi siete incontrati? “ - Nei viali in autunno - Interruppe Miscèl, Francesca non parlò, non sapeva che dire né come dirlo. “Ah! Sei tu!” Riprese consapevole Giovanni, “Adesso raccontami cos’hai combinato... Ci vuole qualcosa...” E mentre parlava pareva cercasse chissà che negli angoli della casa. L’aria era densa, quasi dolorosa. Francesca ebbe per un attimo l’impressione di essere di troppo: quel fare misterioso di Giovanni che scrutava gli angoli della stanza, quei muti cenni d’intesa tra i due uomini, quell’atteggiamento estremamente serio, quasi preoccupato, parvero svelare agli occhi di lei aspetti nuovi e inconsueti di quell’uomo. “Ma in fondo chi lo conosce davvero? Io non so chi è, cosa fa, che cosa ha fatto, che cosa sta cercando ora!” E mentre pensava queste cose e s’incupiva squillarono le parole di Giovanni: - Eccolo, l’ho trovato quello che ci vuole per te, caro il mio Miscèl, ora mesci, Miscèl....- E Francesca si destò allo scroscio di un bicchiere che si riempiva di rosso. “Niente, non ho fatto niente, ho avuto delle crisi depressive, ma tutto è passato, tutto passa...” Disse Miscèl prendendo il bicchiere. E Francesca riconobbe di nuovo “umani” i due amici, e nell’ottimismo rinato corse anche lei ad un bicchiere. E poi parole, quante parole salivano come il fumo, storie e ricordi, amori perduti o mai ritrovati. E dalla bocca di Francesca fantasie e speranze lucidavano il manto dei pensieri del passato, addolcivano l’ombra delle nostalgie e dei sogni solo sognati. Parole come carezze sul rimpianto di un cammino sbarrato dalla violenza, dall’inganno di sogni ancora sognati come un filo che si dipana oggi invisibile. E Francesca vide quello che non capiva! I racconti penetravano la barriera del tempo e il crepitio della fiamma evocava immagini sparse su sentieri oramai introvabili fin quasi a materializzarli. E Miscèl parlava di crisi, di angosce, di impotenze, di mostri dalle cento mani, ma parlava con calma: “Avere a che fare con “condizionali”, ”consecutive”, “ipotetiche” di primo, secondo e terzo grado a meno di undici anni d’età non fu facile. Nonostante la voglia d’imparare, senza conforti, anzi con sguardi inquisitori contro, mi sentivo un giunco sbattuto dal vento, un fiore reciso da un’ascia. La certezza di essere di essere un bambino del tipo: “chissà cosa diventerà da grande” svanì in me proprio allora. Il mondo che vedevo con occhi preadolescenti era crudele e indifferente: io non ero nessuno! Più crescevo e più capivo che non ero nessuno, come se tutti ce l’avessero con me, come se mi aspettassero al primo errore per ridere di me. E dentro, dentro cresceva una rabbia che non esplodeva mai...ma devo dire che avevo anche molta pazienza...” E il bicchiere divenne di nuovo rosso apparendo nella sua mano mentre Giovanni diceva: “Questo è buono, aiuta!” E Francesca pensò che quella fosse una serata davvero speciale. E Miscèl assaporando il vino continuava a parlare rotolando le parole: “Ero prigioniero di qualcosa ma non capivo bene, avevo paure e dubbi, sfogavo le mie inquietudini da solo, con lacrime e penna: chissà che fine avranno fatto i miei fogli volanti?! I libri esercitavano su di me un fascino indescrivibile, amavo le copertine, l’odore delle pagine, a volte ci infilavo dentro il naso, ma erano le pagine bianche che mi stringevano il cuore...i quaderni erano la mia passione. Ogni sensazione, ogni dolore, portavano il marchio dell’inchiostro. La prima volta...lei aveva capelli neri e lisci, era ripetente, di un anno più grande di me, contavo i suoi sguardi quando le passavo i compiti di latino, e quelli di matematica quando riuscivo a farli. Si potrebbe dire che quell’anno mi feci rimandare a Settembre per poterla rivedere. Ma a Settembre lei apparve davvero troppo grande: truccata, indolente, altera. Non mi guardò neppure. Fu bocciata, non l’ho più rivista. Cercai per anni nelle altre il suo nome scrivendo un’angoscia che mi pareva eterna. Le altre furono tutte diverse, solo io sempre uguale, silenzioso e opaco. E poi, poi...mi cadde addosso la coscienza pesante del sociale” E di nuovo apparve il vino nella sua nervosa mano: “Prima di conoscere Giovanni avevo già dormito sui tavolacci delle galere per degli espropri e allora davvero ho rischiato d’intrappolarmi nel vicolo cieco della violenza gratuita, una violenza ottusa e generalizzata e non studiavo nelle biblioteche, osservavo le minigonne andare e venire...mentre progettavo di mutare gli ordini sociali. Poi per correr dietro ad un’altra minigonna incappai in quella lugubre cantina del Tiburtino ove incontrai te e tutti quegli altri pazzi: i miei unici amici! E dopo i miei “no” spariste. Giovà, non ho mai letto il tuo nome sui giornali, mentre ad uno ad uno gli altri entravano nelle galere o morivano di te nessuno sapeva nulla. E oggi sei medico!” E Giovanni guardò allora Francesca che armeggiava attorno al mangianastri e disse all’amico: - Basta, non parlare più.- E vi fu un attimo di silenzio e Francesca si voltò, e allora Miscèl accese una sigaretta e riprese: “ Quando sono rimasto solo ho fatto una vita balorda: dormivo spesso sui treni fermi alle stazioni, mangiavo ogni due giorni. Poi pian piano ne sono venuto fuori, ho lavorato qua e là, non scrivevo più, era tutto nero e inutile. Passavo delle giornate assurde chiuso in una stanza con la testa sotto il cuscino a chiedermi perché la gente fosse così, così com’è: senza slanci, piatta, aggrappata ad uno sterile egoismo e non vedeva il suo mondo imputridirsi. Ho visto cadere i miei sogni a pezzi e ho avuto desiderio di morire. Eppure ho evitato l’altra trappola: la droga. Ho rifiutato la droga per lucida coscienza politica, non volevo annientarmi da solo, non volevo fare questo favore ai “padroni”, né volevo regalare soldi a chi detiene già il potere economico perché ricordavo che qualcuno m’aveva detto che nei “campus” americani nei primi anni ‘60 per destabilizzare le coscienze, la forza crescente dei movimenti studenteschi, il potere aveva introdotto droghe fra i giovani... Ma alla fine della stagione del sogno un deserto mi si parò dinanzi, un deserto...Ho cominciato a star male, a sentire di non avere scopi, di non avere mete, oltre alle poesie che leggevo: Baudelaire, Rimbaud: “annienteremo le rivolte logiche”. Allora scoprii che non dovevo iscrivermi a medicina, che i vecchi sogni di andare in Africa erano davvero solo sogni. Avrebbero cambiato poco, qualche sofferenza in meno per qualche essere umano, ma era qui la vera guerra: una guerra che non si può vincere!” Francesca ascoltava a bocca aperta e vedeva le mani di Miscèl tremare, il fuoco disegnava rosse le guance di Giovanni a testa china. E fu lui, alzando lievemente il capo, a fermare l’enfasi delle parole con il suo tono grave e dolce: “Noi dobbiamo riprendere coscienza, noi non siamo sconfitti, è solo mutato il modo di lottare, noi siamo integri...” - O integrati? - Interruppe Miscèl. “Puoi pensare che è troppo facile per me dire queste cose, ma rifletti bene, freddamente: noi non possiamo rimanere ai margini della società o, peggio, fuori di essa, saremmo un bersaglio troppo facile. Usiamo i loro metodi e mescoliamoci tra la folla, spersonalizziamoci come è ed è sempre stato spersonalizzato e diffuso il “potere”, l’importante, e il difficile, sarà conservare intatte le nostre idee, visto che sono riusciti a rubarci anche le parole, le nostre parole...” - Ci penserò - Disse Miscèl piegando la testa all’indietro per ingoiare il vino. Ma era già quasi la mezzanotte: il nuovo anno. “Non vi preoccupate, ho tutto quello che serve” Disse Giovanni dopo aver guardato l’orologio e lasciò il divano con uno sforzo evidente e tirò fuori dei bicchieri di carta da un cellofan e, aperta la porta, saltò fuori correndo sulla neve fino alla macchina. Dalla casa si udì presto il tonfo di uno sportello che si chiudeva. - Stasera avevate progetti molto seri, vero? - Disse Miscèl rivolgendosi con un sorrisetto alla ragazza, che, anche lei sorridendo, ribatté: “Che cosa vuoi dire?” - Adesso lo capirai - E Giovanni entrò accompagnato da uno spruzzo d’aria gelata tenendo nelle mani alcune bottiglie e un panettone. Francesca capì e guardò Miscèl dicendo: “ Non ne sapevo nulla.” E continuarono a guardarsi finchè si udirono le parole di Giovanni: “Tocca a te” mentre porgeva il panettone e un coltello alla ragazza. Miscèl sorrise ironico e osservò stranamente Giovanni, mentre Francesca affettava il panettone, dicendogli a bassa voce: - Se l’avessi conosciuta vent’anni fa non glielo avresti detto! - “Ma vent’anni fa aveva si e no due anni!” - Sai bene cosa voglio dire, o questo fa parte di quel tuo mescolamento? - E Giovanni rise: i visi dei tre in quel momento erano visi felici. Saltarono con un botto all’unisono tre tappi e i bicchieri si riempirono di bollicine: abbracci e risate! Dalla finestra ormai spalancata i riverberi lontani di un paese s’intensificarono, botti soffocati dallo spazio si udivano in continua espansione. Non nevicava più, ma il freddo penetrava a gelide folate da quella finestra. “Chiudi!” Disse Miscèl seduto accanto al camino. “Ancora un po’” si difese Francesca - “ E’ così bello stare qui che il freddo non si sente nemmeno”. E Giovanni col viso rivolto a stelle lontane aggiunse: “Tu ascolta qualche canzone”. Le gravi note e una voce rabbiosa si spandevano tra le mura come prigioniere e Miscèl s’abbandono reclinando la testa sullo schienale della poltrona e chiuse gli occhi, la sua testa trovò un attimo di tregua al suo incessante vibrare causato dal vino e con le labbra modulò le parole di quel canto lontano: “...il mio Leopardi, le tue teologie, esiste Dio?...”. Una voce che si confondeva con i sussurri e le risa discrete di Francesca e Giovanni alla finestra. Poi i due tornarono al fuoco e lontano cominciavano a udirsi strombazzate d’auto. I botti oramai giungevano morenti tra quelle mura, ma luci colorate s’intravedevano ancora, attraverso i vetri, esplodere e scomparire nel cielo nero. Ma lentamente echeggiarono solo rombi di motori lontani, così rumorosi da parere vicini. “E’ già domani” affermò Giovanni armeggiando con la caffettiera. Bollente e nero dalle tazzine fumanti il caffè emanava aromi di potenza e rinvigoriva ad ogni sforzo: fu allora che i ricordi si svegliarono nella testa di Giovanni e non poté scacciarli, abbassò gli occhi guardando le mani di Miscèl giocare con le tazzine come con una vita. I due si guardarono muti e fu Francesca col suo viso a rompere un incantesimo che pareva un veleno. - Che ci resta? - Erano le parole che sgorgavano dall’aria del tempo: le parole dentro al veleno. Ma Giovanni si sottrasse alla magia: “ Quello era il prologo, adesso si comincia...” Disse così bene che sembrava crederci. Miscèl sorrise a quell’amara ironia, e sorrise così bene da sciogliere i residui mortali di un’angoscia che non lo abbandonava. E in quel momento s’udì il motore di un’auto vicina. Corse Giovanni sull’uscio e vide una macchina sul viale che a stento manovrava sulla neve, ma riuscì a ripartire verso la statale. “ Chi era?” Chiese Francesca. - Non lo so, ma forse erano qua da un po’.- “Andiamo a vedere” Disse Miscèl. L’aria adesso era serena, il cielo stellato, ma il freddo pungente: i passi sulla neve non affondavano, gemevano soltanto. “Qui ci sono i segni delle ruote, si vedono appena.” Poi nel chiarore lunare un mucchietto di carne marrone apparve tra la neve come una ferita, come uno scheggia di sangue sul viso. Portarono quel corpo languente nella casa e lo distesero sul divano: gli occhi ancor chiusi, linee di sangue si scioglievano dalle narici, tracce di neve si celavano nella foresta sottile dei capelli. “Fai il caffè” Disse Giovanni a Francesca mentre toglieva le scarpe all’uomo e Miscèl gli avvolgeva i piedi in un panno caldo. “Ha il setto nasale rotto”. E l’odore del caffè inondò di nuovo la casa. L’uomo, o meglio il ragazzo, aprì gli occhi e si guardò intorno, poi li richiuse e li riaprì. “ Dovremo fare delle radiografie, bisogna andare all’ospedale. - Io non ho documenti... - Farfugliò il ferito. “ Non te l’ho chiesti!” sentenziò Giovanni. Il ragazzo tentò d’alzarsi ma non vi riuscì, fu preso a braccia e infilato, dopo essere stato avvolto in una coperta, nella macchina di Giovanni e ci si diresse verso la città. Miscèl seguì con la sua auto perché in cuor suo pensava di volersene poi andare a casa a colloquiare con il sonno. Nella calda saletta del pronto soccorso Miscèl e Francesca attendevano l’esito delle radiografie, mentre un vecchio infermiere si rovinava l’esistenza con un puzzle enigmistico gettando a tratti curiosi, assonnati e lenti sguardi ai due. Poi Giovanni apparve sulla porta: “Domani l’ingesseranno”. e andarono via. - Voglio andare a casa - Sussurrò Miscèl, ma Francesca lo trattenne: “Aspettiamo l’alba, dai” E rivolta al medico: “hai sonno tu?” E Giovanni rivolto a entrambi: - Ci sarà ancora il fuoco, lascia la tua macchina qua davanti all’ospedale, domattina la riprenderai.- Ma era già quasi domani: il cielo chiarissimo, ma le stelle sparse come case nella prateria sconfinata, senza sentieri tra esse, ognuna chiusa in sé senza rimedio. Non vi furono parole di commento all’accaduto, forse per rimozione forzata, forse perché stanchi di retoriche, o più semplicemente perché parole non servivano. Il fuoco c’era ancora, anche l’odore del caffè. Si ritrovarono lentamente anche le parole, e, scavando, anche i sorrisi, Il cielo quasi all’improvviso si fece purpureo e nel lenzuolo bianco si tuffò senza esitare; gli alberi sembravano ombre d’uomini spauriti e un leggero vento gelò i nasi dei tre sporgenti dalla finestra. Il cerchio rossissimo del sole comparve lento regalando lunghi ricami evanescenti alla neve, poi s’andò alzando già stanco e i ricami divennero neri: le ombre! E fu allora che se n’andarono. Le strade deserte della città furono attraversate d’un fiato e Francesca sognava le coperte ed era mattino pieno. Lasciata la ragazza, i due uomini andarono all’ospedale e Miscèl prese la sua auto e volò verso casa. Il medico allora cercò il ragazzo nero. Costui disse di voler subito andare a casa. Giovanni a quella parola abbassò gli occhi e disse: “Ti accompagno.” Sapeva bene qual era la sua “casa”. Nel campo inaridito della periferia sostavano macchine inusuali: polizia. Fumanti nelle pozzanghere lamiere arrugginite: i tetti delle “case”. Misere assi dondolanti sulle dune di creta e fango impastato al gelo, al gelo dell’aria e al gelo degli uomini, pochi gruppi d’uomini, giovani, stretti in mante colorate, con gli occhi spenti, imbiancati dal sale delle lacrime, già prosciugati. Gli agenti scrivevano tenendo la visiera calata sugli occhi per non vedere e i robusti baffi scuri parevano travi. Poi, dopo uno sguardo ad abbracciare l’orizzonte, il piccolo orizzonte di siepi fradice e fili di fumo, e un altro a scrutare gli ultimi arrivati, entrarono bestemmiando in macchina e non videro un ragazzo nero dal corpo levigato correre verso di loro, chissà per quale arcano motivo, che scivolò e cadde nell’acqua putrida, cadde come un baobab sotto la scure della civiltà. In silenzio frugavano tutti tra le macerie delle baracche, raccattando diademi incandescenti nelle coperte bruciacchiate, finchè in una via crucis senza pasque attraversarono quest’altra stazione. Il ragazzo girò lo sguardo verso il viso di Giovanni, il viso immobile di Giovanni, il viso ghiacciato di Giovanni, e cercò di correre dietro alla processione, con la sua gamba ingessata. Il medico lo trattenne, si sfilò il cappotto e glielo porse dicendo: - Questo non è un regalo...- “Tu sei troppo difficile cugino medico!” E zoppicò sino a confondersi con gli altri compagni che lo attendevano. Giovanni si voltò, salì in macchina e rombò schizzando il fango in aria, incollandolo al cielo come nuvole di sangue.
VI
Il cugino di Miscèl doveva sposarsi: un matrimonio quasi improvviso, e anche se ormai questo fatto pareva un approdo ineluttabile nella storia della sua vita, egli spesso mostrava un certo nervosismo. Miscèl lo osservava quando nero di stanchezza in viso tornava all’imbrunire dal lavoro, ne osservava il debole passo che lo conduceva sotto la doccia dopo avere scaraventato quella specie di borsa sdrucita sul divano, e si adoperava alle casseruole. Ascoltava lo scroscio dell’acqua pensando che razza di cosa è la vita: uno si sfianca da mattina a sera e l’unica consolazione è un piatto di pasta e non se ne rende conto. E quando erano in tavola le rosse penne fumanti, suo cugino come nuovo usciva dal bagno sorridente, ma con una mano sul fianco per un dolore antico, per un dolore che forse era nato con lui, e diceva: ” quasi quasi sposo te!” Poi usciva col gel nei capelli e si tuffava in quel freddo, normale inverno. La sua fidanzata possedeva un piccolo ma confortevole appartamento: era lì che sarebbero andati a vivere. Per questo Miscèl pensava di poter restare in quella casa anche dopo le nozze del cugino, certo pagare l’affitto da solo era impegnativo, data la precarietà della sua esistenza, ma il solo pensiero di un’autonomia e di una libertà che potevano ritrovarsi lo eccitava: era un impulso fulmineo che come una luce improvvisa gli attraversava la testa. Una serie di eventi positivi sembrava averlo colpito negli ultimi tempi. L’incontro con Giovanni e l’aver conosciuto Francesca gli avevano dimostrato i cicli della vita e l’ombra di fiducia che, nonostante tutto, gli aveva trasmesso l’amico ritrovato lo avevano strappato a una dimensione immobile, a una stagione gelida. E su questo filo di pensieri si ritrovò, una sera, sereno e leggero e si sentì addosso una voglia di uscire per le strade, di immergersi nella gente, di essere uno dei tanti. Per le vie della città linde figure di giovani dal passo veloce, aggrappati a valigette, col viso pulito, con gli occhi fissi ad una meta invisibile, con le labbra mosse in lievi e quasi impercettibili bisbigli come se facessero dei conti...,donne incerate e pallide, tristi, cadaveriche, gonfie sui loro maneggi mentali davanti alle vetrine barocche: che spettacolo! Questi visi squallidi, squallidi, inespressivi, questo piatto universo senza un grido! Silenziose maree di coatti si riversano sulle piazze e non vedono il nulla che li sovrasta, condannati ad un cammino segnato non vedono l’angoscia che li consuma, il muro che li stritola. Senza pulsioni percorrono viali d’amianto, insensibili a quel fuoco che brucia l’anima di Miscèl: essi non hanno pensieri né dubbi, all’infuori dei loro riti meccanici e tintinnanti, non li sfiora il sospetto dell’esistenza di altri mondi. Esangui! Nemmeno una smorfia colora i loro visi di pietra quando sfiorano col braccio di cashmir le fanciulle sporche, sfuggite per miracolo ai roghi delle periferie, alle fucilate dei campi, con le mani tese lungo i marciapiedi gelati. Solo qualche vecchio ha un po’ d’anima negli occhi. Le signore inanellate si lamentano delle tasse e ai loro piedi cadono cento lire nel cappello di un mutilato( chissà in quale guerra.) inchiodato sui gradini di una chiesa e la loro elemosina si gonfia nelle pelli d’animali scuoiati che le ammantano nel momento preciso in cui varcano il portone di una chiesa e si lavano la fronte fiera con l’acqua santa. Senza un apparente perché Miscèl le segue con gli occhi e col cuore, incapace di gesti o di pensieri, con le mani stanche e fredde, ed entra anche lui. Il prete parla di cammelli e di aghi, le donne, all’ultima fila, di pippibaudi. Miscèl rifà i suoi passi in un attimo e torna a casa. Ripensò a questo spettacolo urbano e qualcosa nel fondo del suo animo, qualcosa di dimenticato, parve urtarsi, si scosse come ancora vivente: era un segno positivo, voleva dire che possedeva ancora delle sensibilità e che poteva indignarsi, che c’erano in lui pulsioni di vita. E venne il giorno delle nozze. Al mattino Miscèl si recò da solo verso la chiesa. La piccola chiesa parve un enorme masso caduto dal cielo proprio lì per uno strano gioco del caso: non v’erano altre costruzioni intorno, né giardini, solo informi mucchi di terra e alberi morenti, né bambini a giocare, solo pochi gruppi d’uomini a disagio dentro il vestito della festa, goffi come astronauti. Operai appoggiati coi gomiti sulle macchine umide, con un giornale rosa spalancato sotto il naso. Miscèl alzò gli occhi per cercare il cielo e vide il campanile ondeggiare come una zattera nella marea vellutata dei rintocchi e un’inquietudine parve scaturire da uno spazio che non aveva più limiti e lo sovrastò, mentre il sole s’intrappolava nel velo delle ciminiere lontane. Ma come per antica magia apparvero gli sposi. Il corteo, frettoloso, s’avvicinò ai gradini della chiesa tra l’applauso disarmonico e frammentario dei presenti e penetrò nel portone come un serpente nella tana. Gli occhi di Miscèl correvano sulle pareti della chiesa come cercassero una smentita all’esperienza precedente, come cercassero qualcosa che non si vede e si fermarono sull’altare: su quell’altare strano che non era altro che un tavolo con tovaglie ricamate addosso. Il giovane prete parlava in fretta, aveva modi spicci. Tutto sembrava un rito necessario e inutile. Miscèl forse si aspettava che dentro quella chiesa, finalmente, gli tremassero le gambe, che l’aria stessa grondasse di segni misteriosi e inquietanti, ma i muri odoravano solo di calce. Provò un freddo sconsolante, indifferenza; lui che aveva varcato quel portone con un’emozione adolescente. Ma mentre si voltava per uscire, tra fazzoletti neri d’antica memoria, vide dei capelli biondi. Si fermò e si tuffò nei ricordi, immaginò che quei capelli fossero di una qualche perduta “Silvia” e liberò la fantasia. Alla fine della cerimonia religiosa seguì con gli occhi la donna fino a vederla salire su una macchina da sola e ne vide per un attimo il volto quasi coperto dagli occhiali. Nel ristorante fu cauto e si tenne a distanza, sedette dietro una colonna per poterla osservare senza timore d’esser visto da lei. Spesso sbirciava e quando la sentiva parlare si rotolava nei pensieri: - Ma dov’è la figurina di un tempo, le agili membra imprendibili anche allo sguardo? Il tuo corpo si è appesantito, ma negli occhi...negli occhi c’è una luce che mi sfida...La tua voce serba cadenze e ritmi di una gioventù vibrante, parole che paion provenire dalla profondità di un tempo da cui emergo a fatica. Ma sei così uguale ad allora ed io così diverso? Ma parlerò con te e dal tuo viso capirò se gli anni sono solo scivolati o ti hanno rigato dentro come hanno fatto con me, lasciandoti solamente sguardo e voce intangibili come i diamanti delle nostre utopie. Sai, non t’avrei riconosciuta se non t’avessi sentito parlare. Ma siamo lontani e le sillabe rubate al caos delle voci non mi bastano davvero a tessere scampoli di emozioni, e nemmeno il tuo viso mi basta, il tuo viso scheggiato dalle traiettorie delle pareti immobili: ma è tutto ciò che posso avere. Forse non parlerò con te. E’ meglio che non parli con te. Sarà che tu non mi riconoscerai, sarà che tu non sai neanche se sono mai davvero esistito in quella Roma, dopo che morì Pasolini.- Mentre pensava queste cose si accorse che la donna non era più al suo posto. Miscèl si guardò intorno tra le risate e i brindisi e si alzò con un bicchiere in mano fingendo di bere, ma i suoi occhi frugavano anche gli angoli. Si avviò verso la porta e nella hall fresca e umida per la pioggia che all’esterno picchiava i vetri, rivide i capelli biondi emergere da una poltrona. S’impietrì. Ma subito fu raggiunto da alcuni conoscenti e spinto allegramente sul divano. Evitò di girare lo sguardo verso di lei, che comunque rimase a fumare indifferente: osservava la porta vetrata e non dava l’idea di curarsi di quello che avveniva attorno a lei. Dopo qualche battuta civettuola caduta nel vuoto, i conoscenti di Miscèl s’allontanarono ed egli alzò lo sguardo verso lei: il biondo dei capelli da così vicino gli sembrò bianco, non era “lei”. Tanto meglio! Pensò con rabbia e gettò là una frase idiota sul tempo. La donna si voltò con uno sguardo di sufficienza, ma in un momento le sue sopracciglia si aggrottarono sugli occhi e balenarono luci: era lei! - Non è possibile!- “Non è possibile”. Ella si tolse gli occhiali e apparvero due laghi ombrati da lunghi abeti. Miscèl le andò vicino, s’abbracciarono ma si staccarono subito come respinti dalla cortina del tempo. Lei riacquistò padronanza di sé per prima ed all’incontenibile enfasi di Miscèl rispose trattenendo il proprio istinto e misurando gesti e parole. Egli ne fu quasi deluso, certo il tempo cambia le persone, soffoca i ricordi, ma lei non può...Con ostinazione cominciò a parlare e l’inchiodò al passato finchè pure lei non diede segni di cedimento alla malinconia. Ma il tempo aveva reso pesante ogni parola, aveva seminato di ortiche le strade della vita. Miscèl all’improvviso capì l’ineluttabilità delle stagioni e degli eventi e precipitò anche lui nella cosiddetta razionalità. Uscirono mentre i fiocchi s’impadronivano del cielo e si raccontarono anni di solitudini, di sogni divenuti incubi all’improvviso, storie disperate di corse attorno alla vita, delusioni. Miscèl tentò di aggrapparsi a lei, lei era fragile e forse neanche sentiva le sue parole: era sicura che tra i due aveva più bisogno lei d’aggrapparsi. Era tanta la gioia di Miscèl che non vide la tristezza della donna ed ella ne fu sollevata. E quando gli invitati pian piano lasciarono il ristorante e gli sposi ridevano meccanicamente agli abbracci allucinati di amici e parenti, Miscèl s’accorse che Lucia era sparita. Salutò velocemente suo cugino e corse fuori. La neve aveva coperto tutto il piazzale e solo poche auto oramai sostavano. Montò lento sulla sua 127 e partì. Procedeva con prudenza a causa dell’asfalto innevato e dell’incombente buio. Ma quasi subito un’ombra apparve sul ciglio della strada: Lucia! La sua macchina s’era fermata a causa della neve e non ripartiva. Quando furono di fronte e la neve si scioglieva sui loro visi annegando i vermi della ragione non videro l’uno dell’altra, alle fioche luci dei fari, il rosso degli occhi. Miscèl tradusse il vortice dei suoi pensieri in poche parole: “ Hai freddo, entra nella mia macchina...” Ed ella obbedì silenziosa. Forse davvero nulla più poteva rendere il tumulto dei pensieri dell’uomo che il concretizzarsi in quella frase. Ed egli s’infilò nell’auto di Lucia con una forza di volontà che non conosceva da tempo e dopo alcuni vani tentativi la macchina si smosse. “Ora seguimi piano”. Non nevicava più, il cielo si puliva e le stelle erano aghi. Miscèl non pensava, aveva gli occhi incollati al retrovisore e seguiva le traiettorie dei fari dell’auto di Lucia, finchè ad un crocevia ella suonò. Era vero: andava in un’altra direzione. Miscèl si fermò e scese dall’auto, scese anche lei e gli disse “grazie”. E lui nervosamente eccitato: - Aspetta a ringraziarmi, ora ti rapirò!- E così dicendo l’abbracciò forte al centro della strada. “ Ora devo andare” replicò lei perentoria e le stelle erano aghi, forse solo più pungenti. - Ma dimmi almeno dove abiti...-. Gli pronunciò il nome di un paese e corse in macchina. Dal finestrino a lui ritto come un semaforo disse: “Vedi che non era vero che mi volevi rapire?” E volò. Miscèl restò immobile a guardare le luci ingoiate dal buio, poi accese una sigaretta e sorrise come illuminato da un lampo improvviso. Nei giorni che seguirono Miscèl si dedicò all’appartamento ormai solo suo cercando di dargli una nuova immagine. Quando credette che tutto fosse già più bello invitò Francesca per avere un giudizio femminile sulle novità. Dopo un ultimo ritocco l’amica disse: “ E’ perfetto”. Francesca aveva intuito che qualcosa di nuovo era accaduto nella vita di Miscèl, epperò non gli chiese nulla, forse per non graffiare quell’aria di apparente serenità che aveva intravisto nei suoi occhi. Ma un bel mattino Miscèl partì. Dopo un giro attorno alle poche case del paesino si fermò a un bar. La giornate era serena seppur fredda, ed assaporare la quiete del borgo, il misurato fluire di quella vita, fu come tornare per un attimo al primo sole dell’adolescenza. Chiese di lei e gli indicarono una casa ai margini del bosco. La porta era chiusa e un passante gli disse d’aspettare mezzogiorno e mezzo se voleva vederla. Attese con pazienza, osservava gli scheletri degli alberi stringersi insieme, osservava il cielo miracolosamente azzurro. Ed ecco: la vide giungere lenta. Lucia se lo trovò davanti e lo guardò senza parlare, si fermò un attimo e con un triste sorriso gli accennò di entrare. La seguì sui gradini di quella casa in silenzio. Furono minuti lunghi e gole arse. Poi finalmente Miscèl riuscì a scrollarsi di dosso la nebbia e cominciò a parlare del presente, della sua casa, della sua vita. Cominciò a ridere e ridendo le andò vicino e lei ai fornelli piangeva. - Cosa c’è che non va ? - “ Perché sei venuto?” Lui si rattristò e s’allontanò da lei andandosi a posare su un divano, meditando d’aprire la porta e fuggire. Ma Lucia gli fu subito accanto: “ Scusa, oggi sono un po’ stanca, sai i bambini...” - Quali bambini?- “ A scuola!” - Già - Si guardarono negli occhi fino a svuotarsi la mente, poi colti dalla malattia del tempo scossero la testa. L’odore della pasta scaldava i cuori e quello del caffè li bruciò: ma pareva non bastasse nulla a sciogliere una lunga stagione fredda. Allora uscirono tra le piccole case dai tetti innevati e dalle tegole aggredite dai raggi di un inconsueto sole gocce assassine segnavano i loro passi e le loro parole. Ritrovare le parole giuste per mettere ordine ad un groviglio di fili non era facile, e il cielo azzurro di quell’inverno, di quel giorno, cominciava a tingersi di nero e le loro mani s’incontrarono nel gelo e si strinsero. Ma c’era un’ombra di mestizia nella voce di lei, un’ombra che ella non riusciva a celare e che inquietava Miscèl. A sera egli tornò in città senza capire il confine tra la felicità e la delusione, incastrato in un sentimento irreale. A casa gettò parole su fogli bianchi: le parole scaturivano dal suo essere come acqua di fonte, incessanti, finchè un cerchio invisibile avvinse la sua testa e la posò inerte sul tavolo. Il mattino seguente giunse presto Giovanni alla sua porta ed egli a fatica lasciò il letto da poco assaporato. “ Sto andando a casa” Disse il medico - vengo dall’ospedale e ho pensato di venire a trovarti...a vedere come stai...- “ Come ti sembro?” rispose Miscèl con i capelli arruffati e gli occhi gonfi. Ma gli occhi di Giovanni si posarono sulle carte sul tavolo, ne prese una: “ Quando la sera avrà inchiodato il tempo sulle tue mani e i tuoi capelli torneranno sole ai miei occhi e la terra riavrà i nostri canti....smarriti...forse sarò me stessa d’allora.” - Non capisco...me stessa?” E Miscèl sorrise mesto dicendo: “ L’ha scritto una donna....una vecchia amica...è stata lei a dirmi quelle cose.” Allora Giovanni si sedette e osservò lieto l’amico che intanto versava il latte nel pentolino. - Spero che me la farai conoscere!” - Certo, prima o poi la dovrò portare qui, sto aspettando il momento giusto.- E mentiva: Giovanni conosceva bene quella persona, la conosceva già, apparteneva alla loro storia, ma non era il caso di riaprire libri consumati dal tempo. Forse, poi, non la ricordava nemmeno più e Miscèl non ebbe la forza di dirglielo. E Giovanni andò via con la promessa di tornare con Francesca. E Miscèl tornò a letto. Benché non riuscisse a prender sonno fu dolce il sapore delle coperte sul corpo e quel senso d’abbandono giovò alla sua testa. Il muro d’acqua oltre i vetri era lontano, quel gocciolio ritmico non gli dava fastidio: riuscì a rasserenarsi come poche volte gli era capitato negli ultimi tempi. Quasi si stupì di questa sua tranquillità, di questa pacatezza così soffice e in essa s’adagiò come cogliesse un’occasione rara. Nel primo pomeriggio uno squarcio d’azzurro illuminò il mondo. “ Pensavo fosse sera e sembra mattino” Disse Miscèl allo specchio. Uscì di casa e il brullo scenario era rinnovato, rinverdito da una inconsueta luminosità e i bambini davano ancor più vita allo spazio. Ed ecco venir lenta la macchina di Giovanni sulla stradina di terra. Scese anche Francesca che lo salutò con calore. Risalirono. Ricominciò a piovere. Francesca parlava, adesso parlava come una “donna”, Giovanni annuiva, Miscèl era contento. Francesca gesticolava sicura. “Ma cos’hai fatto? - le chiese Miscèl - sei diversa, hai cambiato pettinatura?” La ragazza sorrise e guardò Giovanni. Anche Miscèl osservò l’amico dicendo: “ Ma che cosa le fai? Le hai raccontato di quando volevi fare quel film?” - Un film? - Interruppe Francesca. E Giovanni: “ Da bambino tra tutti i miei sogni c’era quello del regista, avrei voluto fare un film sulla scena di un treno urlante, i treni sono immagini incancellabili della nostra storia, un treno slungato sulla pianura che svanisse piano piano all’infinito sulle note di questa vecchia canzone: Mio padre disse: bambino mio se vuoi andare addio! Mia madre disse: bambino mio ti guiderà Iddio...Nel sole nel vento nel sorriso nel pianto...” E Francesca stringendosi a lui: - E quand’è che hai smesso di sognare? - “Forse quando mi sono accorto che esistevano anche gli altri! Quando mi si aprirono gli occhi: e gli occhi mi si aprirono in una maniera strana, per un cinque in scienza di una certa Allegrini quando formalmente non meritavo che un tre, ma quella persona seppe leggere dentro la mia anima risvegliando la mia intelligenza che dormiva. Da quel momento ho trovato la fiducia nelle mie capacità. E’ tutto lì... ” Poi l’ ombre lontane dei ricordi lo avvolsero in impalpabili nostalgie e si materializzava nell’aria l’odore adolescente come desiderio inconfessato di purezza primitiva. Ma il crescere di una coscienza d’appartenere all’umanità svolse l’adolescenza verso impulsi planetari in poco tempo e Giovanni lasciò, sedendo in quel treno di sogno, lo stantio mondo nativo e la frenesia lo portò lontano a scordare focolari e orti fioriti. Ma talvolta la mente riscopre segni remoti di cui non pare più esserci traccia. Ma Francesca lo trasse con forza al presente rammentandogli che quella sera sarebbe giunta Viola e lui si scosse come da un sonno. Andarono via, forse era già tardi per il treno. Viola era già nella fiumana di visi della stazione. Centinaia di persone la sfioravano, urtavano la sua borsa e proseguivano veloci e indifferenti. Ella si fermò per far passare quella corrente inesausta. Quando la folla diradò riprese a camminare, ma lentamente, guardandosi intorno. Poi si fermò e attese. Stretta nella sciarpa Francesca le andò incontro: un abbraccio finalmente. Poco lontano Giovanni osservava la scena, quella scena vecchia d’incontri e di addii, quella scena che misura da sempre il tempo ritagliandolo in segmenti, quella scena d’indefinibile fugacità. E s’avvicinò arginando il fiume di pensieri che stava per annegarlo. “Questa è mia cugina”. Disse Francesca. Lui sorrise stringendole la mano. Viola guardò seria l’uomo, poi guardò Francesca e infine sorrise. Era sera ormai, una sera fredda e piovosa. La comoda macchina di Giovanni era un rifugio dorato e le luci della città parevano fuochi di fiabe ai cristalli d’acqua dei vetri. Miscèl intanto era rimasto solo, era fermo alla finestra a guardare la notte, ma nella mente un’idea: tornare in quel paesino sui colli. Lucia era lì, a meno di un’ora di macchina, pensarla era come afferrarla. Sembrava che vent’anni fossero stati solamente un lungo sonno. Ma pareva forse di più che l’oggi non gli appartenesse, che Lucia e lui stesso non fossero che fantasmi d’un tempo irrimediabilmente perduto : figure apparenti di proiezioni mediatiche. Ma quella sera, quella buia stessa sera di tuoni e lampi, Miscèl partì. Non era poi molto tardi, solo l’inverno precipitava le ore nell’abisso di una notte. Il negozio di fiori era infatti ancora aperto: fiori rossi lunghi come sciabole e in cuore una paura! Trovò subito la casa di Lucia e intravide la luce tra le imposte. Bussò con decisione e la porta si aprì in un attimo: le rose inzuppate d’acqua scintillarono saettanti davanti agli occhi della donna. Miscèl pensò che finalmente aveva avuto una buona idea. S’abbracciarono come vecchi emigranti che si rincontrano per caso, dopo anni, in una lontana America, una sorta di Mytical goldland appassita e nei loro occhi c’è ancora e sempre e solo la strada polverosa della loro infanzia. E tutto fu naturale, senza groppi stavolta: come avessero bevuto alle fonti prime della vita. Cenarono come anziani sposi chiacchierando della pioggia e delle stagioni. Poi piano diminuì l’intensità del temporale e uscirono davanti casa. Parlarono della luna che non c’era, delle stelle invisibili e dell’ubriaco barcollante nell’umida solitaria notte. Egli la invitò a casa sua per un giorno a venire come fosse la cosa più normale del mondo, ella capì, o volle capire per quella sera stessa e disse: “Andiamo!” Miscèl, pur folgorato, non si fece pregare. La vecchia macchina tossì felice di fendere il buio. La nebbia costringeva ad una andatura prudente, e forse fu quella nebbia che rese le loro parole ancor faticose: di nuovo. E Miscèl non riusciva a riannodare i fili logici delle cose, dei comportamenti di Lucia. Ma quando furono a casa cercò di inchiodarla: “Perché sei venuta?” “Perché sono stanca di solitudine, perché non ce la facevo più, per te....- “E allora spiegami questi strani atteggiamenti...”
“Perché... ” E tacque! S’irrigidì.
Miscèl le portò la tazzina del caffè e gliela porse con dolcezza come dicesse: non importa, ora sei con me. Lucia gettò la testa sullo schienale del divano e accese una sigaretta, lui le andò vicino e le carezzò i capelli chiari, lei si ritrasse: gocce di silenzio come gocce di quella pioggia fuori accompagnarono i loro occhi reciprocamente cercati. Si guardarono come amanti lontani, impotenti a strozzare le distanze.
“ Puoi dormire di là, io starò qua sul divano” Mormorò Miscèl, lei lo guardò con occhi intensi muovendo piano le labbra, le dolcissime labbra:
Sono gravemente malata - E strinse gli occhi. E Miscèl vide nella sua mente all’improvviso il caos. Poi di nuovo gocce di silenzio si posarono nell’aria e s’abbracciarono come vecchi bambini incapaci di parole. E lei lo strinse forte cercando con disperazione le sue labbra e s’abbandonò a quell’abbraccio tremante. Miscèl le mise il palmo della mano sulla nuca e la guardò con dolce desiderio, mentre la luce della stanza s’affievoliva sui loro corpi.
Era domenica l’indemani. Il mattino portò ancora pioggia, una pioggia leggera che fu piacevole osservare dalla finestra, sentirla sfiorare il viso come se il cosmo infinito con la sua umida veste avvolgesse i pensieri. Lucia ridente s’avvicinò a lui in silenzio e s’appoggiò sulle sue spalle come volesse continuare il sonno, forse il sogno...Fresca felicità di un mattino...Poi si guardarono e sorrisero, perché il male era comunque meno della gioia di uno sguardo.
“ Conoscevo solo il tuo nome allora” Disse Miscèl ” Eri famosa e io non t’avevo mai veduto, di te si diceva che portavi solo jeans consumati dai pavimenti delle assemblee e che dalla tasca posteriore dei tuoi pantaloni spuntasse sempre e solo un foglio spiegazzato con due parole rosse. Quando per la prima volta c’incontrammo, ricordi? Anzi ci scontrammo, sulla porta, e i tuoi occhi chiari mi fulminarono restai fermo e pensai: - che stronza!- Poi, mentre incurante di me, probabilmente non mi avevi neanche visto, correvi verso le scale, mi voltai e vidi quel giornale a terra e capìi che quella dovevi essere proprio tu. Il tuo nome mi fuggì di bocca e mentre ti porgevo lotta continua tu sorridesti come adesso e dicesti: - grazie compagno!- E io che ne sapevo di quella parola? Ti guardai solamente negli occhi e pensai : è bella! Fu la mia prima assemblea. Quanto fumo in quell’enorme stanzone spoglio e quanta polvere e minigonne e barbe e capelli sporchi e i miei occhi incollati alla tua nuca. Poi le tue scarpe da tennis sui termosifoni ad appiccicare proclami alle pareti e quasi mi cadesti addosso. Poi uscimmo e mi chiedesti se ero maschilista, io farfugliai d’essere un romantico - esistenzialista (dove l’avevo letto?) e tu t’aggrappasti a me folgorata da quelle parole” Lucia lo guardava e sorrideva:
“ Si, avevi l’aria fregata dei romantici, eri un utopista negativo, ma il fatto fu sol che m’intrigò la tua ambiguità, il dire e il non dire, non eri uno come gli altri e si vedeva, non eri un pallone gonfiato, le tue idee non erano decorazione, erano abito intimo, e sono infatti esplose, ti facesti in poco tempo chiaro, deciso e implacabile, specialmente dopo che conoscemmo quel tipo: Giovanni? Che a quest’ora sarà certo in galera...”
“No, è medico ed è qui, ci vediamo spesso.” Disse Miscèl in un fiato. Lucia lo guardò tacendo all’improvviso. Fu così arginato con un dolore sottile quel fiume di parole e di ricordi che stava per traboccare. E tornò il presente con il suo carico di tristezza e di affetti ombrati. Una giornata vissuta dentro quattro mura e lo spiraglio di una finestra aperta su un mondo desolato di periferia, dove l’ingiustizia sociale e l’emarginazione si percepivano come tratti immutabili, dove l’acqua tambureggiante aveva impastato le vie e i campi selvatici intorno. Ma la tristezza era dolce: una giornata intensa, una giornata di vita. Perché la vita non ha bisogno di clamori. E la sera lui la riaccompagnò al paesino e se ne tornò quasi felice. Ma nei giorni seguenti il pensiero di Lucia e del suo male addolorarono la dolcezza dei ricordi. Miscèl non sapeva che fare: sentiva il desiderio di correre da lei ma aveva l’infantile timore di sbagliare ogni parola, di violare la sua abitudine ad essere sola con se stessa, la sua solitudine, la sua intimità, e cosa volesse dire questo anch’egli lo sapeva bene: nessuno deve toccare certe cose! Così, come ancore, cercò Giovanni e Francesca. E conobbe Viola. In un nero pomeriggio di Febbraio oppresso da una spessa coltre di nubi immobili e metalliche che schiacciavano all’infinito anche il soffio del vento, tra i viali di un ospedale cinerino li incontrò. Viola fu timida nel salutarlo, lui a stento pronunciò parole verso di lei, come se non l’avesse vista del tutto. Ma nel silenzio i loro sguardi si incrociavano, anche se nessuno dei due si rivolgeva all’altro con parole, come se Francesca e Giovanni fossero tramiti inconsapevoli di un discorso criptico e confuso. Per quel giorno Miscèl scordò Lucia. E anche se nella sera, dentro una affollata pizzeria, gli tornò in mente, non ne parlò a Giovanni nonostante l’avesse cercato quasi apposta. Ma quella novità, dopo anni di pensieri antichi, di celate nostalgie, di incapacità a sciogliersi nel presente e di credersi ancora capace di progetti, quella novità di nome Viola come una musica l’aveva rubato ad un mondo antico regalandogli note sfumate ma radianti, note da scrivere sul suo pentagramma bianco, senza nemmeno una chiave di violino. Tra le parole d’incitamento di Francesca affinché ella parlasse e dicesse qualcosa sulla città, che dicesse qualcosa dei suoi amici e gli sguardi confidenziali rivolti a lei da Giovanni per evitarle pudori, Viola cercava qualcosa cui aggrapparsi. Miscèl attendeva un cenno, una voce da quelle labbra serrate, ma che gli parevano naturalmente disposte al sorriso, e la fissava come si fissa un ramo carico di ciliegie che ci sfiora i capelli. E Viola li osservò uno per uno in un crescendo d’emozioni intime che non trasparivano, si sentiva troppo al centro di attenzioni a cui non era abituata da tempo, ma raccogliendo la sua calma razionalità e modulando la sua intelligenza, disse: “ Ma non sono un animale strano, non sono una che parla troppo...Con voi sto bene, mi piace ascoltarvi e guardarvi...” E qui Miscèl si sentì quasi avvampare il viso perché si accorse che la ragazza guardava lui mentre parlava. Ma poi le parole vennero sciolte e coprirono, ma di un velo sottile, alcuni colpi di cuore. S’era intanto fatto tardi e Miscèl non era riuscito a parlare a Giovanni di Lucia: Viola aveva rimescolato il suo cervello che quasi non sapeva più che cos’era importante e si chiedeva se Francesca l’avesse capito, lei così acuta! Quando si salutarono ebbe comunque l’impressione che nessuno si fosse accorto dei suoi moti, nemmeno la stessa Viola, che però gli sorrise senza più remore. Quella fu una notte agitata per Miscèl. Il giorno dopo andò a cercare di nuovo l’amico in ospedale. Arrivò presto: sedette in una saletta ad aspettare che il medico finisse il solito giro delle visite quotidiane ai malati, in una saletta deserta ornata da piante grasse e fiori inconsueti, probabilmente di plastica, con un vecchio macinino di televisore impolverato in un angolo. Ma fu l’odore dei medicinali che aggredì i suoi sensi spingendolo sul balcone nonostante il freddo. Fu colto soprappensiero dalla voce di Giovanni che lo invitò nel suo studio. “ Ti ricordi che t’ho parlato di una donna qualche tempo fa?” Esordì subito Miscèl, quasi per togliersi un peso. - Si - “ Vedi, non è molto giovane... la conoscevo...” - Una vecchia fiamma? - “ Lascia stare...la conoscevi...la conosci anche tu, non so se la ricordi...”
- Ma perché sei preoccupato?-
“ Si chiama Lucia...”
- Lucia? Non mi pare...-
Pensaci bene: al primo anno frequentavamo insieme...cioè io frequentavo, voi due no, avevate altro per la testa...”
- Bionda? -
“Si “
- Elleccì?-
“Si “
- ...Rcogiuda! Ma è magnifico! Vi vedete? -
“ Non è proprio magnifico”.
- La voglio incontrare. Le hai detto di me?-
“ No, non ancora, è da poco...poi lei abita fuori...Ma c’è un problema...”
- Che problema?-
“ Non l’ho vista per la verità molto spesso, è stato difficile...all’inizio, parlare, raccontare, ricordare...”
- Questo lo immagino, ma dopo? Voglio dire adesso...-
“ Ora è peggio: ha un male misterioso. S’era sposata ma si è separata quasi subito, vive da sola, fa la maestra, ha bisogno di calore, di affetto, ha vissuto troppo tempo in solitudine, io non sono più capace, lei è testarda come allora...”
- Anche lei fregata! La settimana prossima andremo a trovarla...Anzi no. Francesca ora ha per le mani sua cugina e posso approfittare: ci andremo domani, oggi sono qui. -
“ Ma quando andrà via questa cugina?”
- Non lo so, abita in un paesino sperduto sulle colline...-
Si guardarono un attimo in silenzio, poi Giovanni tornò ai suoi ricoverati e Miscèl andò via. Attraversò la città guidando lentamente e pensando a Lucia: - devo fare di tutto per starle vicino- Ma nella sua testa faceva capolino il viso di Viola e non provava nemmeno a ricacciarlo indietro e i sentimenti salivano gli uni sugli altri. Il giorno dopo presto arrivò Giovanni e partirono verso il paese di Lucia. In Miscèl ritornò durante il viaggio quella sensazione di sentimenti sovrapposti quando Giovanni gli disse che Viola aveva chiesto di lui, intanto il cielo s’era fatto di metallo. Il paese è deserto, surreale, minaccioso, cupo: la casa di Lucia appare solitaria e il tempo vacilla all’indietro. Nel silenzio degli occhi di Giovanni danzano immagini oniriche, ma lunghe parole gli girano dentro la testa e picchiano alle pareti interne del cranio. Si ferma un attimo come temesse cattivi folletti, come a riprendere fiato, vorrebbe fuggirsene, ma allo sguardo di sfida di Miscèl il medico che è in lui riacquista il dominio e nulla più traspare dal suo viso elegante. E Miscèl bussa alla porta che subito si apre: appare in un’antologia di segni il viso ridente e fuggitivo di Lucia: “ Ciao, ti aspettavo...” E poi guarda l’altro uomo attraverso gli occhiali, gli tende la mano: “ Ciao, io sono Lucia, entrate...” Giovanni muto riperde nei meandri dell’anima il medico ed entra barcollante. Miscèl osserva la donna e le chiede: - Ma non lo riconosci? - E Lucia tenendosi gli occhiali con una mano guarda Giovanni perduto sul divano e dice: “ No! Chi è? “ Giovanni non parla, accende come un automa una sigaretta alla maniera d’adolescente, quando davanti ad una ragazza voleva tenere le labbra occupate perché non sapeva che esistevano le parole. E Lucia tende le braccia come tentacoli su Miscèl e gli sussurra con un pudore antico: “ E’ Giovanni...” E Giovanni si alza dal divano perché intanto il medico era riaffiorato: fu allora che si abbracciarono. Fuori cadeva la neve a fiocchi silenziosi e pesanti, dentro rimaneva sospeso l’odore di libri e di candeggina. Libri messi l’uno sull’altro senz’ordine apparente e fogli ammucchiati sulla credenza e scatole di cartone ingiallito chiuse con nastro adesivo. Questo gli occhi di Giovanni indagavano, come temesse di scorgere tracce di un paludoso passato. Miscèl stava vicino a Lucia affettuosamente. Giovanni, dopo un attimo di silenzio e dopo aver ingoiato saliva, come se si sentisse in colpa per quel suo guardare, chiese come un pulcino:
“ Quante stanze ha questa casa?” Lucia lo guardò e scoppiò a ridere, a ridere come un fiume e ridendo rispose:
- Quest’ala solo una, come puoi vedere, poi c’è l’ala nord con bagno e camera.-
Non sono certo facili i primi momenti per chi si rincontra dopo aver lasciato cadere nel vento le proprie domande di una vita, senza aver mai trovato risposte in discorsi oramai cristallizzati dal tempo, e quando il destino ce le fa riapparire nude ci fingiamo sorpresi della loro longevità, e non siamo più capaci di ripartire da discorsi interrotti, sospesi dalle brutalità degli eventi come se il tempo non fosse mai passato, o forse non lo vogliamo più per nausea o stanchezza. Come si possono trovare parole giuste, come si potrebbe davvero scorgere in quei discorsi un filo resistente al tempo, impermeabile al mondo al quale annodare i sentimenti? Ma c’era Miscèl, ed era antico e nuovo per entrambi. Il fragile Miscèl ruppe i diaframmi del tempo: non ci fu più passato e presente, solo tre anime e tre corpi. Pian piano tutto divenne reale e tutto sognato, quotidiano e incomprensibile. Come la malattia di Lucia. “ Domani verrai in ospedale.” Affermò Giovanni senza esitazioni e Miscèl, temendo titubanze della donna, rincarò la dose d’autorità:
- Verremo insieme - Lucia abbassò la testa annuendo, poi, come se avesse tolto un macigno davanti a sé, cercò parole leggere: “ Certo ne è passato di tempo da quando da un pelo all’altro del tuo baffo ci volevano quindici minuti di bicicletta! Eh Giovanni? Ora neanche ce li hai i baffi! Sei pulito, lucido...” E Giovanni con serietà:
- E tu? Sei lucida tu? - Lucia rispose d’istinto:
“ La mia paura è lucidissima...Dopo essermi separata da mio marito mi sentivo finalmente libera...libera...libera come una volta ma con più mezzi, con più possibilità...finchè questo mondo mi è crollato addosso, questo mondo così diverso da quello che avevo lasciato appena sposata, folgorata dall’amore, l’amore che fu capace di farmi ripiegare su me stessa, di pensare solo a me e a lui...Lui che aveva un’altra! E’ stato come un lungo sonno al cui risveglio ho trovato solitudine, soprattutto per la mia incapacità di relazionare, di trovare interlocutori soddisfacenti, persone con le quali parlare e mi sono chiusa.. Lui lo conobbi subito dopo la laurea. Elegante, sicuro di sé. Pratico. Io sentivo il bisogno di ritrovarmi, di ripensare la mia vita, mi sentivo sconfitta, avevo bisogno di meno parole, di meno utopie, di concretezza. Lui capì, o forse pensai che avesse capito. Dei vecchi non c’era più nessuno, scomparsi, ingoiati dal mondo, metabolizzati, ero sola. Forse era innamorato di me, forse io pure. Insomma ci sposammo e pensai di farmi ingoiare anch’io dal mondo. I primi tempi stavamo bene insieme: leggevo, cominciavo a insegnare, facevo progetti, lui guadagnava bene, aveva molti amici, era brillante...Ma dopo un po’ non ho più potuto affrontare certi discorsi con lui .- Ma smettila - mi diceva - l’unica cosa che davvero conta sono i soldi, divertirsi, viaggiare, i sogni sono belli a vent’anni, poi inizia la vita...Ho resistito due anni, non voleva figli perché lo avrebbero privato della libertà di muoversi, poi l’ho piantato. Da sola sono caduta nella disperazione. Ho cercato qualche vecchio conoscente e ho ritrovato Ciro...era quasi tossicomane, ho provato anch’io... quello che non ho fatto prima l’ho fatto fuori età. Per fortuna mi sono fermata in tempo, ho lasciato Roma e sono venuta qui. Ciro è ancora in quella strada, con la stessa barba, gli stessi capelli e gli stessi pantaloni...gli occhi...solo gli occhi sono più incavati...” Poi Miscèl, preso da incantesimi:
- Nessuno di noi è veramente cambiato, siamo dei coglioni, prigionieri di un tempo finito...- E Lucia che non voleva ricadere nella malinconia disse:
“ Basta con i discorsi complicati, per favore, ora vi cucinerò qualcosa di veramente speciale, e voi due intanto parlate di calcio...siete o no due vecchi pallonari?” E rise. Fu un pasto consumato tra rimpianti, dolcezze e allegria, con lampi inevitabili di tristezza. Ma si continuava a parlare: la parola unica medicina riempiva i vuoti del mondo. “ Giovanni, ma tu sei sposato? Non te l’avevo ancora chiesto, ora sei un medico!” Osò Lucia. E lui rispose : No, ma ci sto pensando, non so che fare...
“ E cosa vorresti fare ancora? Non t’è bastato quello che hai fatto? Oh scusa, mi è scappata... non volevo...”
- A Lucì che ho fatto? Quello che ho fatto io l’hanno fatto in tanti, lo sai, lo sapete, non rinnego nulla, era inevitabile per gente fatta come noi...come me...tra me e voi ci furono scelte diverse, anche se forse avevamo gli stessi scopi alla fine guardare le cose con gli occhi di oggi distorce le cose.- E Miscèl:
“ Ma voi avete spezzato le nostre speranze, avete abortito i nostri sogni...” E Giovanni interruppe:
- No, no ti sbagli: anche senza di noi non avreste avuto scampo, pensaci bene...-
E Lucia: “ Basta, basta, non ne voglio sentire parlare più.” E cambiando il tono: “Giovanni con chi ti sposi? E tutti quei fantasmi di cui mi parlavi il primo anno d’università, quelle figure evanescenti come l’aria esistevano davvero, esistono ancora?” E Giovanni con aria sognante:
-In qualche pagina ingiallita, perduta nei trittici latini o nelle cantilene dei venti le sere d’agosto... o di maggio, o nei fuochi dell’Etna - Silenzio. E Miscèl:
“ Sposerà Francesca, una splendida ragazza di vent’anni, o ventuno? “ Ma Giovanni era in trance:
- Le Anne sono, cioè furono, sentieri impercorribili, ma sono state , Roquentin permettendo, come quel metro di platino sepolto in qualche angolo di Parigi: immobili, immutabili, inutili...necessarie come invisibili archi...- Lucia lo guardava estasiata e riandò con la mente ad antiche letterature:
“ Ma questo è secondo romanticismo, quasi decadentismo...” E Giovanni:
- Lo confesso: a volte riemerge in me un incubo tardo- romantico mai domo, sconfitto un tempo dalle possenti scienze positive, mai debellato...ancora di notte...- E ammutolì d’improvviso come se i cavalli dell’inconscio lo avessero trascinato per troppo tempo e si svegliò, poi depose una coltre impenetrabile su quelle sonnambule filosofie dicendo a sé “ Adesso sono medico, basta così!”
E il presente d’un tratto riapparve nella sua vastità e Miscèl ne fu l’interprete:
Lucia domani andremo in ospedale - E la donna:
“ Anche se non è domani...ci andremo certo, datemi il tempo di parlare con i bambini. Ora siete voi che dovreste andare se no si fa tardi e con questo tempo...”
E se n’andarono che la neve sui colli rischiarava la gelida notte. E il mattino s’aprì con una nuova dimensione: freddo e sereno. Solo mucchietti di nevischio agli angoli sporchi dei palazzi erano rimasti dopo la pioggia notturna. Miscèl spalancò la finestra come ad invitare il sole, un sole fragile ma pieno. E il tempo invitava lui a uscire, ma egli resisteva passivamente. Poi trillò il campanello dell’ ingresso e la bellezza di Francesca si materializzò davanti a lui, e dietro Francesca, timidamente, stava Viola. Miscèl ne vide dapprima solo i capelli, poi il viso spuntò dolcemente e gli occhi furono i più belli che avesse mai veduto. Miscèl non disse nulla, spostò solo il suo corpo dall’uscio e le due donne furono già dentro. E allo sguardo inquisitore di Viola egli così parlò: “ Quando tornerai al paesino?”
- fra una settimana circa, devo ancora sbrigare delle faccende...-
E guardava Francesca come se si sentisse in colpa, ma lei non ci faceva caso. Viola si guardava intorno e pensava che ci sarebbe voluta una donna in quella casa, ma non lo dava a vedere. Miscèl si sentiva come un bambino colto con le mani nel sacco e tentò la prima mossa:
“ Come mai questa visita?” E Francesca:
- Ma che domande fai?-
“ Voglio dire...a quest’ora...”
- E’ l’ora del caffè! Giusto? Poi volevo chiederti di quella persona, quella tua vecchia amica, vuoi parlarne?-
Miscèl strinse gli occhi e disse:
“ Non c’è molto da parlare, abbiamo parlato già troppo, spero che vada subito in ospedale, le starò vicino, appartiene alla storia della mia vita...”
Buono questo caffè! - sibilò Viola cogliendo un dolore sottile nelle parole di Miscèl. E lui la guardò come un naufrago: come era bianco il suo viso! Poi Francesca: “ Perché non vieni con noi? “
- E dove?-
dovrei incontrare una persona e far vedere dei negozi a Viola...-
“ E io che faccio?”
- Ci accompagni in macchina perché noi siamo venute in autobus, e ci farai compagnia...ti va?- Gli andava!
Il freddo fuori arrossò le guance di Viola. I vetri della porta del palazzo erano lucenti, Francesca entrò quasi sicura di sé dicendo ai due amici d’attenderla. Miscèl, appena solo con Viola, sentì un freddo strano nel freddo dell’inverno tanto da essere spinto a dire alla ragazza di risalire in macchina, ma il pensiero di sbagliare qualcosa glielo impedì. Del resto Viola non mostrava d’avere freddo, intabarrata com’era. Così passarono lentissimi due minuti di silenzio. Poi Miscèl chiese:
“Quando tornerai nella tua campagna? “
- Me lo hai già chiesto, perché me lo domandi ancora? - Rispose lei quasi con fastidio, come se s’aspettasse altre parole e non quelle solite. Ma lui recuperò: “ Scusami ma ho scordato la risposta! “ Lei sorrise al momento d’imbarazzo di Miscèl e disse con dolcezza:
- Non lo so ancora, forse domani, forse tra una settimana, dipende...-
“Da che cosa?”
- Da certe cose che devo comprare...- Silenzio.
E Miscèl stavolta lo spezzò senza indugio:
“ Ma tu sei più grande di Francesca? “
- E di molto...-
“ Dai, sei più giovane di me!”
- E chi lo sa? Tu quanti anni hai?-
“ Chi? Io?”
- E chi allora?-
“ Quanti credi che ne abbia?”
- Ventotto? -
“ E tu venti? “
- Non mi prendere in giro!-
“ Neanche tu!”
E nel colloquio oramai divenuto fluente come una piena entrò Francesca col sorriso. E camminarono insieme allegramente, in leggerezza, mentre i colori del sole si facevano sempre più intensi: primi titubanti segni di nuove stagioni?
Certo fu che quel giorno Miscèl si sentì più lontano dal passato, una sensazione nuova, come fosse improvvisamente più libero. E i suoi pensieri verso Lucia furono meno ossessivi, come sfrondati da residui di colpe incomprese e di melanconie, ripuliti da una zavorra. Nei giorni successivi parlò con Giovanni di queste sue nuove sensazioni, di questo sentirsi “un altro”. E il medico che aveva sempre voluto e cercato tutto ciò nel vecchio amico, ora che intuiva l’avverarsi ineluttabile dei suoi desideri, sentiva i suoi piedi scollarsi da terra come per un ultimo volo e la parola tempo danzò mortale tra le labbra serrate e le lacrime inespresse.
VII
Lucia giunse in silenzio con la sua gonna marrone a balze che sfiorava i neri stivali, un maglione grigio a collo alto, magrissima con capelli così corti! Gli occhiali parevano enormi fanali improntati di mestizia. Miscèl l’accolse con fare delicato, come avesse tra le mani un prezioso cimelio oramai fragile, oramai vecchio. Ma non era freddezza la sua, solo sentiva misteriosamente quasi estranea quella donna come se una cesura pesante avesse interrotto d’un colpo il fluire continuo della sua vita, come se un filo si fosse spezzato. Poi il viaggio verso l’ospedale. Dentro la macchina esordì un mutismo crudele. I pensieri di Miscèl correvano in tutte le direzioni: non riusciva a fermarli. Eppure aveva lei accanto, lei! Volse il capo verso il suo viso, che era immobile, gli occhi fissi oltre il vetro, e la vide triste e minuta. “Ecco come finiremo. Come sono finite le nostre idee: nel nulla...”
E Lucia sentiva il peso di quello sguardo e si girò di scatto verso di lui fissandolo negli occhi senza parlare, come se avesse pensato le medesime parole, mentre dalle voragini del suo essere salivano altre parole che non disse. Le strade erano deserte, spente, tristi, i pochi passanti celavano il volto. Ma ecco l’ospedale. Scale ceree, ovatta e silenzio, figure bianche e veloci e infine Giovanni con la barba incolta come un simbolo.
“ Venite, sediamoci.”
Queste parole suadenti e calde toccarono Miscèl che si sentì quasi in colpa per i silenzi precedenti, mentre Lucia riprendeva fiducia. Vedere poi la donna vestita d’un pigiama a fiori, con quegli occhi cerchiati, vedere poi quella donna che stava in silenzio ad ascoltare il medico, “quella donna” così rassegnata e lenta, fu per Miscèl un vento nella testa. L’abbracciò strettissima e ributtò indietro le lacrime, lei sorrise di labbra e guardò Giovanni che abbassò il capo come picchiato dalle bacchette del tempo. Appena fuori Miscèl si mise a camminare come intontito, sentiva morire qualcosa e quel cammino gli dava nuova vita. Si fermò davanti ad un cancello mezzo arrugginito e cadente, invaso dall’erba eppure vivo, lo varcò d’istinto con passo antico e gli apparve un’isola verde. Alberi slanciati al cielo e mossi dal vento nelle cime, voci sussurrate da un tempo impreciso si alzavano dalla terra e galleggiavano a mezz’aria tra i riverberi smeraldini. Quattro pali bianchi, lucidi come nei sogni di un bambino, e bambini nelle maglie colorate rincorrevano un pallone: splendente come nei sogni di un bambino antico. E il pallone fuggì carezzando l’erba, volteggiando libero nell’aria e cadde nella rete, poi, triste, ritornò al centro del cerchio. E ripartì veloce tra i piedi e sui corpi, infine gli schizzò in faccia. Risero alto i bambini, ma lui lo abbracciò tra le mani come un “Ghezzi” e lo guardò mentre gli lacrimavano gli occhi per il colpo ricevuto, lo trattenne e lo sfiorò con le palme, lo rilanciò con un goffo calcio e corse dietro ai ragazzetti riempiendosi la bocca di quel tiepido sole. Ma le gambe si fecero pesanti, il corpo umido e gli occhi bruciarono come il cuore. Si allontanò chino verso il cancello lungo la linea di calce del rettangolo con lo sguardo a quelle maglie colorate, alla sfera che s’impennò nell’azzurro, a quelle gambe implumi. Quando fu di nuovo sulla strada, nel “mondo consueto dei grandi”, cercò solo la sua macchina come una tana. Così Lucia gli tornò in mente e l’ospedale con il suo parcheggio. Rombò via e solamente il viso di Viola si faceva largo tra le vetrine appesantite dall’umidità, nella selva dei suoi pensieri. A casa gettò parole senza ordine apparente su fogli, come cadessero goccia a goccia. Sentiva giunta ormai l’età delle rinunce, l’inverno, sentiva morire l’ultimo grande sogno: scrivere la storia della poesia della notte, o solo trascrivere su un gigantesco quaderno tutti i versi di tutte le poesie del mondo che parlassero della notte. Quello che riusciva a fare era a malapena seminare di parole fogli bianchi. Poi si divertiva a comporre frasi spostando le parole, cambiandole di posto, e il senso mutava ogni volta: “Viola deve andarsene, tornerà domani al suo paese - Viola deve andarsene al suo paese, tornerà domani. “ Le parole si giocavano di lui. Ma perché questa Viola gli saltava in mente quando “lei” Lucia, era così vicina e così bisognosa d’affetto? Che succedeva? E’ possibile che si cambi così? Possibile che la sua stessa vita e le cose che aveva sempre sognato di ritrovare lo lasciassero adesso così freddo e indifferente? Non gli batteva più il cuore al ricordo del passato? Bastavano gli occhi di una donna a cancellare o solo a rendere impenetrabile al sentimento la memoria? E dov’era quella canzone di Vecchioni: - Quelli fatti come noi nessuna donna li può fermare...-? Ma forse c’era dell’altro. Quella nausea che si andava impadronendo della retorica dei vent’anni e che li rendeva insopportabili come i ventenni di oggi e di cui, magari, Viola aveva solo reso la consapevolezza, da dove nasceva? O quella sera era in fondo una ben strana sera? In realtà il verme paziente del tempo rodeva senza sosta...
Accanto al letto di Lucia aveva l’impressione di vivere in un sogno, prigioniero di sensazioni evanescenti, impalpabili. Le sue parole lentamente si scollavano dalla loro storia, dal tempo trascorso, inseguivano invece il presente, corteggiavano il futuro. Miscèl sentì il bisogno di riacciuffare la propria vita e Lucia gli sembrava ormai un vincolo tenace e fastidioso, nonostante la vastità di sentimenti che gli procurava guardarla. Una vastità, però, entro cui si muoveva di tutto. Era come un vizio da cui si vuole e si deve scappare e non si ha la forza, e forse nemmeno la volontà o il coraggio di rompere, eppure si sente che è necessario. E tutto questo frantumarsi si consumava negli sguardi muti di entrambi. E Miscèl per un po’ non andò a trovare Lucia in ospedale. Fu Giovanni a tenerle spesso compagnia nell’ora delle visite e le parlava dell’amico come di uno che aveva disperato bisogno di orizzonti aperti, di strade nuove per sopravvivere. Quel passato che sonnecchiava in loro e che si era destato in virtù dei loro incontri doveva morire! Forse sarebbe bastato anche rimuoverlo dalla coscienza, certo, diceva il medico, non poteva condizionare un’intera vita. E Lucia l’aveva capito forse più di loro, ma c’era stato bisogno di riviverlo nel pensiero per poterne cogliere la fine. Da giorni ormai Miscèl non si recava in ospedale e Lucia chiese a Giovanni sue notizie, ma neanche lui sapeva nulla da giorni. Lucia voleva rivederlo, voleva parlare con lui e ascoltarlo, voleva sciogliere in lui quella verità evidente e celata che il tempo non si può fermare, che lui doveva continuare il cammino, a scalciare ai margini i sassi della sua strada. Così Giovanni, fors’anche lui stesso preoccupato per non vedere l’amico da un po’ di tempo, chiese alla sua Francesca di cercare Miscèl.
Era il crepuscolo, un crepuscolo nebbioso che la pioggia tingeva di nero, ma la ragazza camminava dritta e senza indugi, come spinta da una forza antica. Francesca vide la macchina di Miscèl ferma al solito posto lavata dalla pioggia. Ebbe un sollievo. Salì le scale semibuie di corsa. Miscèl aprì la porta sfoggiando un sorriso normale: cioè insolito per lui. Francesca entrò lietamente sorpresa. Egli non richiuse subito la porta, come aspettasse qualcun altro. “ Sono sola” Sibilò Francesca, e Miscèl, sentendosi colto in flagrante reato: - Pensavo a Giovanni... -
“ E’ lui che mi ha chiesto di venire a cercarti, visto che è un po’ che non ti si vede.-
_- Ci sono novità infatti: sono quasi dieci giorni che lavoro in un ufficio pubblico! -
“ Davvero?”
-Si, sono eccitato, faccio progetti, non mi capitava da tempo...-
“ Chissà come sarà contento Giovanni...E quella vostra amica..”
- Già...Lucia...Lucia dolceinganno....- E Francesca:
“ Lei ha chiesto di te, sta male...perché non vai a trovarla? “
- Lucia dolceinganno - Ripeté Miscèl con una voce che pareva provenire dal profondo.
Lontano---perduto....Erano queste le parole che Francesca vide brillare su un foglio bianco a terra, sotto il tavolo. Si chinò e stringendolo tra le dita lo porse a Miscèl struggendosi di non capire. E lui fu felice di leggerle negli occhi domande struggenti e struggenti furono le sue risposte: “ Dolceinganno è il soggetto...” E la ragazza capì nonostante tutto. Egli in realtà dubitava che Francesca avesse potuto capire ma non gliene importava nulla, non era necessario che lei capisse, certe cose nessuno le può capire all’infuori di noi stessi, non esistono parole o gesti, né sguardi tanto capaci... Bisognerebbe incarnare se stessi in un altro. Eppure Francesca aveva capito davvero: una comprensione fulminea, istintuale come un lampo che per un attimo lunghissimo illumina l’oscurità, e totale. Per questo andò via con il sospetto di essere entrata disordinatamente nel tessuto vitale di una trama nel passaggio più delicato. E Miscèl fu di nuovo solo, ma stavolta di una solitudine feconda, e sorridendo ad un libro aperto lesse : “ Oh tu gran notte, figlia di Michelangelo...”. Ma richiuse subito e riprese a fantasticare, a far progetti. Pensò ad una macchina nuova, una macchina da scrivere pulita e funzionante, pensò a Viola quasi senza accorgersene, ma ricacciò indietro questo pensiero, lo rimandò in un limbo inconoscibile e s’illuse d’averlo imprigionato. Pensò al suo lavoro, alle persone che stavano con lui in quella stanza piena di schedari e di computer. A quel tipo strano che girava con una parrucca di treccioline nere, ma non riuscì a cancellare Lucia dalla sua testa e uscì sulla strada. La nebbia delicata lo accolse con dolcezza ed egli vi camminò lieto, quasi rallegrato dalla leggera pioggia che lo carezzava, mentre i fari delle macchine apparivano come fantasmi che svanivano nell’attimo stesso che li vedeva apparire. Miscèl camminava lentamente, deciso a trovare risposte. Perché non era più andato da Lucia? Per il lavoro? Solo per il lavoro? E Viola? Perché aveva pensato che con Francesca ci fosse Viola? E dove era finito il passato? E quella nebbia era come il tunnel da attraversare? E mentre il suo cervello non trovava quiete s’inchiodarono davanti a lui due fari e il volto di Giovanni apparve dal finestrino dell’auto. Miscèl s’avvicinò e vide dentro la macchina due ragazze, le guardò incuriosito: una era bellissima, con riccioli neri e chicchi d’uva negli occhi, l’altra più minuta con capelli biondastri e il viso d’acne, truccatissima. Le guardò tanto che Giovanni lo scosse dicendogli: “ Vai a casa e aspettami, tra dieci minuti sarò da te”. E sfrecciò. Miscèl fece ritorno con nuovi pensieri. Dentro le mura di casa si chiese chi fossero quelle due ragazze con Giovanni e attese l’amico con impazienza, come se questo pensiero avesse il potere d’allontanare, o rendere meno pressanti, gli altri pensieri che lo turbavano. Giovanni entrò quieto, fumando, scostò con gesto lento i suoi capelli dalla tempia e cadde sulla poltrona : - Margò tiene un bambino all’orfanotrofio - Disse guardando Miscèl che restò muto a fissarlo e continuò : - Ogni settimana viene a trovarlo partendosi da Pavia. Lei lavora in un bar fino a tarda notte e, prima che l’alba spunti, dopo aver lavato i bicchieri, con le mani umide del sapone e i capelli increspati di fumo e di aliti, s’infila nel treno gelido dell’inverno. Margò è della provincia di Catania, sbattuta nell’Europa dalla fame. Margò è di una bellezza prorompente, ma se le stai un po’ vicino ti accorgi che dai suoi grandi occhi verdi spunta solo un dolore inaudito. Il suo corpo accende desideri, ma il suo sguardo limpido è una lama. Non so se ella è cosciente di quello che può provare un uomo a guardarla, a guardare le sue labbra di pesca o le sue gambe, i suoi riccioli neri sulle gote. Eppure dai suoi occhi pare che escano solo lacrime: ti ammazza se la guardi! Ma davvero il suo nome è Margò? Perché non si chiama Carmela? Agatina? E davvero lavora in un bar? Ma forse sa bene quello che provano gli uomini quando la guardano, ma non gliene importa nulla: “chi” sono gli uomini? E con lei c’era Vanessa! Anche lei viene dalla terra dei mandorli, dalle rovinose e aride colline di Nicosia. Vanessa è piccola, altra razza! Sottile come un’ancella: la dama di compagnia di Margò. La seguiva trotterellandole dietro come una cagnolina, ma quando pronunciava il suo nome: Vanessa, diventava altera. Ah! Vanessa, forse il tuo vero nome l’hai scordato, l’hai seminato lungo i marciapiedi della tua vita, i marciapiedi che non incontreremo mai... - Miscèl ascoltava rapito e quando Giovanni per un po’ tacque chiese: “ Chi sono? “ - Non le conosco e forse non le incontrerò più, mi hanno fermato per strada chiedendomi di portarle alla stazione...- “Queste storie capitano solo a gente come te...” - Non cambierà mai il mondo! - Disse con una tristezza infinita il medico cercando di chiudere il racconto. E Miscèl ritornò con la mente alla realtà della sera: Francesca andata via, Giovanni lì, lui il mattino dopo al lavoro, Lucia..., Viola..., il tempo....: “ Come sta Lucia? “ Non bene.- “ Non bene “ Ripeté Miscèl a denti stretti. E il medico ancora: - E tu? - “Io sto bene, verrò a trovarla, solo che prima vorrei mettere ordine nei miei pensieri, vorrei sapere cosa dirle...vorrei tanto sapere cosa dirle. Non ho molto tempo, lavoro di giorno e la sera scrivo...” - Lavori? E dove? - “Ah già! Tu non lo sai! Sto in un ufficio...Vuol dire che domani sera porterò la buona notizia anche a lei, sarà contenta...” - Si, sarà contenta...- Disse Giovanni con un soffio leggero delle labbra mentre s’infilava il cappotto con aria improvvisamente assente e sorridendo tristemente. Miscèl si alzò come volesse trattenere l’amico, ma Giovanni era già oltre l’uscio. E così corse alla finestra non capendo quella fretta improvvisa e vide l’amico stringersi nel bavero, lo vide per la prima volta curvo e l’osservò con tenerezza, una tenerezza tessuta dal tempo. Giovanni in fretta entrò in macchina e partì rapido. Le sue dita erano nervose, le luci della città cominciarono a dargli fastidio, i semafori lo innervosirono: si fermò. Scese dalla macchina e si guardò intorno: poche gocce fredde cadevano brillando, poche donne oramai guardavano le pellicce alle vetrine e poi le loro, uomini veloci scomparivano dietro il buio dei loro sguardi e sentì la nausea. Ripensò alle due ragazze e immaginò un triste bambino, un bambino che da grande avrebbe dato di certo colpa al mondo per le sue lacrime. E si lasciò andare. Camminò bagnato da una pioggia costante stringendosi nel cappotto, mungendo gli occhi come ad espellere pensieri cattivi oramai liquefatti, ora che non lo vedeva nessuno, ora che i muri neri dei palazzi ammutolivano le coscienze degli uomini, schiacciavano le titubanti voglie di vivere. Era un ritorno quasi casuale e improvviso alla malinconia, ad uno stato d’animo in realtà mai morto, sonnecchiante o celato ma vivo. Giovanni comprese che questo sentimento lo avrebbe accompagnato per la vita come un felino silenzioso sempre in agguato. Con un sospiro rassegnato tornò verso la macchina mentre due ragazzi confabulavano sul marciapiede opposto: lo videro e si ficcarono in un androne fingendosi impauriti, egli si fermò un attimo e guardò a terra come cercasse qualcosa tra le pozzanghere, poi spinse lo sguardo verso i ragazzi e non vedendoli più accelerò il passo. Aprì lo sportello dell’auto con gesto stanco e ripartì lentamente, i due ragazzi ora sul marciapiede danzavano baldanzosi, lui allora schiacciò il pedale. Fu a casa in poco tempo. Un grande appartamento dove abitava da solo, ove quella sera lo colse disperato il desiderio che d’improvviso arrivasse Francesca con il bagaglio della sua età. Si gettò sul letto e guardò le ombre del soffitto, poi vide una sigaretta occhieggiare tra i libri ma si girò dall’altra parte, verso il muro, e lì lo colse il sonno come l’uva matura la vendemmiatrice. Nel tardo pomeriggio del giorno dopo Miscèl varcava l’uscio dell’ospedale senza apparenti emozioni, eppure mentre i suoi passi s’avvicinavano alla stanza di Lucia in lui crescevano degli strani tremori. Si fermò un attimo come a raccogliere i pensieri davanti alla porta ed entrò lievemente. Lei dormiva: sul comodino una rosa in un bicchiere. Sedette a guardarla, poi, mentre gli ultimi affaticati raggi del sole gonfiavano come respiri le tendine candide, ella aprì timidi gli occhi. Senza muovere la testa, come se avesse sentito i pensieri di qualcuno camminare nell’aria, disse: “ Sei venuto...” Miscèl s’avvicinò con la testa al letto e le sorrise. Lei continuò : “ Ho saputo che hai un lavoro, mi fa piacere. “ Egli sorrise ancora senza parlare: la sua lingua non si scioglieva e, in più, s’aprì la porta ed entrò un’infermiera che sistemò la paziente seduta sul letto. Miscèl s’alzò dalla sedia, s’avvicinò all finestra e osservò il tramonto. L’infermiera uscì. Lui si riavvicinò al letto e prese la rosa dicendo. - Come ti senti? - “ Debole, molto debole. Il filo dell’aquilone mi sta sfuggendo dalle dita...” Miscèl si rigirava quel fiore in mano senza alzare la testa e lei riprese: “ Bella no? Me l’ha regalata un malato dell’ultimo piano...una specie di simpatico pazzo” - Si : è profumata” disse Miscèl riponendola sul comodino. Risedette vicino a lei sul letto e le prese la mano: cominciò a parlare del suo lavoro. Ogni tanto faceva una battuta e lei rideva, ridevano insieme. Poi Lucia gli si rivolse con determinazione: “ Vedi, il passato è passato: più eccitante, molto più interessante il futuro...” E ridevano ancora quando lui la salutò con un bacio, lei rideva anche quando lui fu già dietro la porta. Il tempo frantuma le vite, le esistenze divengono lontane, incapaci più di correlarsi, di sfiorarsi: perdute! Il passato diventa un pozzo che non si può più neanche guardare, si cristallizzano le immagini e le emozioni, i fatti sono come dei lontani e fumosi ai quali ci rivolgiamo stancamente, coscienti che non potranno mai più parlarci e ce ne andiamo soli calpestando ad ogni passo lacrime inutili. Miscèl cercò Giovanni nell’ospedale, chiese, meravigliato che il medico non fosse andato quel giorno a trovare Lucia. Nessuno l’aveva visto. Qualcuno gli precisò che pareva avesse telefonato per comunicare una indisponibilità dovuta ad un improvviso e misterioso malanno. Miscèl se ne andò pieno di dubbi. Un vento freddo l’accolse nel parcheggio dell’ospedale, mentre pensava a Giovanni e alla sera prima, a quell’immagine improvvisamente dimessa dell’amico, inconsuetamente fragile. Restò un minuto immobile con il viso contro il vento, con il petto contro il buio, poi partì. Il vento sulle strade pareva piegare le luci, allungare le ombre. Ma a casa, con il pensiero volto all’ indemani, all’ufficio e ai compagni di lavoro, svanì l’angoscia.
VIII Un pomeriggio, mentre Miscèl si trovava in quell’ufficio, concentrato davanti a un video terminale, apparve Willy con uno zaino da scolaro sulle spalle, sembrava un apprendista alpino con la sua barbetta bianca e lo sguardo felino, Willy l’eccentrico: un vecchio, così almeno sembrò al primo sguardo, ma la sua vitalità e la sua cultura, la sua disordinata intelligenza, il suo spirito, ebbero presto il sopravvento sulle apparenze. Incominciò a parlare della seconda guerra mondiale, chissà perché, di aerei e soldati, di resistenza e di “volanti rosse”, quasi volesse indagare la coscienza di Miscèl che ascoltava imperturbabile, ma il racconto del dopoguerra si faceva avvincente e s’allontanò con tutta la sedia dallo schermo: e tra le domande che gli uscivano prepotenti dalle labbra e i dubbi incontenibili oramai espressi, il vecchio Willy sembrò intravedere in lui una specie di serio punto di riferimento etico e si rilassò. Parlarono poi di filosofia: di Schopenhauer e di Hegel, della vita di Pier Paolo Pasolini, di cinema e poesia, di mille altre cose assurde. Il pacato Willy si sfogò come forse non faceva da anni a causa della solitudine che lo braccava con vigore da lungo tempo, a causa della profonda diffidenza che nutriva per gli uomini e per la storia della sua vita fatta di delusioni e amarezze infilate con perfida precisione una dopo l’altra. Si sfogò perché Miscèl lo prendeva sul serio e lo ascoltava interessato, raccontando cose antiche della sua vita con voce profonda, rauca. Infine scoppiarono a ridere: nelle pieghe della vita si annidavano velenosi sofismi, ma molto c’era di divertente! Miscèl voleva dire, raccontare qualcosa anche lui di sè ma sentì che era preferibile solo ascoltare: le rughe dell’uomo e la sua storia meritavano rispetto e capì di fare la giusta scelta tacendo. Willy capì quel silenzio improvviso e forse intuì anche lo stato d’animo di Miscèl, così si mise a parlare di quel loro lavoro, della sua carriera, dei passaggi di livello mai ottenuti per colpe od omissioni sconosciute, di antichi direttori, di burocrazie e di donne, gli piaceva raccontare di quando, durante una assemblea della Cgil, toccò il seno ad una “compagna” e questa lo schiaffeggiò e lui si giustificò dicendo: “Scusa non sapevo che fossi un’ infiltrata di Comunione e Liberazione!” Poi confessò che le penne con cui scriveva le portava da casa. Non solo: anche tutta la cancelleria e tirò fuori una lettera già pronta e lesse:
- - - Stimatissimo sig. Direttore, chiedo di essere messo in pensione con
l’effetto più immediato possibile, non dico mesi, né settimane, né giorni,
oserei dire fra ore. I requisiti ci sono come età ( quasi sessantadue anni), anzianità di lavoro in istituto ( decorrenza dai primi di Marzo 1952) li ho in maniera arciabbondante. Diversamente ho ampie ragioni per essere dichiarato in malattia. Da mesi vado avanti con sonniferi di ogni specie e ogni forza, ma per più di tre o quattro ore sulle ventiquattro non riesco ad assopirmi, quindi devo sempre raddoppiare la dose. Testimoni ne sono l’attuale medico dell’ SSN dottor Megler di Legnano sia il precedente dottor Giuseppe Piegai di Milano. Tale situazione non può non trasmettersi sul lavoro: rapidità concettuale, rapidità di concentrazione alla macchina (per scrivere o terminale) e financo manuale per ricorrenti annebbiamenti visivi all’occhio destro. Per alcuni colleghi, non uno o due, ma per un certo numero, vengo al lavoro solo per rompere i coglioni ( bando agli eufemismi). Sono un’entità pleonastica, anzi scombussolante tutta l’organizzazione che deve filare liscia e perfetta come uno dei migliori orologi svizzeri o giapponesi: figuremosi! In un generale Bailamme (eufemismo!) come quello che impera all’INPS qualcuno si insogna di essere in Giappone e con questo dico tutto perché tutto il mondo conosce, apprezza e trema di fronte alla religione del lavoro che c’è in quel paese dell’estremo oriente. Odio tutti quelli che mi mangiano sulla testa. Per contrapposto voglio subito cessare di essere quello che mangia sulla testa degli altri a causa del mancato raggiungimento degli obiettivi utili per il riconoscimento degli incentivi e dell’aumento degli arretrati. Ebbene, se io debbo essere la causa per antonomasia di questo annegamento dell’ufficio o, in via subordinata del settore, allora scusate, vi saluto tutti, saluto cordialmente lei, signor Direttore, tolgo il disturbo e me ne vado! Se mi si imputa di non essere quel razzo che è obbligatorio essere in questo improvviso ufficio del sol levante, così nato dalla sera alla mattina come un fungo nella sua stagione, allora sono io il primo ad autoaccusarmi. Per ragioni innate e anche acquisite sono quel che si usa dire un “lungo”, un lento. In altre parole ho la tendenza al ricamo o al lavoro con il bilancino come un galenico, piuttosto che al lavoro di getto, di scalpello con il colpo preciso, azzeccato, fulmineo. No! Questa dote proprio non ce l’ho. E’ il mio tipo di lavoro anche qui all’INPS è qui a dimostrarlo. Gli appellativi di pignolo, pedante, oserei dire quasi asfittico per la mania di voler mettere tutti i puntini sulle “I” , sono sulla bocca di tutti. Magari esagero in pignoleria piuttosto che lasciar correre le pratiche come su un “tapis rulant”. E se vogliamo contribuire a completare la disamina si chieda un po’ in giro quanto di personale ( acquistato con soldi di tasca mia) a favore dell’istituto ho messo a disposizione. Si vada dalle matite, dai pennarelli, dalla carta carbone, dalle pinzatrici a mano e da tavolo, dalle guide telefoniche ai righelli, per arrivare addirittura ad una sedia che ho portato da casa, a parte tante altre minutaglie come cancelleria, a parte libretti illustrativi Pirola e/o Buffetti inerenti aggiornamenti in materie nostre, per avere il coraggio di dire che sono un menefreghista: al prezzo di guadagnarmi del “pirla” o del “ minchione” per essere in linguaggio corrente. Essere poi trattato come una specie di clown con sarcasmi di vario tipo o chiamate in scena del tutto gratuite quanto fastidiose, rende tutto ciò assolutamente incompatibile con il mio spirito etico. Sfido chiunque a dire che gli è indifferente continuare ad essere classificato come l’unico e pesante pane di piombo che ferma la correntezza del lavoro e che la sua presenza come lavoratore è massicciamente deleteria. In verità la mia uscita definitiva dall’istituto rappresenterebbe per alcuni una vera liberazione: un vero “ mi si allarga il cuore” come l’aver fatto un tredici mostruoso al totocalcio. Oggi come oggi, l’andarmene in pensione ( me ne frego dell’aumento pecuniario conseguente) rappresenta senza timore di fare della retorica, un salto nel buio, una caduta nel baratro della solitudine più assoluta: No familiari di alcun genere, no assolutamente amici, salvo uno, uno solo, ma abita lontano e non può essere di conforto nell’angoscia esistenziale che caratterizza il mio miserabile mestiere di vivere, nessun coinvolgimento nemmeno marginale in attività ricreative, assistenziali, dilettantistiche...nessun gruppo o gruppuscolo... Per cortesia, però, non mi si venga a tacciare come assenteista abitudinario e nemmeno come ritardatario idem abitudinario perché questo significa disconoscere tutta la documentazione in proposito: prima meccanica e ora elettronica, oltre alle testimonianze de visu delle guardie giurate che mi hanno visto spesso entrare in istituto alle quattro del mattino e lavorare gratis. Senza Dio, senza famiglia, senza stato, senza l’ombra di un cane mi godo la mia solitudine. La si chiami sadomasochismo, nichilismo non me ne importa nulla di nulla. Niente tabelle di marcia, niente fanatismo del rendimento: io sono un anarchico, devo obbedire solo a me stesso, sono capace di impegnarmi allo stremo se è il caso senza lo stimolo di lodi o di medaglie o danè. Ripeto: saluto tutti i bauscia e me ne vado.” Senza altre parole uscirono insieme attraverso il cancello semichiuso dell’edificio accompagnati dal signor Balzarotti, guardia giurata, che continuava imperterrito a parlare di donne. Nella nebbia Willy si sarebbe facilmente scambiato per un pensoso liceale se non fosse stato per la curva delle sue spalle. Le macchine volavano sull’asfalto lucidato di nero e i fari, foschi, s’intrecciavano nell’aria fino a sbattere contro i muri grigi delle case. Miscèl stordito cercò parole per offrire un passaggio in macchina all’uomo, ma Willy era scomparso: ingoiato dalla palude di latte, e così rimase ad osservare l’impenetrabile cappa come se nel nulla cercasse risposte ad un sogno incomprensibile, ma quella era una realtà e, come tale, non aveva risposte. Montò in macchina e ripensò a Giovanni, a Francesca, all’ospedale, a Viola: scorreva i volti con la mente per cancellare quel senso d’angoscia che lo stordiva, quella tristezza profonda che regnava sulle cose, quella tristezza universale: di cose e uomini. Ma quando fu a casa fu forse una nuova solitudine, furono forse i cibi senza sapore che si cucinò, ma sentì, comprese solo assenze. Non fu capace di scrivere nulla, come se l’inutilità delle parole si fosse finalmente svelata. Solo immagini si disegnavano sulle pareti: il viso di Viola però copriva tutto. Fantasticò viaggi idilliaci verso il paese e verso il paesaggio ove abitava lei e sulla strada si addormentò. E solamente la sera successiva riuscì a recarsi in ospedale e vide Giovanni quasi stanco, con capelli inconsuetamente corti e tempie pulite. “Perché mi guardi così?” Disse Giovanni sorridendo. Miscèl stava per dire che sembrava vecchio, ma si sentì improvvisamente forte e vide l’amico fragile per la prima volta e tacque. Poi sprofondò in un molle sofà e disse serio: - Perché non c’eri l’altro giorno?- “Non mi sentivo bene...” Disse serio il medico e dopo una breve pausa continuò: “ Non so cosa mi accade...talvolta il pensiero mi uccide...Devo smettere di pensare...Pensare... Per esempio: tu pensa ad una persona particolare, unica, che non potrai mai rivedere, e questo è certo, o che se la dovessi incontrare per caso nasconderesti la testa nella sabbia, e nello stesso istante pensa a tutta la storia del mondo, alle ingiustizie secolari e ai pianti, ai fallimenti delle rivoluzioni e sublima tutto, identifica tutto, nell’immagine di quella persona e quando più alta è la coscienza di non rivederla più, allora pensa di riascoltare improvvisamente la sua voce al telefono per un’ora e cinquanta minuti senza che tu dica una parola, una sola parola e senti i brividi sulla schiena, e poi quando lei infine ti dice: - Vorrei vedere adesso i tuoi occhi...- tu ritrovi il motivo che ti fa essere contento di non averla di fronte: non vuoi che veda i tuoi occhi proprio in quel momento, e nemmeno le gote! Devo pensare ad altro, ho bisogno di qualcosa che mi prenda tutto e per sempre e non mi dia tempo per questo...Dovrei avere sempre qualcuno intorno. Forse Francesca...Guardarla, sentirla...Penso che mi sposerò, a lei però ancora non l’ho detto. Adesso le telefono...No, no, sono cose che si fanno di persona, vero? Devo impedire a questo cervello di correre..” E Miscèl non trovò più parole, osservava l’amico capendone lo strazio. E così gli chiese se era passato da Lucia, gli chiese di accompagnarlo. E muti si diressero verso la stanza dell’amica. Vicino alla porta videro uno strano individuo in pigiama che trafficava con due o tre fiori scheletriti in mano carezzandone i petali che s’infilò dentro con circospezione. I due entrarono subito dopo e notarono l’uomo che sistemava i fiori in un bicchiere sotto lo sguardo sereno di Lucia: “Ah! Ragazzi, questo è Saro, un amico.” E lui: - Ciao, anzi...buongiorno...buona sera dottore...- Miscèl lo osservò: pochi capelli, viso scavato, maniere delicate, occhi gonfi...Giovanni non diede segno alcuno di aver guardato Saro, ma si avvicinò al letto e parlò con Lucia di medicine e esami. Saro sistemava con zelo il comodino, mentre Miscèl restò un po’ indietro a osservare la scena. Poi Lucia provò a mettersi seduta sul letto con l’aiuto di Giovanni e Saro s’avvicinò a Miscèl: “Tu sei Miscèl, non è vero?” - Si perché?- Rispose lui nervosamente. “Oh! Nulla! Mi piace conoscere gli amici di Lucia.” Giovanni si voltò e sorrise a entrambi: anche Miscèl scoppiò a ridere e Saro più di lui. E parlò Lucia: “ Saro è molto caro viene spesso a trovarmi e parliamo, quando i medici ce lo consentono, abbiamo molto tempo, forse non usciremo mai di qua. “ - Ma che dici?- La interruppe Miscèl e Saro in quel momento urtò casualmente il bicchiere che stava sul comodino facendolo cadere a terra. E Giovanni nel trambusto s’avvicinò a Miscèl chiedendogli del suo lavoro. E nel mutismo pesante che seguì, Saro, etereo come una nuvola, danzando tra schegge di sguardi, appariva come una figura irreale, generato da dai desideri inconsci dei tre per addolcire ferite mortali, disse: “Oh ragazzi, via, non mi direte che pure voi siete come quei pallosi sessantottini che stanno rovinando il mondo con le loro nevrosi: guardateli, tutti ai vertici: giornali, televisioni, industrie, parlamento, siamo stufi: conformisti di marmo, borghesi...Vi odio borghesi figli di borghesi...povero Pasolini...” E abbracciò Lucia che rideva. Giovanni e Miscèl si guardarono, poi il riso li contaminò: un riso amaro, e uscirono. Saro li seguì con lo sguardo, forse pentito di quello che aveva detto, anche se dentro i suoi occhi c’era ancora del sangue. E Lucia: - O Sarì non dovevi dire quelle cose, stanotte non dormiranno! - Ma forse riusciranno a dormire meglio dopodomani e poi ho detto una verità.. Guardali sti rivoluzionari: leccaculi, pentiti, arrivisti...- “ Ma non sono tutti uguali...” Tentò Lucia.. Quelli veri ci sono... - Quelli veri...sono morti...- La interruppe bruscamente Saro guardandosi le mani e avvicinandosi alle rose del bicchiere dicendo: - meravigliose!- Adesso vado anch’io, tornerò più tardi. Lucia abbracciò il cuscino e si raggomitolò.
IX
Ma il giorno fatale era in agguato: Miscèl fu raggiunto da una telefonata in un mattino senza sole e volò in ospedale. Si precipitò nella stanza di Lucia. La mano stringeva la mano: i medici erano sconfitti. Gli occhi erano chiusi, fredda l’aria, mute le labbra. Risuonava un silenzio assordante e l’angoscia s’arrampicava alle pareti. Le dita scivolarono ad un ad una staccandosi lentamente dal caldo abbraccio e finirono posate sulle coperte in un segno finale. Miscèl sentì cadenzare quelle dita come anni finchè la sua mano fu vuota e sola e i suoi occhi s’aprirono e il viso cereo di Lucia parve affondare tra le piume. Sentì all’improvviso un volo, quasi uno sbatter d’ali che si partiva dal suo cuore lasciando vuota una nicchia e chinò il capo e il corpo come se nulla ormai potesse tenerli dritti: non voleranno più gli aquiloni. Passò il tempo come un viaggiatore indolente sulla scena mortale. Passò il tempo... Ma dalla terra, dalle scarpe s’alzò un calore sconosciuto: come nido di rondine si piantò in quella nicchia vuota. Gli occhi di Miscèl si aprirono ancora e videro il viso di Lucia piegarsi in un sorriso e riadagiarsi con dolcezza sul cuscino. Scivolò le dita su quel viso e mentre saliva dentro sé una vecchia romanza: “Ricordi? Sbocciavan le viole...”
Voltò le spalle al letto e fu come se lei lo spingesse verso il mondo, come se lei gli avesse tirato via un fardello pesante dalle spalle. Te ne sei andata, hai detto addio sorridendo, ci lasci in eredità questo nulla: forse è vero, è meglio non alzare il coperchio del passato, il coperchio incandescente del passato...Farò finta che tu non sia mai esistita, ricorderò solo le tue parole come stampate sui muri delle case che saranno cornice ai miei passi e cercherò Viola e cambierò le mie parole in parole semplici. Forse sarò padre, girerò la mia vita tra caffè e bambini, e godrò minestre riscaldate: è questo l’antidoto, lasciar perdere le farfalle colorate, tanto erano imprendibili e fugaci. Poi forse vedrò mio figlio camminare sulle strade che io avrò abbandonato o su quelle che avrò odiato con tutto me stesso, ma a quel punto sarò vecchio e tutto mi sembrerà ancora un sogno. Eppure vorrei ancora per una volta arrivare al mattino, un mattino piovoso di novembre che stenti ad illuminarsi, con le ombre fuggenti della notte romana ancora visibili, rivedere i binari di ghiaccio lanciare timidi sprazzi luminescenti ai miei occhi affannati...arrivare a Termini...Attraverserei i marciapiedi inzuppati di passi sconosciuti col sonno in testa e un acre mozzicone tra le labbra arse dalla notte insonne, poi poserei la valigia su quel sagrato per gettare stanchi rabbiosi sguardi al popolo che dorme tra i cartoni e sfuggirei alle sottane colorate delle zingare già operanti ,guarderei le luci dei bar e i tavolini vuoti. Poi uscirei all’aria fresca dell’alba mentre qualcuno mi sussurra:” Taxi?” Camminerei piano per sentire il vento sul viso e le gocce tra i capelli, camminerei tra i popoli del mondo qua distesi e disperati, entrerei lento in uno dei luridi chioschi di piazza dei Cinquecento a bere un latte macchiato che mi bruci la gola, a sentire bestemmie romane da un clochard assiepato all’angolo di secolari rovine di mura. Poi piano verso piazza della Repubblica: davanti alla fontana accenderei un’altra sigaretta e lancerei sguardi illusi al portone sognato e le prime studentesse passino veloci nelle strette minigonne e i miei occhi corrano quasi più del desiderio, mentre con la mano aperta nei capelli m’illuderei di pettinarmi. E poi... poi mentre il sole caldo asciughi l’aria e solamente dai tetti cadano le gocce, vorrei vedere da lontano la tua immagine muoversi decisa con un sol libro in mano, e subito vederti sorridere, e poi ridere, e poi ridere di più, e io immobile a guardarti finchè i nostri respiri si tocchino e ascolterei le tue solite parole: “ Non sei cambiato.” Ma sento pulsare milioni di parole dentro il mio corpo, le sento affannarsi e girare a vuoto, le sento spingersi dalle dita dei piedi fino alle narici, accalcarsi per trovare un’uscita: fuggire. Non ce la faccio più a trattenerle, devo stendermi a terra e gettarle fuori, su chi mi sta davanti. Servivamo noi? Non ci capirà nessuno! Regalerò delle pagine a tutti: quel bianco che mi si pone davanti come il letto sarebbe il sogno, ma non voglio scrivere, solo parlare, quando escono dalla bocca e si perdono nel silenzio è come se dessi alle parole la libertà. Noi siamo i confini: non apparteniamo a nessuno, chissà se a noi stessi!? Che sarà? L’ansia di giustizia, l’ansia di amore, la voglia di abbracciare il mondo o di schiacciarlo? Fermare ogni cosa o accelerare un vortice di corpi e di macchine fino a che tutto diventi luce? Incandescente silenzio? Noi siamo l’addio, il risveglio e la notte. La violenza dei pensieri si tramuti in orda saccheggiatrice e sbaragli l’indifferenza con colpi d’ascia e schizzi il sangue sui muri di creta. E poi? Ribelli per sempre? Contro tutti? Contro ogni ordine? Sconfitti! Il nostro orgoglio è la sconfitta decretata dal tempo dei tempi, il nostro boia si chiama egoismo. Noi siamo la linea dietro cui si torna indietro, al principio: si può stare sempre sulla linea? In bilico? Rivoluzione continua delle anime e delle illusioni, niente più. E oggi crolliamo in una nebbia di latte: nessuno ci turba, nessuno ci tange, nessuno davvero potrà capirci, in fondo neanche lo specchio ci rende quello che vorremmo. Il tempo s’è concentrato in una boccia di ferro: è tutto qui, tra le dita: il passato non è un lungo fiume che parte da mia madre e si sfila fino ad oggi, è racchiuso in un pugno vuoto, lo si può guardare tutto insieme come un punto, lo si può prendere a calci come una palla o giocarci a bocce, rotolarlo e osservare le sue piroette sconclusionate e metterselo in tasca o chiuderlo in una teca di cristallo: è come un sassolino siderale che talvolta sibila nel silenzio della vita. Bisogna con dolore scordare il passato, abbandonarlo in una voragine senza cespugli alle scarpate perché non si arrampichi come il mio pensiero su ogni arbusto che sporge: siamo altro da ciò che eravamo, non c’è alcuna continuità nell’esistenza, ogni minuto della nostra vita nasce e muore in un minuto e lascia solo il vuoto, ogni attimo è condannato a una solitudine irrimediabile come noi.
La pioggia incessante martellava il mondo ed era come se si svuotasse il cielo oramai incapace di sopportare per amore degli uomini pesi che non gli appartenevano. Un grigio senza confini erano le strade, la gente, le cose...Pochi accompagnavano Lucia nel soffio di un vento che si rovesciò improvviso, e Giovanni teneva stretta la mano di Francesca nel breve corteo funebre, Miscèl camminava a fianco di Saro perdonandolo per le sue ironie e non piangeva. Poi si ritrovarono tutti insieme dopo che Lucia ridivenne terra e intanto il cielo si andava qua e là spaccando d’azzurro: “ Quante volte ci hanno detto tristemente le speranze dei ragazzi sono fumo?.. Poi ritorna il sereno...” E furono tutti e quattro a casa di Giovanni come in un rifugio al male del tempo. E il medico incominciò a parlare come se per lungo tempo avesse voluto farlo: “ C’è nella vita sempre qualcosa che non riusciamo a prendere, a raggiungere, come un’insoddisfazione eterna, un’inquietudine incontrollabile. Il nostro malessere non è l’effetto di quello che siamo stati, di quello che di giusto o sbagliato abbiamo fatto, di quello che abbiamo vissuto e visto. A volte ho l’impressione che sia il contrario: noi abbiamo agito in un certo modo, abbiamo fatto certe scelte perché avevamo dentro quel malessere, quell’inquieto tremore di cercare...Quelli come noi non rideranno mai...E’ come se tutto fosse ovattato, come vivessimo in una dimensione confusa, inestricabile e tetra. Le voci sono lontane...sfocate, straniere. Tutto è piatto e noi siamo morti, schiacciati da una coperta d’immobilità, caduti dentro lo specchio stagnante di una realtà opaca.” Poi, guardando intensamente Francesca, continuò: “ Serve il tuo viso? La mia disperata voglia di sentirmi vivo? Certe volte mi sembra di camminare dentro una realtà virtuale, dentro quei giochi da computer dove attorno ruotano immagini illusorie, costruzioni effimere che un dio misterioso e mattacchione m’ha messo intorno...Quelli come noi non urleranno...non piangeranno! Forse è il tempo, forse siamo noi e quello che abbiamo lasciato di noi ma è da sempre che mi sento così: da quand’ero bambino. Ricordo che nulla m’acquietava, che cercavo e correvo e piangevo e non capivo. Ricordo la voglia di sensazioni nuove, la voglia di acchiappare e le mie mani vuote. Volevo camminare lungo le vie segnate dal vento, volare, ma le mie strade erano di polvere...e gli occhi bruciavano. Volevo essere sempre in un altro posto... Gli occhi bruciano ancora: non si può guardare oltre il muro liscio della superficie. Ritrovare persone che si credevano perdute, rimosse, cancellate dalla vita e piano piano scoprire che in realtà dentro di me non è mai esistito nient’altro che loro, che il tempo in mezzo è stato solo assurdo vuoto, una lunga stagione fredda, che erano stati loro l’unico elemento vivo della mia vita, che vuol dire? Eppure Francesca è qui, ed è nuova. O è antica pure lei?” E Miscèl: “ A me pareva che almeno tu avessi superato le trappole della malinconia, mi sbagliavo, ma devi farlo, come me, come tutti. Tu hai aiutato me a farlo: le cose che dicevi a me quando ci siamo incontrati dille a te stesso...” Poi, mentre un improvviso raggio di sole sfrecciò nella stanza, Saro si alzò e invitò tutti ad uscire, a respirare l’ultima, docile pioggia di quell’inverno. E così fecero. L’inverno davvero sfumava nell’aria umida e forse lacrime rotolarono negli occhi di Giovanni nello stringere la mano di Francesca, lacrime che nessuno vide, e il vento sembrò parlare sulle cime più alte degli alberi del viale: ora viene Primavera. Saro s’avvicinò a Miscèl mentre l’aria imbruniva per la sera già vicina e gli parlò fitto fitto, poi allungarono il passo lasciando sola la coppia e scomparvero sui marciapiedi affollati. Francesca li osservò naufragare nel mare delle folle e
si strinse al suo uomo con una dolcezza indescrivibile.
XI
Come pioveva! (Ma non era già finito l’inverno?) Miscèl arrestò la macchina ai cancelli del paese, pensava alle parole che avrebbe dovuto dire appena se la sarebbe trovata davanti. Viola era vicina, a pochi minuti da lì. Bisognava agire con prudenza. “Lei non s’aspetta certo di vedermi, devo studiare bene che cosa dire e prepararmi alle sue repliche”. Pensava Miscèl. Era già mezz’ora e non aveva ancora trovato le parole giuste, e in un attimo sentì l’impulso di andarsene: - Ma che ci faccio qui? Con che faccia mi presento da lei? Neanche si ricorderà di me. Devo andarmene!...No! Oramai sono qui, che può succedere? - La pioggia si fece più insistente, quasi rabbiosa, per le strade non c’era nessuno : Miscèl percorse il paese da un capo all’altro più d’una volta e si fermò davanti a un bar. Vi entrò: due vecchi giocavano a carte, uno lo fissò senza remore e vedendolo bagnato gli disse: “ Cerca qualcuno? ” Miscèl felicemente preso in contropiede chiese in un fiato di Viola. Il vecchio allora, strofinandosi il naso rubizzo e accennando ad un ironico sorriso, disse: “ Abita proprio qua dietro la persona che le interessa, alla fine del vialotto che si parte dalla strada: l’unica casa che vedrà è sua.” Ormai era fatta, Miscèl non poteva più tornare indietro. Imboccò fingendo coraggio la stradina e troppo presto apparve la casa. Lasciò la macchina ad una certa distanza come per conservare ancora un’ultima possibilità alla sua viltà e si guardò intorno mentre le gocce leggere gli bagnavano il viso. Ma al rumore della macchina qualcuno dalla casa s’era affacciato: la madre di Viola, che attese l’arrivo lento di chi non conosceva. Miscèl chiese con aria di sufficienza di Viola, ma la donna, senza avere risposto alla sua richiesta, lo invitò con cortese decisione ad entrare. Questo atteggiamento mise in difficoltà Miscèl che non trovò quasi parole per declinare l’invito: entrò. In quella casa così diversa dal suo appartamento, così apparentemente disordinata, così ricca di mille cose che non riconosceva o che non capiva più a cosa servissero, in quella casa che pareva appartenere ad un tempo perduto, scomparve il suo tremore. Sedette, Viola non c’era: doveva tornare da un momento all’altro. Il vecchio Pietro gli fece assaggiare del vino chiedendogli come faceva a conoscere sua figlia. E Miscèl: “ Buono questo vino! Veramente la conosco poco, sono amico di Francesca e l’ho vista in città quando è venuta...Oggi mi trovavo a passare...per lavoro...e mi sono ricordato, ma se lei non c’è non fa nulla...Ora vado via perché...poi si fa tardi...” E sulla porta apparve Viola : “ Questa si che è una sorpresa!” E Miscèl le andò incontro e l’abbracciò come si fa con una vecchia amica, una di quelle che non si scordano...Ma Viola rappresentava altro per lui e non voleva svelarsi. Ma quando restarono soli fu difficile nascondersi. E lei pareva non aspettare altro, diceva sempre si. “ Ci verresti al mare?” Disse Miscèl in un crescendo di eccitazione. E lei continuando a sorridere come se non avesse nemmeno sentito queste parole rispose: “Quando vuoi.” “Ma sai quanto è lontano il mare?” “E tu sai quanto tempo è passato dall’ultima volta che l’ho visto? E tu sai...?” Miscèl ammutolì mentre una febbre gli percorse ogni fibra del corpo. “ Domani?” “Domani!” La spiaggia di Marzo era molle, i passi affondavano morbidi e l’odore del sale s’ intrufolava nei baffi ancora appena accennati di Miscèl. I capelli che Viola voleva testardamente tenere legati per difenderli dalle incursioni di un vento sabbioso, d’improvviso si sciolsero senza pudore. L’azzurro striato dalle schiume ondeggiava che a guardarlo veniva il capogiro, ma Miscèl si perdeva negli occhi di Viola ed era un altro capogiro a turbarlo, ma non parlava. Non guardava il mare, cercava parole, cercava parole per se stesso. Viola e la sua giacca da uomo che la rendeva così attraente, come se dentro la ruvidezza dell’abito il suo viso assumesse una dolcezza inconsueta, camminava in silenzio come aspettasse qualcosa...A tratti si guardavano ma nessuno dei due parlava: ora erano entrambi indifesi: lo smaliziato colloquio del giorno prima era dimenticato. E quando gocce rare ma gonfie scesero dalle nubi e giunsero dalla montagna del mare e il nero del cielo apparve incombente, si guardarono più intensamente, forse sentivano dentro la tentazione di restare e abbracciarsi bagnati, ma la scusa della ragione li spinse a cercare riparo in macchina. Mentre la burrasca batteva i vetri e appaurò l’aria, i loro respiri si toccarono e le labbra di Miscèl s’avvicinarono...E in un attimo, era Marzo, rinacque il sole. E furono sul lungomare, con un gelato, e di nuovo improvvisamente piovve: di nuovo in macchina in un trambusto di goffi sorrisi: Miscèl aggredì il gelato con una voracità desueta e Viola lo osservò con sorpresa pensando: - Ma che fa? Sembra matto! -
Ma quando Miscèl ebbe consumato il gelato e la guardò con dolcezza lei si tranquillizzò. Poi ripartirono e lui le prese la mano intrecciando le dita alle dita e lei gli disse: “ Non ho mai incontrato uno come te, mi piaci moltissimo...” E Miscèl non rispose, neanche si girò: chissà che pensava in quel momento! Ma dopo qualche minuto fermò la macchina ai bordi della strada e guardò la donna come per indagarne i pensieri intimi e l’abbracciò, lei non si sottrasse. Cominciava a imbrunire il cielo quando ripartirono: “ Perché non vieni a casa mia? Domattina ti riporto al paesello, oppure andremo a fare una sorpresa a Francesca...Che ne dici?” Disse con serietà Miscèl. Ma lei rispose: ”No, riportami a casa...Verrò un’altra volta...devo pensarci bene...non sono una bambina...” Poi sul viale si lasciarono, sotto un lampione lei gli diede un velocissimo bacio sulla guancia e corse verso casa dicendo: ”Domani...” Miscèl restò un attimo a guardare il cielo improvviso di stelle quiete e lentamente salì in macchina ripartendo. Una strana luminosità addolciva la notte sulla via del ritorno e i suoi desideri volavano: come era diversa questa sera dalla sera che rincontrò Lucia! Lucia gli tornava nella mente, e malgrado tutto non riuscì a renderlo triste: Viola era oramai troppo vicina! E così forse si consolò con il pensiero: - Noi siamo dei privilegiati: siamo stati testimoni di un tempo irripetibile, abbiamo covato sentimenti grandi, per questo oggi viviamo un disagio che ci consuma per questo mondo che ci schiaccia addosso le sue menzogne e il suo egoismo, forse perché siamo incapaci di rinunciare ai pensieri che prendevano tutta la nostra vita...ma la vita continua...” E l’avvolse prepotente una convinzione: - bisogna andare avanti - e abbracciò per intero il suo corpo oramai fremente. La luna sembrò un sole e rischiarò la lunga strada : “ Non fermarsi, bisogna non fermarsi, camminare con il tempo, ma ricordare che i fiori di Maggio saranno sempre rossi!- “
Salvatore Piccoli