VOCI DELL’IMBRUNIRE 

 

                                                         SALVATORE PICCOLI

 

  Dedicato ai giovani

 d'ogni tempo di Castagna

 morti nel fiore degli anni

 

 

NESSUNO FECE IN TEMPO A DIRE ADDIO

 

 

Nessuno fece in tempo a dire addio

La finestra

La libertà

Piccoli tesori celati

Un amore difficile

Salotti

La partenza

Un amore

D'improvviso Milano

Un vuoto immenso

 

 

Nessuno fece in tempo a dire addio

 

 

La vita ci rubò al sogno con tale rapidità da lasciarci senza fiato.

Ma quali sogni potevamo noi covare dentro cuori adolescenti in un angolo di mondo perduto, lontano dai fermenti dei mitici "anni 60"?

Sordo ad ogni eco: era un mondo rattrappito, incapace di srotolarsi e le sue potenzialità castrate. Non facemmo in tempo a definire i contorni della nostra identità, tesi com'eravamo a disegnare un futuro fatalmente lontano da quei luoghi.

Eppure i sogni li avevamo. Anzi, dentro di noi, in quei miseri borghi, sotto l'aridità di quella terra, c'era qualcosa in più del sogno dei tempi.

Quell'identità che ci pareva imprendibile e i cui contorni sfumavano nella noia, in realtà ci avvolgeva vischiosa, pesava su noi come peccato originale: l'identità di chi non può morire dove nasce. Il nostro esistere, la nostra natura, il sogno di noi stessi erano caduchi. Noi avevamo il diritto di coltivare i fiori del giardino. Il nostro patrimonio sarebbe stato devastato, la nostra anima calpestata, i nostri sogni spezzati, i pensieri divelti e poi svuotati. Tutto ciò nel disegno mostruoso di un'omologazione assoluta ai valori della civiltà del consumo. Saremmo diventati numeri, i nostri ingenui sospiri di giustizia, i nostri fragili progetti di cambiare il mondo iniziando dal nostro mondo, facilmente soffocati, fatti a pezzi come noi stessi scagliati ovunque: schegge.

 Dispersi, persi ad ogni speranza di ricomposizione siamo oggi prese del conformismo imperante al punto che, a volte, in un impeto  irrazionale di povero orgoglio nell'affermazione di un "io sono" già ambiguo e deformante guardiamo al Sud come se ci fosse alieno e remoto, in un goffo tentativo d'identificazione con la cultura egemone e i suoi voraci mentitori.

È la notte di Natale! Questi pensieri mi fioccano in testa come il gelo, come questa neve chi si posa e si disintegra senza rumore sulle fiamme che mi stanno davanti. Natale: il mito eterno del ritorno.

Ma sono rivolgimento repentino nella coscienza e nello spazio il vociare allegro e il calpestìo tambureggiante dei ragazzini che dai vicoli spioventi del paese fluiscono come ruscelli disordinati nella piazza, dove pulsa lo smisurato cuore della "focara".

Intorno al grande fuoco uomini muti e bui, meditabondi come se parlare fosse sacrilegio. Anche il nostro gruppo tace, vinto da un'aria grave ed arcana: un silenzio quasi religioso. Ed ecco leste le prime donne che vanno in chiesa, coperte da neri, pesanti scialli e con la testa china sfidano il freddo e l'ora. Qualche madre tenta invano d'agguantare il  proprio figlio per sottrarlo alla rigida notte e condurlo al tepore della S.S. Messa, ma i bimbi felini sgusciano via. Piano piano la disordinata processione s'infittisce: in fila indiana dalle nere, impenetrabili ombre dei vicoli, spuntano, silenziose e minuscole, figure curve che il tempo e gli addii hanno modellato. Esse prendono vita stremate sotto la sfocata luce di lampadine esauste e alzano il capo al chiarore delle fiamme. Non v'è un uomo che varchi il sacro portale: "cose di chiesa cose di donne"!

Così attorno al fuoco qualcuno comincia a parlare. Un vecchio con una piega sulle labbra ed incurvato come se portasse pesi antichi accenna racconti di altre età, epoche che paion perdute come chimere, forse non toppo lontane: molte cose sono mutate, molte sono rimaste eguali a se stesse. Ascoltiamo fingendo indifferenti, indolenti, ma sottilmente la magia delle parole e delle fiamme ci consuma e i nostri pensieri rimossi prorompono nella coscienza.

Ripenso ai primi brucianti perché che mi piovvero dentro quando, quasi bambino, sentìi parlare alcuni vecchi stranamente vestiti e le loro parole avevano un suono curioso che mi innervosiva. Dicevamo: "...mherica". come era grande, come era bella. La gente con lo zappone sulle spalle e i pantaloni rattoppati, a bocca spalancata inseguiva con gli occhi rossi per la terra nelle ciglia sogni proibiti sui visi stanchi di quegli uomini senza capire, senza poter capire. Anch'io mi chiedevo cosa fosse "mherica",  dove fosse, perché fosse. Mi chiesi mille cose senza capire, senza poter capire, le chiesi a "loro" e non me le spiegarono. I loro goffi e gonfi trasudavano amarezza e non lo capivano, delusione e lo negavano, erano tristi e li sforzavano di sorridere. Perché? Di notte mi tornava il tarlo e pensavo, ideavo città colorate, genti felici, eldoradi lontani, come per scacciare un incubo incombente.

Poi ad uno ad uno vidi partire i miei compagni e con la loro una parte di me si staccava dalla terra, si spezzava secca. Ma in questo loro andare cresceva in me testarda voglia di restare. E mentre la malinconia mi rode come una peste, come un uragano mi sommergono le risate degli amici. Ed è un susseguirsi di celie, mentre la notte si' irrobustisce e con essa più pungente si fa il freddo.

Gli ultimi anziani, raggomitolandosi, prendendo la via di casa, i bambini stendono le sciarpe sulle guance, tenuti ancor sù solo dai miseri cappottini, ma i loro occhi, rossi e vinti come una stanca utopia, si chiudono e si adagiano sui gradini gelati della chiesa: da lì li riprenderanno le madri dopo il "deo gratias".

 D'un tratto ci accorgiamo di essere soli, soli e muti. Si vorrebbe parlare, ma mentre il calore del fuoco si attacca ai nostri petti e ci brucia la faccia, le spalle s'irrigidiscono per il freddo, come le parole incapaci di sciogliersi sulle labbra. La voce di un ubriaco, la voce singhiozzante d'un ubriaco, recita lontano una triste romanza alla bella morettina e torna l'allegria e il gelo pare svanire. Ma l'ubriaco passa: testa in giù e non ci vede, è già lontani, aggrappato a chissà quale muro, a chissà quale ricordo. E noi qui. Ci guardiamo e quasi senza parlare decidiamo di fare una corsa per le vie del paese come a ripopolare la nostra mente coi sogni di  un tempo, quando bambini esploravamo ogni angolo, ogni anfratto del disadorno borgo. Ma dopo un pò ansimanti facciamo ritorno al fuoco, unica cosa viva. Qualcuno, come d'improvviso illuminato da quelle vampe, insinua nei ritagli dei nostri pesanti pensieri la pulce della fame. E si progetta l'assalto al pollaio del postino o alle conigliere di "Ndringhiti", ma lui è lì con noi ed emette un gridolino. Ridiamo.

Ma la libidine della gola ce l'abbiamo ormai dentro. e così ricordiamo che questo è il tempo dei maiali scannati: ognuno di noi si adopera per un pezzo di carne di morbida, umida salsiccia. E siamo tutti cuochi. L'odore intenso della carne sulle braci di sale lungo il corpo e ci sopravanza fin verso il buio cielo. Ora nevica e i morsi del freddo ci costringono a stare vicini e ci accorgiamo solo adesso che assieme al nostro gruppo ci sono altri visi, giovani e meno giovani, allegri e sorridenti.

E noi, contaminati dall'euforia e scaldati dal vino ci perdiamo in racconti dell'adolescenza, della nostra prima giovinezza, dell'esuberanza, del ribellismo frenetico, dell'inquietudine e dell'incapacità di accettare le regole del mondo che ci stava intorno e ci stringeva. Ed ecco storie di disperata noia, di bagni nel gelido Corace, nudi e infreddoliti, di spesso crudeli: ogni cosa; ogni piccola cosa ci bastava. Ma solo oggi capisco come fossero amare, dannatamente amare, le nostre burle al passaggio degli ubriachi e gli inevitabili sberleffi, le ironie.

Nelle interminabili sere d'inverno, nel buio angusto delle vie, scorrazzavamo divertiti e sanguigni, e quando dagli ingialliti vetri di finestre mal illuminate si scorgevano nella penombra profili di vecchi al focolare, stanchi con la testa persa tra le mani, schiacciati sulle sedie, piombava come catapulta sui fragili portoni un sasso scagliato con rabbia cieca e ci nascondevano ilari dietro gli angolo delle case per assaporare l'impotenza dolorosa di quei poveri vecchi a volte il loro pianto le parole tremanti, gonfie di tristezza ed ira che ci correvano dietro per tutta la notte, fin dentro il cuscino, ronzano ancora nella mia mente e i loro gesti poveramente minacciosi si celano sotto le mie palpebre. Forse era un sasso scagliato con rabbia cieca contro quel mondo per cancellarlo, ma oggi so a chi era diretto.

Comunque la crudeltà di quegli atti ci lasciava un inconfessato e profondo senso di colpa. Ma potevamo noi, in quelle sere, giacere come spiriti morti, sprofondare nel tedio? Dovevamo inventare qualcosa per esser sicuri d'esser vivi. Trovammo la soluzione. Con dieci lire compravamo una fialetta di benzina con cui bagnavamo i gradini dell'uscio delle nostre "vittime" e davamo fuoco, poi bussavamo sicuri di provocare situazioni strane o curiose. I primi esperimenti, infatti, furono gratificanti e spesso ci divertirono. A lungo andare, però, la "vis comica" s’infiacchì: un vecchietto che viveva da solo che ormai ci conosceva bene ci sorprese e ci smontò: apri la porta e con naturalezza, alla vista della fiammella, si scaldò le mani facendosi una grassa risata e rientrò richiudendo con ironici colpi di tosse. Ma la parola fine la scrivemmo a quel gioco quando arrostimmo la porta di mio zio.

Quanto tempo passavamo a parlare, parlare e parlare. A notte fonda per le strade c' eravamo soli solo noi e non volevamo andar via, le parole erano la nostra droga. Ci angosciava pensare di dover metterci a letto, ci prendeva come una febbre il male dell'esistenza, l'impotenza ci possedeva, vibravano le cellule del corpo ma ci vinceva la nausea  di essere inutili a noi stessi e al mondo, volevamo ribaltare l'intero universo e non potevamo che "parlare". Sdraiati al sole, sopra le cocenti pietre agli argini del Corace, fumando "nazionali" costruivamo incoscienti un mondo diverso; tormentati dalle bufere di neve, incollati ai portoni di case cadenti fumando nazionali, costruivamo incoscienti mondi sempre uguali. Il tempo passava.

 Non siamo più noi, o forse adesso solo adesso siamo davvero noi i dubbi, le paure, le incertezze. Dopo le scuole medie superiori iniziò il lento ed inesorabile esodo. La prima volta che ci ritrovammo era pure natale, ma come eravamo diversi da oggi! Energici, squillanti e freschi ci raccontavamo le esperienze, le espressioni su ciò che avevamo visto o vissuto a Roma, Torino, Milano o pisa. Sembrava che finalmente avessimo il mondo nelle nani. Ci sentivamo grandi ma incominciavamo solo a crescere, a misurarci con un mondo di cui avevamo immaginato solo l'esistenza, tra mille pregiudizi e complessi, e non capivamo, non potevamo capire che iniziava la fine della nostra identità e la sovversione dei nostri sogni. Mai più saremo andati al fiume, mai più avremo ritrovato i nostri sogni, avremo avuto altra droga che le parole. Non saremo stati mai più figli della nostra terra e non saremo mai divenuti altro.

Quella gente cosi formale, cosi diversa, cosi sicura di sè ci affascinava. Come era lontano il nostro piccolo mondo con le sue balbuzie, con i suoi timori e la sua povera gente. Lì erano gli uomini che dominavano la vita, da noi era la vita che ci passava addosso. Una contaminazione sottile ma costante ci allontanava dalle nostre radici e non ci avvicinava a nulla. Eravamo troppo immersi nella nostra cultura per poter assorbire tutto il nuovo, ma avevamo troppa voglia di libertà per rimanere ancorati ad un mondo immobile. E siamo uomini nuovi con una cultura vecchia o uomini vecchi con uno spirito nuovo.

Con i primi amori nati fuori dalle nostre menti abituate al sogno s'insinuava pian piano il senso nuovo dell'avventura, della materialità, dei nostri cuori si piantava il seme del piacere gratuito. Le grandi città disperdevano in mille rivoli l'impeto dei sentimenti cresciuto all'ombra di amori esclusivi e " stilnovicamente" sofferti, vissuti nel silenzio e nella solitudine. Ma le idee confuse e approssimative, disorganiche, che avevamo allora sui meccanismi sociali furono chiarite. I primi grandi movimenti di massa che vidi all'alba degli anni '70 mi sconvolsero. Ma la mia diffidenza, che mi trascinavo ancora addosso quale retaggio di un mondo chiuso e muto, mi spinse a guardare con distacco a quegli enormi cortei che percorrevano Roma. Solo quando capiì le parole dei loro urli, così simili a quelle che io custodivo in seno, riconobbi mia la loro rabbia.

Educato a credere da anni di silenzi e tedio, da schiene curve ed umiliazioni quotidiane che la morte vissuta ogni giorno a Castagna non fosse altro che l'epilogo fatale di colpe antiche, castigo divino, mi s'inondò il corpo di sudore quando compresi la verità.

Eppure questa lucida coscienza  si appanna ogni giorno che passa con l'impassibilità di stringerci tutti insieme: dispersi, persi ad ogni speranza di ricomposizione. Alla sera per le strade di Castagna ci sono oggi altri ragazzi, altre droghe...

La notte è alla fine: m'accompagna fino a casa il gelido chiarore dell'aurora sull'uscio e vomito rabbia e vino sulle compatte trame della neve, già screziata dalle timide ombre del mattino, ma dura e fredda come un sepolcro.

 

LA FINESTRA

 

 

- Tutto ciò che è vivo porta un segno speciale dall'infanzia!-

Queste parole, lette nella penombra di una sera solita e solitaria, m'hanno riportato prepotenti echi di altre età. M'hanno risvegliato ricordi di un mondo ombrato dal tempo: presenze vaghe dentro me, impalpabili dolori di un'adolescenza. Segni che si credono perduti d'improvviso rimbalzano, come evocati, dai meandri della mente e si ripropongono vivi e presenti. Tracce che la polvere degli anni ha cancellato si scoprono profonde e lucide. Movenze ritmate con suoni riappaiono, riemergono disperate rabbia e dolcezza.

Pietro era straordinario.

Un giorno gli chiesero, in mia presenza, quanti anni avesse, rispose tredici.

Sentìi come abisso incolmabile la distanza tra lui e me: tredici anni!

Forse fu il suono duro di quella parola, forse fu il modo come lo disse, ma e me, che di anni ne avevo undici, sembrò un uomo, e forse lo era. Con i suoi minuti occhi neri pareva guardare al di là di quello che si poteva vedere, a volte mi perdevo nell'inseguire il suo sguardo. Non aveva un padre. Cioè non aveva un padre come lo avevamo tutti noi: il suo c'era poche volte, ma non perché lavorasse, solo perché aveva un'altra moglie e figli chissà dove. Pietro aveva quattro sorelle, cinque fratellini e la madre, povera donna che camminava lungo i muri. Era il terzogenito dopo due femmine. La sua casa era buco con un focolare dietro una decrepita scala di legno a pioli dove non entrava luce dall'esterno, anche a causa di una semicurva della parete. Questa scala, posta in fronte alla cadente porta d'ingresso, immetteva in una bassa soffitta dove finanche i bambini potevano accedere solo chinando la testa. Lì Pietro diceva di tenere una coppia di colombi bianchi che a volte liberava in volo da una finestrella e ad ogni suo fischio essi rientravano. Immediatamente a destra dell'ingresso c'era una specie di stanza la cui porta s'apriva a metà per causa dei letti ammucchiati l'uno contro l'altro. Pietro era un grande organizzatore ed un trascinatore. Ci portava al fiume e ci insegnava a nuotare come se egli fosse un esperto. Negli accaldati pomeriggi estivi, quando le vie deserte del paese erano bruciate dal sole e dal niente, ci radunavamo in segreto tra i muri cadenti di una vecchia casa abbandonata, dove la desolazione opprimeva senza pietà, ed in gruppo, dopo aver fumato in cinque o sei la stessa sigaretta, ci recavamo al fiume.

 Attraverso gli orti fioriti, ove spesso saccheggiavano senza pudore, saltando oltre le siepi, correndo a perdifiato per i pendii, raggiungevamo il fondo valle dove triste scorreva il Corace. Camminavamo in fila indiana lungo gli argini aspri e spinosi di quella "fiumara" sfiorando le acque fredde e limpide.

Quando scoprivano un lungo adatto, con alacrità costruivamo rudimentali dighe per facilitare il ristagno dell'acqua ed aumentare la profondità, indi ci tuffavamo dopo avere sistemato  i vestiti al sole. Dall'alto dei suoi tredici anni Pietro elargiva consigli ed ammonimenti con tono paterno, elogiando i più bravi ed incitando i più restii. Organizzava escursioni presso i ruderi dell'abbazia di Corazzo perché, diceva,          se scaviamo troviamo il tesoro dei monaci, i preti, si sa, sono ricchi.-                            Egli s'arrampicava con agilità su quelle mura cadenti, talora, aggrappandosi temerariamente all'edera avvinghiata alle pietre, raggiungeva la sommità e ridiscendeva non senza batticuore dicendo con soddisfatto piglio: " così si fa!"                                   Poi cercavamo le antiche grotte, attraverso cui, si narrava, i monaci raggiungevano le case del paese. Spesso ci ficcavamo con audace leggerezza dentro scoscesi antri alla ricerca di misteri, eravamo costretti a procedere carponi per l'angustia dei luoghi, sentivamo le ginocchia sul terriccio umido divenire molli, ma era il buio impenetrabile di quei cunicoli che ci dissuadeva dall'inoltrarci, era una gelida paura che ci tratteneva.

Pietro era espertissimo nel trovare nidi. Sovente prendeva le uova per farle covare alle galline con lo scopo di creare "uccelli ammaestrati". Una volta aveva preso a scuoiare un colubro per farsi una cinghia per i pantaloni. Era il senatore delle nostre scorrerie infantili ed il capitano della nostra squadra di calcio, quando sfidavamo i coetanei dei paesi vicini. Egli preparava la tattica usando parole come "stopper", "battitore libero"  e " mezzapunta" e noi lo guardavamo a bocca aperta mentre continuava a parlare con gli occhi fissi al cielo.

Il nostro campo misurava ventotto metri di  lunghezza e undici di larghezza e si trovava tra i castagni proprio sopra casa mia. Prima di ogni partita passava da me, mia madre era la sua madrina, e mangiavamo pane e salsiccia. Ma la nostra stagione sportiva finiva ad ottobre, quando si raccoglievano le castagne. La sua caratteristica principale, quella per cui ancora oggi è ricordato nel paese come una buffa leggenda, era di non avere stringhe alle scarpe. Portava estate ed inverno gli stessi scarponi, enormi e grotteschi, con la punta rivoltata e bucati. Quando batteva i rigori era la scarpa a partire dal piede, quasi sempre la palla restava immobile sul dischetto, lui diventava rosso e tentava di ridere farfugliando qualcosa di incomprensibile.

Lo chiamavano, ansi si faceva chiamare: Miranda, come il calciatore dei suoi sogni. Tutti noi avevamo rubato un nome al mondo del calcio: l'unico mondo di cui conoscevamo l'esistenza, l'unico mondo capace di proiettarci sulle ali della fantasia al di là dei recinti della nostra condizione. Facevamo delle partite lunghissime, di ore, a volte, d'estate, terminavamo che la luna era già alta. Pietro nei più grandi, negli adulti, provocava sovente il riso per la sua goffaggine, anche se, forse già, intuivo confusamente un dolore impenetrabile dietro ogni suo gesto, dietro ogni sua parola.                              Raccontava spesso storie strane ed incredibili, usava parole mai sentite, tutti ridevano, io restavo muto ad osservarlo ed una volta lui lo capì. Spingeva ai giovanotti come fare per conquistare le donne. Si vantava di leggere "gialli" e di averne un'intera collezione, nessuno ci credeva. Diceva di passare ore ed ore a leggere nella sua stanza: era a questa parola che la gente rideva.

 Io lo immaginavo coricato a pancia in giù su qualche materasso posto nella sua soffitta, da solo a leggere come uno grande e un po’  lo invidiavo perché credevo che dentro i libri degli adulti ci fossero le risposte alle cose che non capivo, che vi fossero svelati i misteri dell'esistenza. Era vero:  leggeva in soffitta, in quella soffitta dove non voleva che qualcuno mai entrasse, il suo mondo. Mi disse che quando saremmo diventati grandi mi avrebbe portato. Non immaginava quanto presto sarebbe diventato grande.

 Di lui e della sua famiglia si diceva nel paese che fossero "poveri". Rimuginavano questa parola senza riuscire a definire i contorni precisi delle cose, mi pareva che fosse un peso che Pietro dovesse portare sulle spalle come una sorta di misteriosa punizione per dei crimini antichi. Sua madre quando veniva a casa mia se ne tornava con qualcosa sotto il braccio e non capivo mai cosa fosse. Un giorno notai "Lugo", fratello di Pietro, con addosso un vecchio paio di miei pantaloni. La cosa mi diede una emozione sconosciuta. Mia madre non mi volle dare spiegazioni. Iniziai così ad osservare attentamente anche la casa di Pietro alla ricerca di perché. Scoprii solamente che in quella casa a mezzogiorno la naturale vivacità dei bambini si tramutava in pianti materni. Qualcosa di terribile avvenne dentro me, strinsi forte i pugni in tasca e i denti e me ne andai fuggendo.

Avevo capito il significato della parola "tristezza".

Il padre di Pietro veniva un paio di volte alla settimana; scendeva dall'autobus delle quindici con una giacca a quadri marroni ed un paio di pantaloni grigi e larghi, mi sembrava una persona importante perché aveva lo stomaco grosso e nella mia mente di bambino chi era grasso era ricco. Mi chiedevo, quindi, perché non portasse i fratellini di Pietro con sé, dove stava lui. Recava sempre qualche pacco: era una festa per quella banda sporca e disadorna di bambini, ma non dormiva mai con loro.

 Arrivava, allontanava temporaneamente i propri figli più piccoli, gli altri uscivano da soli se erano in casa, e si chiudeva dentro con la madre di Pietro. Dopo qualche ora li richiamava e dava loro dei cioccolatini, poi se ne andava a piedi.

Ed io lo osservavo passare, lo guardavo quasi di nascosto, se la rideva masticando un pezzetto di legno tra i denti. A volte mi parlava, mi accarezzava:                                     - comparù come sta tuo padre?- Io non rispondevo. Lo vedevo scomparire dopo l'ultima curva del paese che era l'imbrunire. In fondo mi era simpatico.                                       Una fredda mattina di novembre, mentre mi recavo a scuola, frequentavo la prima media, mi fermai un attimo sul muretto di fronte alla casa di Pietro poggiandovi la cartella pesantissima di libri, erano le otto. Pietro apparve sull'uscio mi vide, e mi disse, riempiendo la bocca di felicità:

" C'è papa, stanotte ha dormito qui!"

Al ritorno da scuola, a casa, udii mia madre parlare sottovoce con una donna, ma non riuscivo a capire cosa dicessero. Poi, dopo mie infantili ed ossessivi insistenze seppi che era morto il padre di Pietro. Mi colò una lacrima sul viso senza quasi accorgermene.

Non avevo il coraggio di uscire di casa. D'istinto pensai a Dio. Al catechismo la sera prima il " missionario" aveva detto che Dio vuole bene ai suoi figli, che quando sembra chiudersi una porta in realtà si apre una finestra, o qualcosa del genere, qualcosa, comunque, che mi parve fatta per quell'occasione. Ma la porta che s'era chiusa era un macigno. Come una sfida disperata pensando - adesso voglio veder che farai, Dio!- Scesi verso la casa del morto per veder quale finestra si sarebbe aperta!

 La sorella maggiore di Pietro era in mezzo alla strada e urlava di dolore scagliando bestemmie a Dio e al Papa buono. Le bestemmie mi ferirono come coltelli perché ero, in fondo, certo che qualcosa sarebbe dovuta succedere: ne era certa la mia fede di allora! Era profondamente ingiusto quello che era accaduto, ci sarebbe stato di sicuro un miracolo, ed io ero lì per spiare le mosse di Dio. Ma ascoltando astutamente i discorsi degli adulti intesi che il morto non sarebbe stato portato in chiesa, come si usava per tutti, ma direttamente al cimitero. E c'era una parola, mai sentita che impediva che al padre di Pietro morto si dicesse messa: concubino.

Quella processione senza prete e senza croce rappresentava per me l'abbandono definitivo dell'uomo nelle tenebre, svelata ai miei occhi l'ottusità e lo squallore dell'esistenza, mi sentivo vuoto , mi sembrava che nulla avesse più senso: Dio non può esistere! Mi ripetevo, e la vita è un inganno ed io sono che un pazzo di carne senza ragione.

Era il crepuscolo, al cimitero andai anche io, tenendomi un po' in disparte, con in testa la certezza di odiare il mondo. Mentre si calava la bara in una fossa e un vento gelido piegava i cipressi e sparuti gruppi di persone osservavano con colpevole curiosità vidi Pietro che sorreggeva la madre cingendole le spalle con un braccio. Era davvero un uomo: per la prima volta lo vidi più alto di sua madre, lei era improvvisamente diventata minuscola e vecchia. Tremavo. Non solo per il freddo che ormai aveva allontanato anche l'ultimo curioso. Tornai a casa con passi pesanti e mi misi a letto. Pochi giorni dopo Pietro mi venne a chiamare a casa e mi portò a casa sua. Mi fece salire sulla scala che portava in soffitta. Camminavo carponi in direzione di un materasso, sopra il quale ci sedemmo. Accanto a questo giaciglio c'era una specie di comodino, come nelle vere stanze da letto. Dopo un attimo di silenzio mi chiese se volevo i suoi gialli, risposi che volevo solo vederli. Mentre il mio sguardo indagatore si posava su due piccioni raggomitolati, accasciati e sofferenti, Pietro aprì lo sportello di quella specie di comodino e caddero dei libri sgualciti e unti, uno mi sembro più nuovo; mi attrasse quella copertina così lucida e gialla mi parve il coperchio di uno scrigno. Avidamente lo apriì: vergate d'inchiostro rosso alcune righe parevano posate in fondo alla pagina, non so per quale recondito istinto lessi ad alta voce:

“ Oggi è morto mio padre...” Mi si gelarono le labbra, poi ripresi trattenendo con forza le lacrime - m'è caduto tra le braccia mentre si faceva la barba... -

Richiusi il libro e non mi usci una parola di bocca. Ma Pietro non era più vicino a me, stava trafficando con i piccioni, aveva aperto la finestrella e li spingeva fuori. Finalmente andammo via, la scala di legno che sorreggeva i miei passi nello scendere mi sembrò interminabile. Quella sera dietro il cimitero fumammo, come per lacerare un lenzuolo di nebbia che ci avvolgeva. Pietro aveva un intero pacchetto di sigarette, capì il mio stupore e disse che ormai lui era diventato una specie di "capofamiglia" e che presto sarebbero tutti partiti per Torino. Torino! Un posto dove tutti lavoravano e nessuno era povero. Era questa  la finestra?

                          

 

LA LIBERTÀ

 

 

Era inverno, la neve caduta rendeva i tetti delle case simili a lenzuola. Abbracciavo con lo sguardo quasi per intero il paese e il suo perimetro irregolare.

 Castagna sembrava un grazioso presepio, col campanile in bella vista, macchie nere i muri delle case. Le stradine parevano fili di un intricato gomitolo e tutto era muto. La facciata anteriore della chiesa dello Spirito Santo, con la sua stanca geometria, spiccava nera e dolente, silenziosa e ossessiva in mezzo a quel biancore

"ma quale Dio! Una bomba e tutto sarebbe finito... sembra un cimitero".

Ma era quello il mio paese! Ma cos'è la libertà se non l'emozione istintiva, l'impulso, l'intuito geniale di un attimo?

Poi vi fu calma piatta nel mio cervello e, mentre cercavo di ricordare cosa facessi su quella collina con quel freddo nelle ossa, le voci allegre delle ragazze mi trascinarono nella realtà e una palla di neve in testa mi scosse definitivamente.

Ci si divertiva quel pomeriggio, con guanti e sciarpe, ci si rincorreva e si cadeva sul soffice tappeto, si rideva. Il respiro si materializzava nell'aria disegnando scie luminose, la gioia come d'improvviso mi spinse dritto a terra, sulla neve. Che fresco nel cuore! Urlai libertà col corpo, masticando neve, con la testa grondante neve. E si giocava tra gli alberi umidi sotto un cielo bruno e all'orizzonte un sole rosso e lontano come un'utopia. Si cantavano romanze senza tempo, senza parole, col suono dell'infinito.

Si ballava ad una musica dolce, ci si stringeva con desiderio. Struggenti e remote, parole antiche d'amore sfioravano i pensieri ma non osavano varcare la soglia delle labbra, erano ricacciate indietro e compresse: - come sono vuote le donne - pensai

- ridono sempre come cicale."

Nessuno saprà mai quel che si agita nel petto di un uomo, quando tutto quello che gli si muove intorno non è che vano; quando un'amara solitudine è già dentro le cose a che serve avvicinarle? Fuggiranno!

E sentii di nuovo freddo. Fu un attimo: scacciai i brividi con la mente.

 Le note penetravano nel cervello, gli occhi si chiudevano e apparivano immagini cristalline, strane e cromate. Poi dai rami appesantiti cominciava a cadere a pezzi la neve, mentre qualcuno scuoteva gli alberi più giovani sulle teste incappucciate ed ignare. Si rideva. Si costruivano pupazzi enormi e si ornavano con le sciarpe strappate dal collo delle ragazze, con capelli, con sigarette accese. Su rudimentali slitte si andava a zig - zag tra i castagni e i ruzzoloni non si contavano. Ma neppure gli abiti inzuppati bastavano a debellare quella noia. Il deserto della mente era sconfinato nello spazio intorno, il vuoto occupava le distanze, si stagliava piatta una prigione che aveva per catena l'infinito inerte. A chi parlare? L'uniformità e lo squallore angosciavano, le risate erano lacrime nell'oceano.

Un freddo più gelido cominciava a sferzare i visi e il ritorno a casa si faceva più vicino, pur aggrappati all'ultima luce dal crepuscolo come ad un'ultima vita. Feci un'ultima corsa, non ricordo a rincorrere cosa. Ricordo solo che i miei piedi sfondavano le neve e mi stancai. Raggiunsi poi gli altri sulla strada sfinito. Non erano ancora le sei di sera ed ero già di nuovo fuori dopo cena. Una lunga strada buia ed un'aria polare mi accolsero: era quella la mia strada, era quello il mio paese.

La neve,  già dura sotto le suole, aveva perso il candore. Le minuscole lampadine appese a scheletrici pali neri proiettavano a fatica un giallastro cerchio di luce che si perdeva nel buio, mentre quelle ciondolanti da arrugginiti e squallidi sgorbi di ferro appiccicati agli angoli delle casa schiarivano con timidi bagliori danzanti solo i muri pietrosi.

Non c'era un'anima.

 Ghirigori di fumo si disegnavano sui tetti: unica traccia di vita.

La parola libertà che mi ronzava in testa cominciava ad assumere connotati strani.

Presi a discendere i vicoli, con prudenza, e ad ogni passo piombava nella mia mente un nome, un amico partito e mai più rivisto. Queste case vecchie e abbandonate, queste strade deserte sarebbero vive se solo ci fosse qualcuno in più. Ma i miei amici erano liberi di andare, e sono andati. Liberi!

E intanto cominciava a piovere, pian piano la neve si scioglieva e i vicoli diventavano fiumare, l'acqua rodeva la creta di antiche pietre, i lampi scioglievano in interminabili attimi speranze di luce, i piedi erano inzuppati. Riparai sotto un portone e poi sotto un arco ed osservai l'acqua passare: nera, sporca, singhiozzante. I miei capelli bagnati s'attaccavano ormai alle tempie e le gocce mi rigavano il viso.

Ma d'un tratto, come un lampo nella mente, capii la parola "libertà".

Significava rimanere dov'ero, spezzare le catene che trascinavano via.

Libertà era dire no ai canti di sirene lontane, ad ogni costo.

Partire voleva dire soggiacere al disegno terribile di chi voleva spopolare quella terra, di chi la voleva quieta come uno stagno, chiusa su sè, torbida ed immobile.

Restare significava lanciare un sasso, anche solo per guardar i cerchi nell'acqua. Ma tra il buio ed il diluvio non compresi se quei pensieri fossero temerarietà o coraggio, o semplice coscienza.

Venne poi l'estate.

 Percorrevo le stesse vie abbracciato ad un caldo rovente.

Osservavo i raggi del sole infilarsi tra le crepe dei muri a stanare lucertole, mentre rumori ovattati, come tamburi lontani, giungevano dai boschi. Sulla strada statale si sentiva il "piroliro" del pullman che riportava i "turisti" dal mare.

Essi popolavano per un pò lo spiazzo commentando e vociferando, lasciandosi talvolta sfuggire improbabili suoni nordici dalle labbra increspate.

Sudati e traballanti, ma visibilmente soddisfatti:

" sono venuto in Calabria e non vado al mare?",

si disperdevano alteri trascinando ombrelloni e inciampando nei sandali.

Qualche cane errabondo li osservava curiosamente ed essi mimavano imbarazzati goffi gesti d'indifferenza e l'animale, disincantato, esso davvero, cercava riparo al caldo camminando contro i muri. Le scarpe di gomma dei bambini s'attaccavano sull'asfalto arroventato provocando rumori molesti.

Gatti pigri sonnecchiavano sui gradini delle case, ai piedi di vecchie donne sedute all'ombra del proprio uscio con fazzoletti in testa, ed il sole picchiava.

 Passai dritto masticando pensieri.

Mi recai alla fontana di "pecoraro" e calai la testa nella vasca , mentre una turba di ragazzini in canottiera passò correndo.

Quanti ne resteranno? Mentre il tedio cuoceva la mia libertà.

 

PICCOLI TESORI CELATI

 

Gelo e buio ai margini del bosco, ci stringiamo nelle vecchie giubbe aspettando la luce del mattino. Qualcuno vorrebbe ancora restare seduto nella macchina, ma l'ansia di tuffarci nelle immensità silvane trascina anche i più sonnolenti a sopportare a denti stretti il freddo, pronti a cogliere i primi bagliori dell'alba per disperderci nei boschi senza fine della Sila, alla ricerca dei funghi.

Gli anziani, nella loro consumata esperienza ci osservano con paternalismo, mentre l'odore acre del trinciato riempie l'aria. Ed una febbre ci pervade. Indicibile è il tremore dell'attesa e ci abbraccia la nervosa impazienza di traversare quelle terre arcane e solitarie, di scavare nelle profondità delle foreste in piena, completa libertà, con cuore ed occhi spalancati. Fumiamo anche noi per ingannare il tempo e, nella penombra stuzzichiamo i vecchi.

Finalmente il giorno appare, quasi a fatica, velato: le foglie dei faggi ci posano sui capelli gocce di rugiada mentre c'immergiamo nel bosco. Adocchio presto un colle, invitante e smeraldino, stringo il paniere ed il bastone ricuperato ai bordi della strada e parto all'avventura. Fluenti e maestosi i numerosi faggi paiono stritolare i pochi e giovani pini. Ed ecco il primo porcino, umido e tozzo, poi altri ancora più minuti ma sodi.

 Procedo lentamente per l'erta ed il sole fa capolino. In cima al colle mi siedo e fumo, osservo le valli ondulate e l'orizzonte, il cielo e le lontananze: mi vien voglia di urlare.

 I pini, ora alti e robusti, svettavano contro l'azzurro e a guardarli mi viene il capogiro. Poi voci come soffocate mi giungono e mi sorprendono, mi provocano il batticuore, tendo l'orecchio e le riconosco: sono alcuni dei miei compagni dall'altra parte della vallata, che strana eco! Riparto lungo un sentiero erboso e cento e cento tipi di funghi mi fanno cornice, ma non vedo porcini, sento solo un leggero vento carezzarmi la faccia, è un sollievo con questo sole ormai maturo.

D'improvviso mi si para davanti un forte bosco di giovani faggi, alti e sottili. Ritengo che sia meglio cercare di evitarlo, ma sembra piuttosto esteso: devo entrarvi. Ora si sente il crepitìo delle foglie sotto i miei piedi, ora vedo splendidi fiori rossi spuntare qua e là, in quest'umido sottobosco. Non vedo il cielo, sembra sera, o un dolce imbrunire, il sole fende a rari tratti i fitti rami solo con i suoi raggi più audaci. Ho quasi tremori di paura ed affretto il passo. Inciampo sovente col corpo su rami secchi e cadenti, devo fare attenzione agli occhi, eppure riesco a scorgere due grossi porcini che aspettano solo me.  Lento, quasi circospetto, mi avvicino con la segreta speranza di vederne altri e frugo col bastone sotto le foglie: nulla più.

All'improvviso un fragorìo  violento mi scuote, mi giro d'istinto e una lepre come una furia quasi mi viene addosso nella sua forsennata corsa verso l'alto. Tiro un sospiro di sollievo, riprendo fiato, raccolgo i funghi e cerco uno spiraglio. A malapena riesco a districarmi, ma ce la faccio a lasciarmi alle spalle il fitto, evitando con una piroetta l'ultimo ramo che m'impedisce il cammino. Finalmente respiro. mi stropiccio gli occhi ancor velati dalle tele tessute tra ramo e ramo dai mirabili cacciatori di mosche e getto lo sguardo davanti a me. Davanti a me una valle di verde che pare dipinta all'infinito.

Resto immoto: con gli occhi percorro i confini del prato, segnati da maestosi faggi, e la luce sembra un dono che non ha confronti. Nella piega della valle una linea d'argento riflette con giochi d'acqua i colori del sole: un limpidissimo torrente baciato da luminose venature d'erba alta. Oltre il corso d'acqua, a risalire faggi solitari come titani ostentano superbi ombre compatte che macchiano il verde tenue dell'erba.

Si ode un silenzio che pare venga dal cielo, azzurro senza limiti. Ho quasi pudore a calpestare questo fresco tappeto, ma la sete m'impone di correre giù: l'acqua chiara è un invito seducente. Mi distendo a pancia in giù e i sorsi non li conto.

Poi mi sdraio col viso in fronte all'azzurro. Ora i contorni dei faggi paiono sfumati, ora gli stessi faggi paion lontani, imprendibili. Mi incammino su per il declivio senza molta fretta, senza molta fatica, ma è lo spettacolo della chioma dei faggi che m'inchioda scagliandomi addosso come un sogno lontano e fumoso:                                        ”Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi...-                                                            Parole che un giorno qualcuno fu capace di renderci odiose e che ora splendono dentro di me come la luce del giorno.

Come un richiamo a giorni perduti, questi versi aprono il cuore alle cose che non capimmo, ma che ci sono rimaste dentro pronte ad esplodere come bombe a tempo di malinconia. Ed ecco nella mente scorrere come celluloide immagini morte di anni come lampi che mi lasciano incredulo della vita e del suo fluire al pari di quel rio che non immagina neppure che ci sia il mare. Anni feroci che mi viene un brivido a solo pensarci, a tale distanza di tempo e di luogo, a tale distanza di coscienza soprattutto.

Il gioco crudele del gatto col topo era uno scherzo in confronto ai metodi inauditi di certe professoresse. Come posso scordare nella scuola media, nella prima media, di essere stato castrato nella mia disperata voglia d'imparare da una "Modesta de Lorenziis" che veniva dalla sua "nobilissima" città di Catanzaro in quella scuola di quel paesino sperduto dove l'odore delle vacche riempiva l'aula e i pantaloni rattoppati eccitavano il riso di quegli strani personaggi che dovevano chiamare "professori". Come quel tal Gaetano, di cui mi sfugge il cognome, docente, udite, udite, di applicazioni tecniche, che godeva di chi sapeva esprimersi solo con parole povere, come amava dire lui, soffermandosi libidinosamente sul  - povere -.

Come posso scordare in quel " Fondachello" la mia prima interrogazione in latino? Declinai, coniugai e tradussi senza esitazioni, esattamente come il mio compagno: lui pigliò  sette, io cinque! Puntandomi il dito contro come un'arma, e toccandosi con l'altra mano gli occhiali d'oro, Luzzi Noemi disse che non si fidava della mia faccia e poi ero di quel paesino, come si chiamava? Ah Castagna! Figurarsi, avevo risposto a caso!

 Forse non l'avevo aiutata a mettere il cappotto, nè le avevo mai aperto lo sportello della macchina come spesso facevano molti dei miei compagni, questo invece io pensai. Eppure incontrai anche chi capiva di me ogni gesto, ogni tensione del cuore, incollandomi nel cervello solo due parole: forza morale! E mi parlava di Ulisse e della sua  Itaca lontana ed io capivo che mi parlava anche della mia che come lui avrei fatalmente raggiunto.

Ed ecco come valanga piombarmi addosso altri fremiti di allora.

Si accavallavano volti e nomi, si stagliano contro il cielo i fiori mai colti, si incollano sulla fronte i dolori, ma era un mondo magico: ogni giorno nuove speranze, ogni giorno nuove parole incorniciavano i miei quaderni. Ma d'improvviso mi accorgo che non esiste più niente che mi leghi a quel tempo, che i volti e le figure di allora mi sono lontani, estranei, se li ricerco, se li rivedo, se parlo con loro sento che un filo è irrimediabilmente spezzato, che le loro parole e i loro gesti sono parole e gesti sconosciuti. Ed anche allora com'erano diversi da me! Così lontani, in fondo, dal mio mondo, dalle mie selvagge e disperate risa che celavano un pianto mai pianto, così distanti dal mio piccolo universo fatto di fughe nei quaderni e di parole  consolatrici ed amare che rotolavano da mani tremanti su fogli dispersi al vento, sconosciuti anche a lei. A lei che oggi appare come se fosse lontana mille anni, in una dimensione di cui solo si sa che esiste:- ma tu per me eri avvinta ad un gabbiano silenzioso e possente che volteggiava beffardo su oceani troppo grandi e luminosi, come avrei potuto? E mi sorridevi, ed abbeveravo sogni, perduto in un angolo, come fiori che non sarebbero mai sbocciati -.

Tutto è andato, il tempo ha asciugato le lacrime, non fremo più. Solo questa solitudine può farmi vacillare. E cammino a passi lenti lungo le rive, tra l'erba alta e l'acqua mi scaglia raggi di sole negli occhi. Piano piano i margini si restringono quasi a strapiombo, sottile si fa il ruscello: è solo un filo quando scompare sotto la coltre di foglie portando con sè in qualche abisso i miei pensieri. E sono di nuovo nel bosco. Ma è dolce. Brevi radure a intervalli regolari fanno lieto il cammino ed in più sembra il posto ideale per porcini. Infatti protuberanze arrotondate di un chiaro marrone s'intravedevano sotto le foglie e nell'erba bassa: come gemme seminante da una cieca fortuna questi funghi si offrono spregiudicati a me, vagante come uno stanco istrione su tali vibranti palcoscenici. Piccoli tesori celati, povere ricchezze sommerse, i funghi danno sollievo ai magri bilanci familiari di molta gente, e per questo che il loro tempo è atteso con impazienza. Il loro mercato è florido: camion - frigorifero attendono spesso sulle statali chi dal bosco, coperto di sudore, reca saporosi frutti per le sofisticate mense di Roma e Milano. Ora cammino più lesto, ho un accenno di fame e mi accorgo con stupore dell'ora. Mi fermo e mi guardo intorno cercando di capire da che parte andare, intorno solo verde e azzurro. Mi dirigo decisamente verso la cima di un colle. Sono stanco, sudato, evito di arrampicarmi in verticale e procedo sul fianco del colle seguendo una specie di stretta pista che sale dolcemente e sento l'odore antico degli asini rimasto sospeso tra l'aria e la terra. Non scruto più il terreno, getto solo qua e là distratti sguardi.

Il sottobosco brilla di felci, ogni tanto s'apre l'orizzonte, ma la cima non è poi tanto vicina. In lontananza appare una specie di cupola verde emergente da un canale, mi avvicino cauto come avessi paura del vento: il verde è umido muschio avvinghiato ad alcune rocce dalle cui fessure sgorga limpida acqua. Metto giù il paniere e mi siedo stuzzicando col bastone i ristagni e le pozze. Poi tornò alla realtà ed è fame. Tiro fuori la soppressata e una dura scorza di pane che bagno sotto lo zampillo, dopodiché lascio ampia libertà ai denti. Riprendo con più forza il cammino.

Ora gli alberi si diradano, rocce nere, grandi, immense mi si fanno intorno, eccomi in cima, dove ancora una roccia enorme mi sovrasta, una roccia con una strana linea a zig.zag in mezzo. Non so perché ma faccio scorrere l'indice su questo segno e mi accorgo che si tratta in realtà di due rocce sovrapposte che coincidono perfettamente. Ma chi e perchè ha sollevato questi massi? Dove sono finito? Mi guardo attorno e vedo altre pietre, più piccole, che paiono spuntare fuori dall'erba con una disposizione inquietante, circolare, mi tremano le gambe, forse  ho paura. Mi allontano un pò e giro lo sguardo alla ricerca di qualcosa che mi faccia riconoscere il cammino del ritorno. Sotto di me all'improvviso un cielo basso e intenso, un pezzo di cielo come si fosse capovolto il mondo, barcollo, riguardo le pietre col cuore che batte, riguardo giù: è il lago! Non è proprio vicino, ma è una promessa certa. Sono quasi arrivato, sento già il rombo delle macchine, la strada sarà vicina. Di colpo sento il peso del paniere colmo di funghi, mi siedo un attimo. Di fronte a me mille boschi dove le scure macchie dei pini tra il delicato verde dei faggi paiono profili di uomini che urlano, e s'alza un debole vento.

Discendo veloce, ho una sensazione di paura come se mille voci mi chiamassero. Sono a valle. Luccica un ruscello tra i giunchi. Bevo e riflesse nell'acqua vedo lotte e battaglie, odo spari e grida, parole incomprensibili e struggenti. Rialzo la testa e tutto svane nel silenzio. Mi sento stanco ma cammino a passi lesti. Sento campane trillare con violenza: sono armenti. Sento gridare: è un giovane mandriano che si fa compagnia con l'eco. Mi scorge dall'alto, mi fa un fischio e d'un balzo è accanto a me. Lo guardo, ha il viso scuro e gli occhi neri, mi parla come se ci conoscessimo da sempre, poi alza il bastone ed urla parole minacciose ad un vitello, poi sorride e mi scruta, cammina al mio fianco. Infine si fa coraggio e mi chiede una sigaretta:- stamattina ho scordato il tabacco sul tavolo - mi dice, mi saluta con una pacca sulle spalle ed è già volato via.

 

 

UN AMORE DIFFICILE

 

  

Una fitta pioggia cancellava l'orizzonte al di là dei vetri, mentre, lenta, a fatica, la mia vecchia "850" arrancava sull'asfalto bagnato ed un'angoscia da claustrofobia riempiva la mia mente. Lunga ed ossessiva era quella strada, come meandri senza fine, percorsa con ritmo monotono. Niente da secoli poteva turbare quello stanco spettacolo: una scenografia immobile e stinta.

Volli scuotermi per eludere una contaminazione gelida, di morte. Così mi creai nella testa dolci immagini di fanciulle tremanti che coi capelli bagnati e coi vestiti leggeri sotto quel diluvio mi chiedessero un passaggio, gustando col pensiero illusori visi carichi di pathos ed occhi arrossati che avrei veduto tornare al sorriso. Ma poi al sorriso, ironico, tornavo io verso me stesso e svaniva nel grigio ogni colorato sogno.

Ma l'erta era ormai alla fine: pochi minuti ed il Reventino avrebbe perso la sua asprezza. Ed infatti oltre il passo di Acquabona non solo la macchina respirò. S'aprirono varchi tra le nuvole e apparve un altro mondo: mutò l'orizzonte. Si scorgeva lo scintillìo del mare dall'alto, le brezze calde della corrente del golfo di Lamezia giungevano fino a me, il sole, sebbene basso all'occidente, carezzava l'azzurro con riverberi purpurei e il cerchio dell'iride s'abbeverava come un enorme cavallo dorato: Nicastro era a due passi.

Vi entrai per la vecchia "109", angusta per le case  a precipizio, ma ornata da officine e botteghe antiche, da motocarri screziati dalla ruggine, da macchine impolverate che parevano abbandonate lì, dimenticate da tempo.

Mi fermai in piazza d'Armi. Ormai l'ultimo sole penetrava a stento l'aria umida, ma attraverso i vetri della macchina scaldava ancora. Per questo decisi di aprire un pò il finestrino. Mentre mi piegavo sul fianco destro vidi una ragazza ferma sul marciapiede. Non riuscivo però a scorgere il suo viso, così rimisi in moto la macchina come per sistemarla meglio e mi piazzai di fronte a lei senza pudore.

 Ella aveva seguito questa mia strana operazione e quando i nostri occhi s'incontrarono sorrise lievemente ed abbassò la testa.  Continuai a guardarla: aveva capelli ricci e lunghi, chiari, una figura minuta, un viso cui i delicati occhiali davano un'espressività che mi turbò. Era bellissima. Poi scollai gli occhi dal suo viso e li rovesciai tra le pagine di un libro che tenevo in macchina da chissà quando e che la memoria mi offrì liberamente, come salvagente a quella marea.

Lessi delle parole che non capii e spinsi di nuovo lo sguardo verso lei. Mi guardava con un malcelato sorrisino. La fissai allora con insistenza ed ella ricambiava con modi che mi parevano eloquenti. Scesi dalla macchina e andai verso di lei: era già quasi buio, solo la fioca luce di un lampione la illuminava, rendendola quasi evanescente. "sei di Nicastro?" le dissi d'un fiato. Lei mi guardo un pò e mi disse di si: "anche tu?! Aggiunse." No io...". Non mi lasciò finire e continuò: -Vedo che ti piace leggere- "si, ma che c'entra?" fui preso un pò in contropiede ma incalzai: "Aspetti qualcuno?" Lei disse - sono sola - con un'ombra sul viso. Rimasi muto, come tramortito, a fissare i suoi occhi verdi che mi indagavano, era maledettamente seria, finchè disse: "Senti, vorrei dirti una cosa, dato che ti piace leggere perché non leggi questi?"

Tirò fuori dalla borsetta con un gesto quasi violento "la torre di guardia" e "svegliatevi"! Tentai con tutte le mie forze di dare ordine ai miei pensieri, tesi la mano e la guardai ancora, ella teneva ora gli occhi abbassati. Il buio aveva ormai preso possesso dalla città, mi disse: "Dio è amore" e sparì tra le strette vie mal illuminate di una Nicastro improvvisamente triste. E mentre piegavo in basso la testa come un acrobata al tappeto, giunse il mio amico che mi chiese: -"che pensi? Che è successo?-" "No, niente, un amore difficile avrebbe detto Calvino.

In questo gennaio alle sette di sera pare mezzanotte anche qui. Era trascorsa un'ora o poco più quando, salito in macchina m'accinsi a tornare a casa. Dal cruscotto si sporgevano beffarde le riviste che m'aveva dato "quella tipa", sorrisi inquieto dentro me, ripercorrendo veloce le vie ingrigite dall'umidità.

Fuori dal centro abitato, quando le luci della città sfumavano vinte dal buio e solo i fari della mia macchina spezzavano le ombre, mi accorsi di una nebbia leggera, quasi dolce, che avvolgeva come un lenzuolo gli alberi piantati ai margini della strada. Mi tornava però alla mente un visino dolce ed enigmatico: lo scaccerò! Occhi verdi che celavi, piccola bocca, addio! E continuava la lenta arrampicata della "850" per quella strada torta, ma la nebbia si fece di colpo ottusa, insistente, rallentai ancora.

Non s'incontrava nessuno.

Provai ad accendere la radio: solo un gracchiare fastidioso. Dietro una curva improvvisamente la nebbia sparì. "Eh si, pensai, la cima è vicina!". Ma riprese a piovere, più salivo e più la pioggia s'infittiva. Avevo la testa pesante, non vedevo l'ora d'arrivare e mettermi a letto, leggere e piano piano sognare, tuffarmi nell'irreale e infine godere del sonno fino a che il sole del mattino non fosse traboccato su me attraverso i sottili vetri della mia fantasia.

Poi in fondo ad un rettifilo, intravidi fioche luci ed un'evanescente figura che s'agitava sotto la pioggia. Mi fermai. Si avvicinò allo sportello un uomo di un eleganza rigorosa ed anacronistica, ben pettinato nonostante l'acqua che gli cadeva addosso: pareva un manichino. Addossata all'argine della strada, dentro la cunetta, c'era un'automobile al cui interno s'intravedevano alcune figure. L'uomo si chinò per parlarmi. Con voce sottile, servile, come se m'implorasse balbettò qualcosa. Non compresi chiaramente le parole che disse, solo il loro senso, ma quel suo fare mi fu estremamente fastidioso e, per non sentirlo più, dissi: " va bene."

Nella mia macchina, come d'incanto, salirono due giovani donne che si sistemarono sul sedile posteriore, mentre l'uomo prese posto accanto a me. Ricominciò a parlare, adesso con sicurezza: - Che tempo! Lei è gentile, nè! Siamo rimasti senza benzina... non so come è successo nè! Dovevamo andare a Soveria da certi amici, domani ce ne torniamo sù, in Altitalia, a Torino, tutti insieme, siamo una comitiva, se lei ci lascia al primo paese telefoniamo e ci verranno a prendere, nè?-                                                        "Veramente il primo paese che da qui incontreremo, praticamente è proprio Soveria” intervenni, anche se di solito io faccio un'altra strada per accorciare ma è una strada non molto frequentata, sa, noi qui, in bassitalia, abbiamo ancora strade non asfaltate... Comunque posso benissimo passare per Soveria, non ci sono problemi."                            - Se deve fare più strada per noi non si disturbi! -

Una voce che parve provenire dal mio cervello: era lei. "Ma no, per me è quasi la stessa cosa, io faccio l'altra strada per abitudine, è una questione di scelte, in fondo una strada vale l'altra" dissi senza capire bene a cosa io stesso volessi riferirmi.

Poi, dopo un silenzio senza nome, ripresi a parlare e chiesi, anch'io con voce sottile, ma con colpevole ironia e dopo la candida bugia della strada non asfaltata: "Siete torinesi?" E così l'uomo seduto alla mia destra mi parlò d'emigrazione e di fame, di dolori ed abbandoni, ma con gelida calma. Poi parlò di felicità, di eletti, di fine del mondo.

Parlava come i profeti della mia infanzia e per un attimo mi sono perso dietro i ricordi del profumo d'incenso, ma i miei occhi erano stanchi, stanchi. Parlava un italiano sgrammaticato, addirittura approssimativo, colorandolo sovente di tonalità piemonteseggianti, ma la sua fede incrollabile a me  sembrò una patetica pantomima. Munsi rancore dentro di me, come se quella fede mi rubasse qualcosa, una fede così astratta. Mi vennero in testa folle di parole, parole come giustizia, rabbia, uguaglianza, pane, ma i miei occhi erano stanchi, stanchi.

-C'è giustizia in qualche angolo di questa terra? Gli uomini possono creare giustizia? -Ancora lei, come se m'avesse letto i pensieri. Mi girai un attimo e la guardai in quei suoi occhi, sinceri, lei non li abbassò. Avrei potuto dirle mille cose per farle capire la differenza tra i miei pensieri ed i suoi, avrei voluto dirle cento altre cose..., ma di bocca m' uscì solo un "no". Ed ella capì. Forse per questo non mi guardò più attraverso lo specchietto retrovisore.

Ma era già lì Soveria Mannelli con le sue luci e gli ultimi passeggiatori dell'inverno. Scesi anch'io dalla macchina, forse per illudermi di fermare il tempo, forse per guardarla ancora negli occhi: una stretta di mano a tutti, per lei anche una lacrima che si confuse con l'ultima goccia di pioggia.

 

SALOTTI

 

Nei salotti dove ci si inchina ai più forti e si deridono i più deboli s'incontrano assessori e conti. Vecchi rimbambiti traballanti raccontano a giovani parvenus, politicanti per mestiere, le avventure della loro giovinezza e le goliardie di un tempo lontano e irripetibile affinchè il fascino del loro mondo spinga questi inesperti avventori dell'alta società verso una torre d'avorio che sia lontana ed inaccessibile ai bisogni delle genti. Bisogna dire che ci riescono molto bene.

Per entrare in questi circoli è necessario tenere bene in vista il proprio titolo, mostrare grande interesse per la cucina, avere un'apprezzabile conoscenza di armi, pronunciare qualche parola in francese del tipo "jambon", ma soprattutto ostentare disprezzo per le classi subalterne, per la gente comune.

Un assiduo frequentatore di tali ambienti così esordiva, dopo avere acceso mezzo toscano; " Sono quarant'anni che non lavoro, lavorano solo i fessi, noi non ne abbiamo bisogno. Però il modo di passare il tempo ce l'ho: conosco tutti i giochi, leciti ed illeciti, conosco i nights di mezz'Europa, l'altra mezza non mi eccita. Sono capace di salire su un treno e giocare  a carte da Roma a Copenaghen. Se trovo qualcuno che sa il "tresette" sono a posto: ventuno senza accuso in piedi nel corridoio, non mi siedo mai in seconda! -“Avvocà e le donne?” - Quando ne ho voglia scendo in strada, ne prendo una, la porto sù, la sbatto sul divano, la guardo con occhio languido, le regalo qualcosa e poi la mando via. Loro, poverette, insistono per restare, ma io dico: ecco, ti hanno visto salire da me, sei a posto, hai un nome! Non conta quello che fai, ma quello che gli altri credono che tu faccia. Caro assessore, adesso ti racconto un fatto, stammi a sentire: quando ero un giovane studente al liceo di Vibo Valentia, spesso, come tutti i giovani, mi ponevo dei "perchè", perchè studiare? A che fine? I soldi ce l'ho, mio padre e i miei fratelli pure, sono bello, non serve studiare. Poi pensandoci però mi convinsi che uno un titolo deve averlo, deve sentirsi chiamare almeno "avvocà", sennò come campa? Come cammina? Abitavo in una grande, vecchia casa signorile un pò in declino, ospite di una anziana nobildonna devota a Cristo e alla Madonna, quando il culo invecchia si fa santo! Ogni sera costei recitava il rosario, una cantilena fastidiosa che mi impediva di pensare. Aveva centinaia di santini appiccicati alle pareti, un giorno glieli gettai tutti dalla finestra, giusto per farle capire con chi aveva a che fare. Poi le chiesi allegramente se quella notte avrebbe accettato di venire con me al casino, giusto per ridere, lei non accettò, chissà perchè?

Le donne, ragazzo mio, sono strane! Quando arrivò il tempo degli esami di licenza cominciai a preoccuparmi e mi dedicai esclusivamente a trovare qualcuno che conoscesse i professori. Le mie amicizie femminili erano tutte di classe: belle donne! Pensai, in un momento d'estasi, di sguinzagliare la biondina che avevo appena concupito alla caccia di quei vecchi bacucchi di professori e di farne circuire qualcuno dalle sue grazie, ma mi venne in mente che erano tutti froci! Ih! Ih! Ih! Mi dissero che Antigone, una racchia che mi filava, conosceva il professore di chimica.

Trascorsi una notte insonne.

Raccolsi tutto il mio fascino e mi presentai dalla bruttona dicendo di essere stufo di sentirmi circondato da donne belle e vuote, dicendo che sentivo profondo il bisogno di un affetto sano e sincero. Antigone si squagliò come neve al sole.

Così mi diplomai grazie all'appassionato amore di una racchia.

Su settantasei candidati fummo promossi in sette: bel colpo!

Antigone morì di crepacuore qualche mese dopo. Mi voleva sposare la tenerella, ma io spirito libero, le dissi che preferivo morire piuttosto che passare la vita con lei.

Fu lei a morire, tanto meglio! Glielo avevo detto di curarsi: "Antigone cara, tu soffrì di una forma di morbo che ti porterà alla tomba, parti, và in Canada, lascia perdere me che sono un nomade." Fu in quella occasione che mi scoprii delle virtù divinatorie, una sorta di - tocco della medusa - che in verità non uso quasi più, solo per difendermi.

Una volta che mi ritirarono la patente - per guida pericolosa in evidente stato di ubriachezza -, come recitò il marescialluzzo, mi rivolsi telefonicamente al sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro, mio amico e noto puttaniere, ma non volle aiutarmi, in quel periodo stava rifacendosi una verginità. Qui la cosa non va, pensai. Lo rividi giorni dopo con  una gamba ingessata, ospiti del vicesindaco. Con lui c'era anche il figlio: un barbuto - e questo guerrigliero non lo dovrebbero arrestare?- non era trascorsa una settimana e fu spiccato mandato di comparizione contro il delinquente per possesso di "àscisci".

Cicciù, dissi allora al sostituto, vedi come mi vendico io? Prima la gamba, poi il bambino! Dopo due ore riebbi la patente! -

A ciò il giovane assessore sprofondando nei cuscini mostrò i denti in una sonora risata. Il battesimo del fuoco era avvenuto, l'inesperto amministratore era ormai orgogliosamente convinto d'appartenere alla "Catanzaro - bene", lontano dagli schiamazzi delle plebi, di disoccupati, forestali, precari e tutti gli altri straccioni. E il nobiluomo continuava nel suo "escursus vitae": - Poi c'era "Z", un antipatico, non rideva mai, faceva discorsi pesanti, noiosi, qualcuno diceva che fosse addirittura mezzo comunista, ma non è stato accertato. Comunque, per sicurezza, il primo di  gennaio di qualche anno fa lo guardai negli occhi e pensai -ma mo su stronzu non avera ma mora?- u dui moriu au cessu, cacandu!- ih! Ih! Ih! -

La politica è un argomento eccitante, un gioco per loro.

" Avvocà dicci di quando volevi candidarti al Senato della Repubblica. Ah! Ah! Ah! -Veramente non era stata una mia idea, era una proposta oscena di un ex capomanipolo di Decollatura riciclato alla socialdemocrazia dal nazionalsocialismo, ma era un cazzone più cazzone di Tanassi. E poi quelli come noi non hanno bisogno di andare a Roma per fare pesare la propria cultura, la propria personalità.

Durante un'udienza del “processo di Catanzaro", come sapete il sottoscritto ha presenziato all'intero dibattimento, non perchè mi interessasse la cosa: me ne strafotto, ma per un senso di prestigio, insomma per fare dire alla gente: hai visto? C'era pure “lui”, durante un'udienza mattutina, come dicevo, vi ricordo che io facevo parte del collegio di difesa di Stefano Delle Chiaie, mentre i giudici fingevano di ascoltare le parole di quel fighetto di Freda, ho sentito un freddo della Madonna lungo la schiena, io ero un pò acciaccato, allora sono intervenuto con fermezza chiedendo al presidente di far chiudere quella maledetta finestra. Quel "sofista incravattato" si volse verso di me urlando come un ossesso -stai zitto imbecille!- lo guardai dall'alto in basso con un gelido sorriso, mi faceva pena la sua ingenuità, ma non seppi trattenermi e, guardandolo fisso negli occhi, lo stroncai con questa parole: Fredicè, ccu mmia non hai ma jochi, ca ti pigliu d'i palli e ti mpingiu au lampadariu! E con questo chiudiamo la fase politica!-

“ Ma no, avvocà continua, raccontaci dell'attentato che ti fecero sulla strada della Sila. “

E va bene, giusto perchè l'assessore non ci conosce ancora bene. La vittima, come sapete, non fui io ma il conte S.

Era estate,  faceva un caldo che spaccava le pietre e fuggimmo da Copanello con quella carretta di millecento che S. guidava col muso appiccicato al volante.                                 - Andiamo in Sila, ci sono le contadine.-                                                                 Dopo circa tre ore vedemmo i primi pini. Su un rettifilo la macchina filava  a cinquanta chilometri  orari, ma dietro una curva un vitello sostava immobile sulla carreggiata, S. fu preso dallo spavento, evitò miracolosamente quel figlio di vacca, ma d'improvviso sulla strada comparvero le madri, ed una con le corna spacco il vetro della macchina:                - M'hanno sparato, m'hanno sparato! Lasciò il volante e l'auto scivolò lungo un pendio erboso schiantandosi contro un pino. Quel citrullo non dava segni di vita.

Lo lasciai cuocere nel suo brodo e m'incamminai verso un villaggio. Giunto presso una bicocca di pecorai mi feci accompagnare da un pastorello, con un'impolverata lambretta, in un albergo della zona. Regalai la giacca al poverello e lo mandai via. Allora urlai: Polizia! Polizia! Un attentato! Ci sono saltati addosso in quindici... il conte è stato rapito... ih! Ih! Ih! Troppo bello! L'argomento del "cittadino" che scorazza per la Sila, abitata da rozzi pastori vestiti di stracci, ignoranti e sperduti in fonde foreste, mette addosso una febbre da mal d'Africa a chi ha sempre portato la cravatta e si bea di vivere a                     " Catanzaro!"

Ed ecco racconti sprezzanti ed ironici di questi signori che, in omaggio ai costumi  medioevali dell'urbanesimo in cui sono rimasti impaludati, si credono depositari di "civiltà" ed altro non sono che la parodia di se stessi. Al pari dei loro leccaculi, piccoli borghesi, meschini arrampicatori sociali felici solo d'aver un biglietto gratis per lo stadio. Eccoli che ridono per le mucche sulle strade, ma eccoli a vendersi per una ricotta. Eccoli sforzarsi di ridere per esorcizzare la loro miseria e cullarsi nel nulla che li attanaglia.

Gli anghingherati della "nobilissima città di Catanzaro" non si pongono problemi nell'esistenza se non in funzione dello stomaco: disquisiscono con acume su sapori e intrugli e si saziano sognando tegami. Quando parlano spalancano le bocche come forni credendo che più si aprano più pesanti siano i concetti, mischiano senza pudore la lingua italiana a intercalari dialettali liberando un linguaggio ibrido dai toni disgustosi. Basta sentir parlare  un qualsiasi amministratore, un "onorevole", come amano chiamarsi tra di loro, per capire in che mani siamo. Quando poi il discorso interesserà i rapporti uomo-donna c'è davvero da morire dal ridere, peggio che osservare la scimmia del Pulci.      "Caro conte... cioè avvocato, recitava una femminista dell' ultim'ora, con grossi occhiali a tartaruga ed uno scialle di pizzo bianco sulle spalle, noi siamo emancipate, voi maschi non ci calpesterete più: è finita l'era egemonica del maschio! "                                          -Clotì, interruppe il nostro eroe, voi camminate finchè vogliamo noi, poi vi mettiamo a letto. Ih! Ih! Ih! Apparentemente  sconvolta per quei toni plebei, ma che comunque davano anche a lei una specie di nulla - osta ad esprimersi su quella falsariga, la nobildonna così si difese:                                                                                                 - Dai, prendimi, mettimi a letto, così vedremo che sai fare.-

 "Lo faccio quando ne ho voglia, sapete amici, quando uno nella vita ha avuto ogni tipo di donna, ha amato a dismisura, viene il momento che anche il sesso lo annoia. E poi tu, Clotì, non mi intrighi..."-                                                                                                  - Non è che non ti intrigo, come dici tu, e che sei moscio!-

E gli altri a coro, ci vorrebbe Freud, ci vorrebbe Freud. Ecco quello che sanno del grande Sigmund, che c'entra col sesso: a loro basta.

Affrontano con disincanto i problemi del nostro tempo carezzandosi le tempie gli uomini, accavallando le gambe le donne. Sono queste le classe egemoni, le classi dirigenti della nostra terra!

 

LA PARTENZA

 

La sala d'attesa è immersa nella tristezza, traspira angoscia dalle pareti umide.

Fichi d'india e mari azzurri su quei muri

Scatole di cartone, borse e valigie ammucchiate, disordine e sonnolenza.

 Un altoparlante gracchia d'improvviso.

Gli occhi assonnati corrono stancamente verso quell'orologio appeso: sonnecchia a testa in giù l'unica lancetta.

 Un militare fugge verso i binari, la porta rimane spalancata: la violenta la pioggia. Palpebre si abbassano indifferenti.

Solo una vecchia donna vestita di nero, con un fazzoletto serrato sui capelli, s'alza sbadigliando e, sorreggendosi la vita con una mano sul fianco, chiude con forza la porta, sbatte fuori la pioggia; il vento trema ringhiando.

Dall'altoparlante stavolta si proietta una voce: un treno parte.

La porta si riapre, molti escono, l'acqua spruzza i visi.

 La sala d'attesa è vuota: chi non parte vuol guardare, nonostante la pioggia.

Luci opache s'avvicinano a passi veloci si fanno fosforescenti, sordi rumori metallici: ecco il nostro.

Tanti visi infilati nei finestrini, visi assonnati, inespressivi, capelli arruffati, tante sigarette accese, tanti pensieri in quelle teste, tante famiglie dilatate, tanti sogni condannati. Risbuffa il mostro e si tende all'infinito.

Chi non è partito rientra con strana mestizia.

Lentamente la sala d'attesa si ricompone.

La pioggia insiste: è l'autunno che semina i suoi caratteri.

Giovani con borse incollate sulle spalle ostentano timidi sorrisi ad una ragazza che pare distratta, dopo un pò ella esce. I giovani ridono di gusto. Ora i manifesti alle pareti sono vecchi sberleffi d'inchiostro su visi incerati, su volti grotteschi. Il vecchio col cappello si alza e incolla il naso al vetro, poi l'asciuga col palmo della mano, si guarda intorno e lo rifà col fazzoletto. La ragazza rientra armata di un impiegativa "settimana enigmistica" e ficca il naso nella "pagina delle sfinge".

I giovani sentono la loro sconfitta ed escono con un sorriso amaro.

Silenzio.

 Il giornale mi scivola dalle mani ed un foglio schizza via, lo raccolgo con uno sforzo di schiena, nessuno se ne accorge. Più in là, sull'ultima fila di sedili una giovane donna vestita di nero e spettinata regge sulle ginocchia un bimbo dai riccioli corvini e col musino triste schiacciato sul proprio petto come a scavare vita, vicino è seduta una bambina che ogni tanto china la testa sul fianco della madre, stringe al cuore una piccola bambola nera, con la manina le cinge il collo sotto i finti capelli. Ai loro piedi una grossa scatola di cartone ed una stinta valigia. Una bambola nera! È un particolare che mi fa venire i brividi e che mi fa vedere d'improvviso quelle pareti grigie diventare solari. Mi viene da piangere, esco per approfittare della pioggia.

Davanti ai miei occhi vecchi ferrovieri sbracati paiono saltellare come buffi canguri appresso appresso ad affettati giovanotti in divisa luccicante e alteri.

Ma scivolano gli occhi sul curioso bar. L'uomo dietro la cassa sembra esser lì da sempre e per sempre, immobile non sembra nemmeno far caso ai clienti, dà meccanicamente resto e scontrino, si tocca il naso, ripone la mano e si rifugia nei pensieri. In un angolo, su una mensola di legno, si scorge un vecchio  macinino di televisore portatile lasciato alla polvere come un cimelio inutile e scordato. È invece allegro il giovane barista, forse per l'imminente chiusura. I bracci della macchina del caffè s'alzano e s'abbassano con mosse veloci, le tazzine volano sul banco, i pochi avventori consumano in fretta e spariscono. C'è un vecchio con un sacco che non ne vuol sapere di uscire.

 " Si chiude: tutti fuori!" dice ridendo il ragazzo. Niente. L'uomo anziano esce pesantemente da dietro la cassa e, con voce grave: -a dormire, nonno.- e il vecchio a malincuore si trascina fuori col sacco ma l'aria umida è sorpresa non gradita dal vecchio, che si infila con mossa furtiva nella sala d'attesa.

Un campanello trilla: arriva il mio treno.

Dalla sala defluisce molta gente e con allegro vocio s'avvicina al io binario. Il mostro sulle rotaie con cupo stridolìo stritola già i pensieri, da inizio alla lenta mecerazione. Le persone che attendono dietro  le valigie, con lo sguardo fisso a sud, mentre i fari  come coltelli fendono l buio, paiono inconsciamente rattristarsi, come se il precedente allegro fare fosse stato divorato da un verme celato in un angolo irraggiungibile della mente.

  I freni del treno si fanno sempre più stringenti, finchè inchiodano i vagoni. Poi la gente solleva come un rito le scatole e le valigie adagiandole delicatamente oltre le porte metalliche, le spinge dentro e  sale senza mostrare fretta. Nelle carrozze non c'è uno scompartimento che abbia la luce accesa: i siciliani e i reggini sono sdraiati e fanno finta di dormire. Qualcuno, con giacca e cravatta, s'infuria:

- Controllore!-  D'incanto i posti si scorgono, ce ne sono tanti... tanti posti per partire! Tutti hanno qualcosa o qualcuno lontano, a tutti balenano affetti lontani, come croci. E il treno corre a fianco del mare, se ne sente l'odore col vetro abbassato ma il colore azzurro lo immaginò soltanto, ora è tutt'uno col buio cielo e si agita strapazzato dal vento e increspa le spiagge, s'abbatte sui neri scogli, urla e si ode anche da qui, nonostante il rombo di metallo. Urla di dolore, urla di rabbia, vorrebbe con la possente mano agguantare  il treno e stritolarlo.

 

UN AMORE

 

 

La vidi per la prima volta in un'immensa aula dove parole latine risuonavano gravi:

 Selem leggeva Quintiliano. Sedeva molto distante da me. Spesso mi giravo a guardarla, perdendo il segno, ma lei non s'accorgeva nemmeno che esistevo, persa com'era nel libro. Alla fine della lezione la perdevo quasi subito di vista: spariva. Trascorsi così, ad inseguir nuvole, delle settimane.

 M'ero quasi scordato di lei, con tutte le ragazze che amavano scherzare più che latineggiare. Un giorno, davanti all'aula, mentre raccontavo frottole a due studentesse giulive, la vidi arrivare senza occhiali e sedersi poco distante da noi: ci guardò mentre ridevamo. Sentìi come un pugno nello stomaco, cambiai d'improvviso parole e toni, parlai di oratori e consecutive cercando ostinatamente d'incrociare i suoi occhi.

Entrammo poi in aula, lei mi passò vicino e ancora la guardai, ma ella parve non vedermi. La osservai prender posto mentre inforcava gli occhiali e si girava come per caso verso di me che ero ancora in piedi. Poi approfittai di qualche assenza e mi tuffai senza esitare su un posto libero non molto distante da lei. A tratti la ragazza sembrava lanciare timidi ma prolungati sguardi verso il mio vecchio posto, di lei non perdevo una mossa.

Poi gli sguardi in quella direzione si fecero meno segreti, più scoperti, finchè nel giro dei suoi occhi ella  mi vide che la fissavo. Trattenne lo sguardo su me per un eterno attimo, prima di chinare nuovamente il capo sul libro. Eppure nemmeno quel giorno mi riuscì di vederla all'uscita. Il giorno dopo arrivai mezz'ora prima alla lezione, un quarto d'ora dopo giunse lei. Contai i minuti fino a quando un bel giorno, riuscìi a salire le scale al suo fianco. Provai a dirle qualcosa, ma lei mi regalò un sorriso e allungò il passo.

 Restai un pò spiazzato e cercai di raggiungerla, ma altri studenti mi vennero incontro scherzando e  mi coinvolsero nell'appiccicare alle pareti manifesti vergati di pennarello rosso. Intravidi da lontano solo la sua testa riccioluta  varcare la soglia dell'aula. L'indemani identico appostamento, strinsi i denti e le dissi: "ciao".

In un attimo, prima che lei rispondesse, lessi con gli occhi tutti gli slogan delle pareti.

 Poi finalmente parlammo, inevitabilmente dell' "Institutio Oratoria", ma non riuscivo a trattenere una specie di sorriso: - Sei sempre così allegro?-

Disse senza immaginare quello che si agitava nel mio petto.

Da allora ci sedemmo spesso vicini nell'aula, e spesso andavamo insieme in biblioteca ad esercitarci nella traduzione. Ma lei, in quei momenti che ci vedevamo accanto, a volte le nostre teste si urtavamo, si irrigidiva, diveniva fredda, quasi ostile, certo indifferente, pareva vivere dentro il vocabolario, o forse ero io un incapace... A volte non riuscivo a seguire con la dovuta attenzione le arti sue e di Quintiliano. Lei lo capiva, con pazienza e con quei suoi occhi profondi ricominciava esortandomi con vigore, come una madre il figlio indolente. Ma mi si era quasi sgonfiata quella febbre che mi aveva assalito. Intanto fu Pasqua, non ci vedemmo per un bel pò: ero tornato a Castagna e rividi Roma venti giorni dopo:  a lezione di latino non c'era quasi più nessuno.

Mi sentivo uno stupido. Avevo voglia di vederla. Sapevo dove abitava e, spesso, facevo delle solitarie passeggiate sulla lunga via Tuscolana come un cane randagio.

Una sera di maggio, al crepuscolo, fui sorpreso dalla pioggia nei pressi del ponte della ferrovia, mi misi a correre ed entrai in un supermercato. Vagavo ondulante tra le gente, mentre le commesse mi scrutavano con occhio strano, cercai uno specchio per dar forma ai miei capelli, e riflessa ed evanescente nello specchio vidi la sua immagine. Mi voltai ma lei non c'era. Il giorno dopo mi recai, ben pettinato, in facoltà. Pochi studenti s'aggiravano fra i corridoi, ma in fondo fra le bacheche impolverate e i graffiti vivaci qualcosa mi attirò: era lei, sorridente come mai, con una minigonna bianca ed una camicia leggera, con due occhi come laghi.

Persi la parola, se mai l'avessi avuta.

Ed infatti fu lei a parlare:

-Aoh, te sei morto?- Uscimmo.

 Su piazza Esedra il sole picchiò più forte del solito. Lei scherzava e rideva, mi prendeva in giro, non l'avevo mai vista così, io parlavo, osservavo il suo viso. Poi, appena il mio cuore rallentò entrai in punta di piedi tra le pieghe delle sue parole romane. Camminavamo sfiorandoci, parlammo di tante cose, di tante altre avremmo voluto parlare,  ma era passato il mezzogiorno. Ci fermammo e ci guardammo un pò in silenzio, lei sorrideva, sembrava parlare con gli occhi, le proposi una passeggiata per domenica, ella disse si in uno slancio ma poi, abbassando le palpebre su quegli occhi, continuò seriosa: ma abbiamo tanto da studiare... - ma io non mi fermai:

"Va bene, andremo a villa borghese con libro, senza vocabolario, e così vedremo se sei davvero una latinista compiuta". Ci lasciammo con un "ciao" più rovente del sole.

 Era caldo quel giorno, gli alberi rivestiti dopo il nudo inverno emanavano profumi di germogli che riempivano le narici; era caldo quel giorno come quando adolescenti, persi sui gradini di case diroccate, col mozzicone tra i denti, guatavamo in silenzio le fanciulle dagli indumenti leggeri e svolazzanti e le forme erano manifeste, e noi, noi inseguivamo i desideri con gli occhi e nell'ombra interrogavamo margherite.

Era caldo quel giorno che Quintiliano veniva al Pincio ad ammaestrare oratori e i "Per così dire" li sentivo nel cervello e nelle scarpe. Aprivo a caso il libro, lo richiudevo, e ripetevo dentro me parole incomprensibili.

Poi passò una alito di vento ad increspare gli ippocastani, ed eccola!

Il Pincio si fece deserto, i suoi capelli castano chiari parevano danzare, mi sembrarono più lunghi e meno ricci del solito, il suo bel sorriso, mentre mi veniva incontro mi accese dentro una gioia estrema.

Ci incamminammo, controllandoci a vicenda il libro come un rito necessario, tra i viali alberati e ci sedemmo su una panchina  semipersa tra l'erba e le siepi.

 " Allora cominci tu?" Disse senza darmi il tempo di cercare una parola, una parola dolce tra quelle che mi correvano in testa. Ed io lessi con rabbia e zelo.

Ci esercitammo a tradurre con serietà, senza distogliere gli occhi dalle pagine.

 A tratti sentivo aliti caldi avvolgermi il corpo, ma lei sembrava cosi seria! Era gelida quando leggeva.

 Ci alzammo dopo quasi un'ora e ci accorgemmo d'esser sudati, e non solo per il caldo. Con lunghi sospiri capimmo d'aver capito poco di quello che avevamo letto. Scoppiammo a ridere all'unisono, una lunga risata liberatoria. Mi diedi a parlare, a raccontare storie, a ridere, e lei rideva più di me ed io la guardavo negli occhi. E lei parlava, mi interrompeva e parlava e il suo viso bianco si illuminava. Il sole all'occaso filtrava accecante tra i rami e lasciammo villa Borghese.

Ci avventurammo per le strade affollate e mi sembrava che un sogno stesse finendo. Poi incappammo in una stradina semi deserta con le macchine ammucchiate sui marciapiedi e nel farla passare ci urtammo, lei sorrise ed arrossì, io mi turbai, ci fermammo, d'improvviso sentìi il peso di quel libro che m'ero quasi scordato d'avere, lo posai sul cofano rosso di una macchina, lei osservò il mio gesto divertita e pose il suo libro sopra il mio. Che mi succedeva? Divenni serio e la guardai, poi mi sciolsi in sorriso, lei mi mise le braccia al collo e avvicinò il suo viso al mio, le carezzai i capelli e le labbra.

 Ci abbracciammo. Incollò il suo corpo al mio e mi baciò.

Camminammo poi mano nella mano mentre imbruniva, parlavamo di noi, dei nostri pensieri, del mondo. Mi parlò di quella città e la smitizzò ai miei occhi. Aveva cambiato tono, era persuasiva, consapevole, matura. Io allora non conoscevo neanche l'esistenza della parole "sociale". Mi parlò di borgate, di droga, di sottoproletari, di lotte e di giustizia. Io stentavo a capire, per me Roma era quella che vedevo,  quella illuminata da luci ed ori.

Ma piano piano le immagini di una Roma più vera svelata al di là delle vetrine rinascimentali mi apparvero vive e presenti. Imparai a guardare oltre i confini dell'apparente, in un mondo senza cielo. In quei giorni mi si aprirono gli occhi, squarciai il velo che Castagna m'aveva messo addosso. Ma ormai erano terminate le lezioni all'università e dovevo tornare al paese, anche per mettere ordine ai programmi d'esame. Prima di andare via decidemmo di ripetere insieme tutto il programma di traduzione dei classici.

E così andai a casa sua.

Studiavamo sodo quando sua madre ci avvertì di dover urgentemente partire per Frosinone col marito a causa di una improvvisa telefonata di sua sorella. Appena i suoi genitori si chiusero la porta sulle spalle lei lasciò il libro e mi fissò con malizia.

Provai qualcosa di irraccontabile. L'abbracciai d'improvviso, con violenza, ella s'irrigidì. Le chiesi scusa, fece un cenno col capo e si andò a sedere su un divano portandosi una mano  sulla fronte, io la seguì con gli occhi e tornai incoscientemente a Quintiliano. Lei si alzò ridendo e si mise a girare intorno alla mia sedia, scomparve per un pò  e tornò con due bibite gelate. Si fece seria, si sedette sulla sedia vicina appoggiando il gomito sul tavolo, incurante dei libri, che spinse via, e puntò i suoi occhi nei miei.

Mi misi a parlare, non so di che, non più di retorica. Le parlai anche di Castagna, dei miei amici: i suoi occhi brillavano alle mie parole, incredula che un mondo così potesse esistere, mi faceva domande, ella era attenta alle mie risposte, mi scrutava come se mi volesse scavare dentro. Io mi sentivo finalmente sicuro di me: quando parlavo non temevo nulla.

E lei non distoglieva i suoi occhi dai miei.

 I riccioli, che l'ultimo sole filtrante dai vetri, rendeva d'oro, le sfioravano le tempie e si cullavano sulle aste dei suoi occhiali, che si tolse continuandomi a fissare. Mi turbò profondamente quel gesto e ingoia saliva. Ma lei mi mise le dite sulle labbra e mi disse tremando: - Sta’  zitto -  Chiusi gli occhi e le carezzai una mano, lei mi prese l'altra.

 Ci alzammo muti. Le cinsi le spalle appoggiando alla sua la mia testa, lei apri la porta della sua stanza e nella penombra apparve il letto.

Si strinse forte a me, poi mi lascio e tirò le tendine.

Io mi ero seduto tra i cuscini, si avvicinò e mi spinse ridendo giù, si chinò e mi baciò sulla guancia, si trasse dietro, la guardai camminare a ritroso, poi si fermò: con un sibilo la gonna scivolò a terra. Mi sorpresi abbracciato a lei celando il viso nei suoi capelli. Poi cademmo sul letto.

La rividi il giorno degli esami, da lontano, mi salutò con gesto distratto ma non mi face male. Lei non si avvicinò, io non mi avvicinai.

Ci rincontrammo fuori dall'università non ricordo se per caso, mangiammo un gelato come due vecchi amici e mi disse prima di andare:

"Sono felice d'averti conosciuto".

Restai con un sorriso sulle labbra e con una gioia impensata nel cuore: mi sentìi infinitamente più ricco.

 

D’IMPROVVISO MILANO

 

Le luci fanno male agli occhi, hanno un profilo forzato che le rende ossessive, lesta e silenziosa la gente compare e svanisce, da ogni angolo ne fluisce di nuova e presto si dilegua, poi ancora ne sopravviene, come l’acqua del fiume.

Ma intorno, nell’aria, c’è una magia d’antico e moderno che insieme vivono e s’intrecciano, cozzano tra loro e si riabbracciano; ma è costretta nella memoria la suggestione asburgica dei libri di storia. Uno spettacolo affascinante e nuovo per chi ha lasciato solo ieri i silenzi e le sterminate solitudini silane, le armonie del vento e dei colori.

Come ubriaco tentai d’attraversare la strada inciampando goffamente sulle rotaie dei tram, ma mi mantenni in equilibrio e raggiunsi il marciapiede opposto con un sospiro.

Da quella folla s’alzarono intensi profumi di viola chimica che mi entrarono nella pelle, scuotendo la parte della mia mente perduta ad inseguir ricordi di folle di faggi e odori di abeti, di selvaggia erba dei colli della Sila.

Eppure in quello stringimento del cuore la città mi avvinse. Sarà stata la voglia segreta, una curiosità matta e dirompente d’indagare tra i passi veloci, sarà stata l’attesa di un lampo che svelasse i pensieri nascosti fra tali fragorosi silenzi, sarà stato il fascino di un avita fremente che potesse coinvolgermi senza pause, strappandomi ai ritmi di una terra che appariva più lontana dei mille chilometri.

Decisi di lasciarmi andare, senza pregiudizi, vecchi e nuovi, senza timori: così m’incamminai fasciato di sogni.

Al mattino Milano apparve immensa come un universo sotto il viscido pallore della nebbia: una dimensione sconosciuta, molle e uniforme che appiattiva i desideri, angosciante cancellava le sensazioni. Ma sotto quel lenzuolo pulsava una vitalità inesauribile.

Anch’io mi scossi. Ma le “pratiche” sulla scrivania attendevano le mie mani, i miei sguardi: ogni carta era una storia di lacrime. Tra cognomi sconosciuti e nuovi che sfilavano sotto le mie dita, ne apparivano spesso alcuni di cui era fin troppo facile capire la provenienza, intuirne i percorsi umani e le vicende che essi custodivano in ogni piega delle sillabe. Poi a sera il ritorno. Nei tram visi d’ogni tipo e colore e ad ogni viso, come in un gioco grottesco e silenzioso, mettevo addosso uno di quei cognomi.

“Facce così cupe non si vedono più neanche da noi” Mi ripetevo.

Questi uomini si muovono e agiscono solo nella mera riproposizione di un mondo perduto, nella conservazione di movenze e riti di una terra e di un tempo lontani. Essi si portano quel mondo antico  cucito addosso come una gelida condanna, come inchiodati a scenari immobili e a sogni deformati, straziati da un tempo ostinatamente fermo. In ogni loro gesto, in ogni parola, riemerge un arealtà che non ha più riscontri. Una Calabria scomparsa è qui viva. E’ vivo il mondo della loro adolescenza inquieta e povera, è vivo il mondo della loro tristezza, di quel dolore rimasto appeso al cielo delle nostalgie.

E’ gente depredata, spogliata d’identità, tenuta ancora nei disarmonici agglomerati della spaventosa periferia metropolitana, senza speranza e senza sorriso.

Appaiono a volte come fantasmi dagli angoli delle strade, all’imbrunire, con il berretto ammaccato sulla testa e una “senzafiltro” tra il pollice e l’indice, si guardano attorno ancora spauriti, inequivocabilmente bassi e neri, spremuti come limoni, in questa città da decenni, in questa città assolutamente straniera, come il primo giorno.

I loro figli così diversi e così uguali: giubbotti neri ed orecchino, capelli annegati nel gel, mozzicone all’angolo della bocca e catene al collo per somigliare ai figli veri della città.

A frotte nei sabati scendono dai casermoni, assaltano le metropolitane e si catapultano nella città negata, nella città deserta con una violenza ingenua che fa compassione.

Eppure sono proprio questi figli, qui nati e qui cresciuti, l’unica dimensione della mente dove declina il loro dolore: essi non dovranno coniugare addìi per sopravvivere, non sapranno mai che cosa vuol dire nostalgia.

In realtà la loro è una “nostalgia” più amara: le loro radici non sono piantate in nessun luogo.  

 

Un vuoto immenso.

 

 

L’estate legnanese opprimeva come una coperta calda gettata sulla testa.

Pochi percorrevano le strade, solo vecchie donne con la borsa della spesa interrompevano lente la solitudine dei marciapiedi.

Davanti al “Bennet”, vicino ai ferri scheletrici, vuoti di bici, stava seduto accanto ad uno zaino un nero.

Mi fermò con decisione, quasi con violenza, io avevo fretta, ma qualcosa di terribilmente strano mi bloccò: parlava in napoletano come lo parlano ad Afragola o a Casoria.

Mi chiese di comprare qualcosa. In realtà non ascoltavo quello che diceva, lo guardavo stando muto: non era un africano, era nero e parlava come parlava!

Il ragazzo si accorse della mia strana faccia e pronunciò parole incomprensibili gettando la testa sullo zaino come un vitello ammazzato di botte. Ma io non me ne andai: fermo davanti a lui ero un palo! Poi tirò fuori delle penne:

“ Vo’ ‘ccattà? “                                                                                                            - Quanto costano? - Chiesi.  Mi scrutò e capì la mia fragilità.

“ Cinquemila” Disse mordendosi la lingua.  - Va bene. - Dieci penne in un astuccio a ventaglio: blu, nere, rosse. Tra le mie dita si composero allora parole invisibili che gli occhi della mente non illuminarono, come fossero secche, senz’anima, e caddero a terra morte.

Quante parole mi caddero senza vederle né sentirle!

Mi frugai nelle tasche, ma più in fretta di me egli disse:

“ Te le regalo!” Mi schiacciò il silenzio che seguì le sue parole. Poi, riacciuffata la mia cosiddetta razionalità, gli chiesi:                                                                               ”Ma tu di dove sei? - Pensando ad una lontana Africa stridente di catene, un’Africa gemellata con Napoli per un disperato gioco sospeso.

Ed egli disse: “ Caserta...Avevo pochi anni quando scappai dal Montenegro con mio fratello più grande: egli è morto di colera a Napoli anni fa. Sono sposato ed ho due figli. Sono venuto a Milano perché mio suocero non mi ama, porterò qui mia moglie e i miei bambini! Ma ancora non hanno vestiti. Tu hai figli? Mi dai vestiti per miei piccoli bambini? Pensai ad una vecchia valigia sull’armadio e me ne andai in silenzio.

Ai miei piedi un mucchietto di abitini: li raccolsi in due sacchetti di plastica e volai.

Nell’angolo oramai aggredito dal sole c’era solo un vuoto immenso.

Alla stazione apparve sconfinato lo squallore dei binari bruciati: una vecchia zingara con due bimbi in braccio ed una ragazza dal viso sfatto vicino a lei:

“ Hai troppo tardato, mio figlio è morto.”

Prese le buste e se ne andarono lungo i binari bruciati.

 

MEMORIE

 

la verità

il rimorso

il mare

 

 

LA VERITA’

 

 

Morivano sulle coperte sgualcite gli estremi raggi di un sole ormai stanco che, a fatica, filtravano attraverso la finestra inclinata come spade lucenti di polvere. S’interrompeva su quel giaciglio la corsa estenuante di una luce che dal cielo giungeva fino agli uomini.

Aggrapparsi a quegli ultimi bagliori voleva dire assaporare il profumo di Dio, irrorare lo spirito di una pioggia d’amore, ma bisognava volgere la mente alle preci del vespro.

Il frate, dopo un ultimo sguardo a quelle corde di luce, si diresse verso la cappella.

I canti risuonavano per le arcate, un’eco struggente si spandeva per le campagne e i contadini d’intorno tendevano l’orecchio addolciti.

Anche il Corace, dentro gli angusti argini, sembrava cullato dalle armonie sonore: il cuore era preso in un’aura mistica e stupefatta.

Ma nella solitudine della cella, ora che sono i raggi fiochi della luna che lenti fluiscono, il frate ha in mente solo il pensiero dell’abate e la sua immagine. Le parole udite da Gioacchino in un giorno lontano gli tornavano nella memoria come un ostinato sogno:

“La Verità, bisogna cercare la Verità, al di là dei corpi, al di là delle ricchezze: non ci saranno armi né sangue, solo lo Spirito sarà su noi, in ogni uomo riconosceremo il Cristo nel tempo dello Spirito Santo! “

Ma l’abate si concedeva poco ai suoi frati, tra le mura annerite dettava parole arcane, parole a fiumi che servivano tre amanuensi per tenergli dietro.

Frate Cenzino era uno dei più giovani monaci di Corazzo, aveva preso il saio perché un giorno, quando era ragazzo, aveva incontrato lungo un sentiero ai piedi della Sila Greca “L’uomo di Celico”. Di costui si diceva che tornasse da un mondo lontano chiamato India, dove, nella solitudine di inaccessibili montagne, avesse trovato la Verità.

Non potendo Cenzino andare in India, dato che non conosceva la strada, decise di seguire quell’uomo dagli occhi profondi con il desiderio segreto di capire la Verità.

E lo seguì a Luzzi nella Sambucina, lo seguì fino a Corazzo, in quella valle d’erba celata tra i boschi, incastonata tra colline di smeraldo, dove la solitudine del silenzio era estasi.

Ma da quando era lì, quasi dieci anni ormai, l’aveva incontrato solo pochissime volte, lo vedeva spesso in preghiera, ma di spalle. Stava sempre chiuso dentro con i suoi amanuensi: chissà che parole! La folgorazione di quel giorno lontano era però ancora viva, e che voglia di tornare a guardare quegli occhi!

Gioacchino che talvolta partiva per lungo tempo: Casamari, Verona, Palermo.

Gioacchino che voleva partire per le crociate, ma con i fiori!

Gioacchino che una volta lasciò sotto un torrente di pioggia, fuori, mura, un papa: egli era in preghiera quando il frate portinaio gli annunciò la visita con irruenta eccitazione, Gioacchino non si scompose:                                                                                          - Prima Cristo, poi il suo vicario...- E continuò a pregare!                                                Quanti pensieri e dubbi nella testa di Cenzino, ma il sonno alla fine l’ebbe vinta.

Dopo le laudi e il mattutino, all’alba, il frate con la bisaccia sulle spalle s’incamminò seguendo il corso del fiume. La leggera nebbia del mattino che s’alzava a quell’ora dalla valle non era del tutto diradata. Mentre calpestava l’erba ancor bagnata di rugiada ripensava all’abate chiuso per giorni e notti e ai suoi fratelli che a volte ridevano di Lui e della sua fede.

I contadini e i pastori, anch’essi mattinieri, lo salutavano da lontano. Cenzino era lieto di camminare allo sbocciare del mattino in mezzo alle meraviglie del creato: di questo ringraziava nostro Signore. La natura cominciava a colorarsi, le acque chiare del fiume mormoravano armonia, i merli e gli usignoli cantavano dalle fronde.

Si! Era un mondo d’amore dove Dio aveva posato la sua mano. E allora perché tutti questi uomini che traggono dalla terra tante cose buone passano l’esistenza nell’assoluta povertà? E poi perché, Signore, turbe di cavalieri armati d’affilate lame grondanti sangue portano per vessillo la tua croce? Forse che Tu hai detto d’uccidere?

Questo e altro come questo pensava Cenzino. Camminava contro sole, un sole non ancora alto e la luce gli fioccava diritta negli occhi, era costretto a portarsi la mano sulla fronte per poter vedere il cammino, o si faceva scudo con gli alberi procedendo sopra le loro ombre.

Giunse su di un prato, mentre la rugiada s’era oramai volatilizzata, ma ancora brillante ai raggi del sole, e sentì felpati passi dietro le felci: le pecore e i maiali avanzavano timidamente ed un ragazzo le controllava in retroguardia. Si scambiarono delle parole e dei gesti, ma nessuno si fermò. Avevano entrambi padroni esigenti, non era prudente perder tempo.

La giornata di Cenzino volgeva al termine quando, sulla strada del ritorno, giunse nei pressi di un castello. Qui volle fermarsi per l’ultima questua prima di dirigersi definitivamente verso l’abbazia.

Nella grande corte vide un ragazzino dai grandi occhi scuri e dai capelli corvini, impastato di terra e di sudore, correre esausto dietro una capretta mentre un grasso uomo rideva, stracciando con i denti voraci un pezzo di carne arrostita, ungendosi il muso da suino con l’osso prima di gettarlo via, scatenando una lotta furiosa di cani che una catena teneva crudelmente a freno.

Il frate si strinse a sé, ma qualche cortigiano lo vide e lo indicò all’uomo come per dire:

“ Adesso ci divertiremo...”.                                                                                            - Monachello - Esordì pulendosi la bocca con il braccio l’uomo grasso - vuoi quella capretta? Se l’acchiappi è tua....Le corna di Gioacchino....Ah! Ah! Ah! Ah! Ma dovrai fare i conti con quest’altra bestia...Ah! Ah! - Indicando con la gamba alzata il ragazzo.

Cenzino sentì come se qualcuno gli soffiasse nelle vene:

“ Libera i cani dalle catene “ Disse ignorando il resto.                                                      - Attento frate, farò ringhiare anche te - Disse l’omone ringhiando!                              Il monaco si rifece piccolo e impaurito fuggì scomparendo lungo un viottolo. Solamente quando credette di essere abbastanza lontano si fermò per riaversi.                                   “ Come sarebbe bello il creato se non ci fossero gli uomini, essi hanno tutto ma vogliono di più e i forti uccidono i deboli!”

Mentre al frate si ammucchiavano in testa troppi e pesanti perché, delle voci allegre e delle risate lo distrassero. Sulle rive del Corace, in mezzo ad un prato che dall'alto sembrava un letto d’erba, alcune donne parevano giocare, vesti stracciate, con alcuni monaci per niente ingombrati dal saio. Si rincorrevano, s’acchiappavano e si rotolavano    a terra. - Cenzino vieni, ce n’è anche per te!- Disse una di loro con lunghi capelli neri e un viso splendente. Il frate rimase per un istante abbagliato dalla prorompente bellezza della donna  e gli parve di scivolare, ma scappò via e, nella corsa, la bisaccia cadde rotolando nella profonda scarpata.

“ Oh padre Dio, come farò? “                                                                                       La testa nelle mani e i gomiti sulle ginocchia e le lacrime! Silenzio. Ancora silenzio e il sole, rossa palla che non scalda più, cadeva dietro le colline. Le campane rintoccavano solenni, parevano l’inesorabile giudizio di Dio!

Un singhiozzo nacque e fuggì attraverso le sue labbra.

Poi ecco una lunga ombra nera sulla via bianca di terra precedere un sogno, o una visione?  - Che mediti fratello?-

Grave voce e un volto scolpito nel cielo, duro e dolce come Gioacchino...Gioacchino?  “ Oh Signore sui sentieri della solitudine c’è sempre almeno un’ombra di Te”!

“ Ho perduto la bisaccia. “

Queste parole furono un filo di voce.                                                                              - Che cosa essa conteneva? Forse la tua fede? O forse che la nostra stessa vita ci appartiene? -                 

Gli occhi di Cenzino brillarono. - Vieni fratello - Continuò l’abate - Partiremo, ce ne andremo, lasceremo Corazzo e i suoi peccati, cercheremo un luogo dove seminare i fiori dello Spirito.

La Verità. Questa parola, nel silenzio della processione notturna, nella luce ardente delle fiaccole, penetrava l’aria. Quell’immagine così viva, quegli occhi, quel volto!

La Verità era in quel cammino, in quell’agonia dell’andare, attraverso duri sentieri, aspre foreste, che conduceva al Jure Vetere, al fiore antico e profumato dell’amore.

  

IL RIMORSO

 

 

Peppino quella mattina sentiva particolarmente crudeli i morsi della fame, quella densa nebbia che s’alzava vischiosa da terra lo angosciava.

Le sue giornate passavano rincorrendo il gregge per le chine del monte, il cane, che a stento pareva reggersi sulle quattro zampe, gli dava ben poco aiuto.

Alla sera la quotidiana razione di pane e formaggio, ben misero salario, non bastava a colmare il vuoto che sentiva in pancia.

Spingendo, ancora mezzo assonnato, le pecore per la solita strada bianca che portava agli alti pascoli, Peppino riviveva momento per momento le angustie della propria vita bramando un bel tozzo di pane duro da rosicchiare con avidità.

Certo non aver conosciuto suo padre mai ed esser così povera sua madre da non poterlo nemmeno crescere quand’era bambino era un freddo più freddo di quel mattino gelato.

Ma sua zia s’era preso amorevolmente cura di lui e lo allevava con profondo affetto.

Maledetto destino!

Tu volevi restare con tua zia e tua madre nella sua infinita povertà pretendeva esser pagata per cedere quel suo frutto maturato troppo in fretta, quel gomitolino “Pelleossa”.

Maledetto destino!

Anche tua zia era dannatamente povera e non aveva nulla da offrire se non amore.

Fu così che all’età di sette anni, l’età cara ai poeti “Maudits”, fuggisti in cerca di sopravvivenza.

Era il tempo che in Africa costruivamo l’impero.

Quanti padroni hai servito e quante greggi hai guidato su aspri sentieri, tra castagni, su dirupi ed umide valli?  Quante bastonate e risate acide ti son cadute sulle spalle? Quante notti “Freddoefame”? Queste domande, a cui non poteva dare risposta, né d’altronde era importante farlo, si rincorrevano nella sua mente come per scacciare l’insaziabile desiderio di mettere qualcosa sotto i denti, come se un dolore potesse lenire un dolore.

Non poteva sapere, non lo sapeva, che la terra che calpestava in quell’ora traboccava storia. Non sapeva che il monte di Tiriolo, che stava faticosamente scalando, aveva veduto secoli di civiltà, che cinquecentosessantasette anni prima della guerra di Troia un tal Enotrio era venuto da una terra chiamata Peloponneso a fondare la città dalla quale quel monte prendeva nome, come testimoniano alcune medaglie rinvenute nel Febbraio 1777 in quel luogo recanti la scritta in greco “ Licaon figlio di Enotrio” ,

sebbene il grande Plutarco affermi nella sua “Vita di Nicea” che Tiriolo fosse stata fondata da Hyerone di Siracusa.

Non lo sapeva e non gliene importava nulla.

Le pecore lentamente si sparsero su una radura e brucarono i primi fili d’erba, teneri di rugiada, mentre Peppino si protese al primo sole, ai margini del bosco.

Qualcosa però lo spinse, qualcosa di imponderabile lo spinse nel fitto del fogliame.

Camminava a testa bassa scrutando il terreno come se fosse alla ricerca di qualcosa. Ogni tanto alzava lo sguardo e i raggi del sole che filtrava tra i rami parevano delicati fili d’oro, ma lo stomaco urlava troppo la sua rabbia per poter assaporare quella dolce e fresca aria mattutina. E d’improvviso vide qualcosa che pendeva dal ramo più basso di un castagno.

Si avvicinò con curiosità e cautela, quando fu tanto vicino da poter toccare con mano un tovagliolo di tela di ginestra annodato strettissimo, pieno di chissà quali tesori, gli si proponeva davnti agli occhi, alla bocca soprattutto. Restò immobile per un lungo attimo, come vinto da un segno divino, ma si gettò a terra d’istinto appena udì il suono confuso di voci lontane. Alcuni boscaioli, poco più giù, s’apprestavano  a levigare le asce.

Quando il secco rumore dei primi colpi riempì l’aria, Peppino non stette molto a pensare, il suo stomaco lo faceva già abbastanza bene, trasse a sé tutto il fagotto dicendosi:            “ solo un pezzetto basterà a dare sollievo al vuoto che ho dentro.” Ma quando ebbe tra le mani quel ben di Dio le sue mandibole non si fermarono più.

Con prudenza ma in fretta s’allontanò approfittando del fitto fogliame che lo celava all’eventuale vista dei boscaioli. Ansimando giunse al suo gregge e si sdraiò sull’erba ormai asciutta. Diede un rapido sguardo intorno per controllare che le pecore ci fossero e vide il cane steso a terra con la bocca spalancata. Portò istintivamente le mani in tasca, ma lì restarono paralizzate. Il cane si alzò sbadigliando e si allontanò. Il resto della giornata trascorse quasi in un lampo: venne presto l’imbrunire.

Peppino si incamminò giù verso il paese ripercorrendo la lunga strada bianca con insolita vitalità. Ma dove il bosco cominciò ad arretrare cedendo il passo ai cespugli e ai roveti, vide parvenze umane stagliarsi contro l’ultimo sole. Dopo un po’ due uomini sbucarono davanti a lui, sudati e stanchi, sembravano sorreggersi a vicenda. Li guardò e sentì una tenaglia stringergli il cuore. Chiuse gli occhi e li riaprì. Ma essi erano ancora là, ancora più vicini, sempre più neri e magri.

Poi una voce gutturale, stentata:

“ Oh cumpare mio....pane....”                                                                                       E Peppino ingoiò saliva più di quanta gliene aveva asciugato il sole di quel giorno. Con una smorfia di bocca rispose ai due e s’infilò nel mezzo del gregge.

Quella sera non riuscì a mangiare la sua razione di pane e formaggio, la ripose in tasca e cercò rifugio ai suoi pensieri nel letto di paglia, ma non ebbe il conforto del sonno.

Il giorno dopo, giunto sulla solita radura, lasciò le pecore e si precipitò nel bosco, ma non v’era nessuno, solo silenzio, un silenzio come un macigno. Il sole ardeva più che mai e le fronde dei castagni parvero ingiallite. Una desolazione amara pervadeva quel tratto di mondo, ma Peppino sentiva solo freddo, freddo nell’anima. Fece ritorno al gregge.

Alla sera vagò per il paese come un pellegrino. Nessuno gli seppe dire nulla dei due boscaioli.

Fu in quei giorni che lasciò Tiriolo per compiere il servizio militare a Roma, dove poi rimase a lavorare per un salario più decoroso di un pezzo di pane e un po’ di formaggio e dove si sposò.

Un giorno, molti anni dopo, volle far ritorno a Carlopoli, suo paese d’origine, forse per cercare le sue radici, ora che nessuno più si ricordava di lui e della sua infanzia disperata.

Ma alla vista di un vecchio, basso e curvo, che menava un gregge su una strada d’asfalto, gli vennero le lacrime agli occhi, lo seguì con lo sguardo e il vecchio per un attimo si girò: i loro sguardi s’incontrarono nel silenzio.

Quell’uomo aveva il suo volto bambino, pareva che una tristezza antica gli fosse stata dipinta addosso. Peppino ripensò ai boscaioli ma non volle tornare a Tiriolo. Ripartì in fetta per Roma da sua moglie, alla quale ha tutto raccontato e dalla quale s’è fatto promettere che non avrebbero mai voluto figli.  

 

 

IL MARE

 

 

Aveva quindici anni e non aveva ancora visto il mare.

E si che la Calabria possiede centinaia di chilometri di coste, ma erano lontane e Marino, che strano nome che si portava addosso, inseguiva le vele solo sulle pagine ormai scolorite del suo libro di quinta. Era questo l’ultimo che aveva avuto ed era anche l’unico che era riuscito a portare in salvo, gli altri, offesi e stracciati da sua madre e dalle sue sorelle, erano stati solamente fogli volanti sulle aie. C’era un’immagine curiosa proprio sulla copertina: un uomo diritto su una strana tavola bianca che pareva scivolare allegramente su quel prato azzurro. Marino la guardava di nascosto, nei brevi segmenti di tempo ritagliati dalla infinita linea della sua quotidiana corsa dietro le capre.

Pensò un giorno di strappare la pagina e portarla con sé sugli altipiani, dove il mare era verde e irregolare, ma prima o poi anch’essa sarebbe volata, strappata dalle gracili mani dalla furia del vento di montagna. Così la lasciò nascosta ancora un mezzo alle travi.

Il suo corpo, agile e magro, che l’abitudine ai percorsi montani aveva precocemente incurvato, ondeggiava sui fianchi dei colli, la sua voce rauca rotolava fino a valle come le fragili pietre che si frantumavano ruzzolando nella caduta, i suoi occhi chiari erano grandi e trasparenti: bastava guardarlo per capire cosa pensasse, i capelli avevano il colore del grano maturo. Gli piaceva, nelle lunghe giornate noiose, intagliare con ricami il bastone che usava per appoggiarsi quando s’arrampicava sui colli o per stuzzicare i cani sbadati. Ogni tanto penetrava sotto le fluenti chiome dei faggi solitari sino al possente fusto e con agilità disinvolta s’inerpicava sulla cima per controllare l’ampio raggio d’azione del suo gregge.

Ma il suo pensiero era fisso al mare.

A volte, nelle giornate più terse, dagli alberi più alti aveva l’impressione di scorgere qualcosa all’orizzonte come un’immensa pianura dove il cielo pareva fondersi con una strana nebbia. Ma era già Ottobre e l’aria si faceva ogni giorno più fresca, il cielo era ancora azzurro, ma i tramonti diventavano sempre più sanguigni e il vento serale gelido.

Una sera, tornato a casa al calar del sole, mentre l’aria diveniva bruna e le fronde degli alberi piangevano, vide giungere due uomini  a cavallo di muli, altissimi come giganti di pietra. Guardò i loro volti: neri. Si diressero verso suo padre senza degnarlo di uno sguardo. Marino osservò con attenzione il loro colloquio cercando di ascoltare ciò che dicevano. Tra il fitto e incomprensibile brusio : una sola parola, un aparola che gli frustò il cuore: marina!

Come la personificazione di un’anima gemella!

Impulsi sconosciuti gli solcarono il petto come in un primo amore. Pensieri nuovi s’affacciarono nella mente, sembrò prender corpo nei suoi occhi l’evanescenza.

Corse via e aspettò che i due uomini fossero partiti. Poi fissò lo sguardo su suo padre seguendone ogni mossa, con un sorrisetto felino stampato sulle labbra. Il vecchio padre

si sentì ossessionato da quella attenzione insolita e tutto gli sembrò un gioco e pareva compiacersi a sparire, a tratti, dietro il casolare suscitando la nervosa eccitazione di suo figlio. Poi compariva con noncuranza e, senza darlo a vedere, notava la soddisfazione di Marino, ma non capiva ancora i perché.

Solo quando, tutti a tavola, disse alla moglie che gli era stato chiesto un aiuto per condurre alcune grosse mandrie di bovini a valle, verso il mare, gli parve d’intuire qualcosa. Ma egli non era molto entusiasta, si sentiva stanco: camminare per un’intera giornata, seguire per lunghi tratti le strade statali sarebbe stato troppo faticoso. E gli si leggeva in faccia. Ma Marino capì che quella era un’occasione da non perdere e si propose di andare lui al posto del padre con un’irruenza e una gioia liberatorie.

Come un fluido misterioso che aleggiasse nell’aria, la giovinezza di Marino  si trasmise al vecchio padre che parve non essere più stanco:

“ E va bene, domani diremo di si! “

A quelle parole Marino saltò dalla sedia.

Quella notte il sonno raggiunse subito il ragazzo e nel sonno comparvero strade senza fine. Ma anche il mattino sembrò in anticipo. Era l’alba e Marino aveva gli occhi spalancati, controllava ogni attimo l’altezza del sole all’orizzonte. Fu giorno pieno e fu di nuovo sera, l’indemani di sarebbe partiti.

Marino aveva preparato un nuovo bastone, lucido, di faggio antico, l’aveva decorato con ricami intrecciati e l’aveva addirittura portato con sé a letto.

Era ancor buio quando suo padre lo svegliò: fu pronto in un minuto, s’era coricato vestito. Davanti alla porta di casa una vecchia e sgangherata “Ape” li attendeva per portarli verso gli stazzi. Marino saltò sul cassone coprendosi con un telo e stringendo al petto il suo bastone.

Iniziò finalmente il grande viaggio.

Davanti a sé la lunga strada del sogno si popolò d’improvviso di bovini e risuonò dei loro passi come un tamburo. Gli uomini che stavano dietro dovevano quasi correre per reggere l’andatura degli animali. Marino, mordendo con voracità un pezzo di pane, si girava spesso per controllare che non fosse l’ultimo della processione e con brevi e lesti saltelli si metteva al passo degli uomini, a volte li sorpassava fiancheggiando la mandria.

I problemi cominciarono quando la strada si perse in una vasta pianura senza alberi, ma per fortuna diventò giorno.

I vitelli, quasi in un’ansia di libertà. Si diedero a vagare in tutte le direzioni e Marino a rincorrerli e rimetterli nelle scie delle madri. Che fatica poi procedere lungo la statale con le macchine, guidate da nevrotici fumatori, che strombettavano sconsideratamente intimorendo le bestie e spingendole sovente fuori dalla carreggiata. Che fatica!

Ma il mare lo ripagherà di tutto!

Era da poco passato il mezzogiorno quando, dalla sommità di un ultimo colle, qualcuno disse di aver visto l’azzurro violento.

Marino corse davanti a tutti e sentì un’ondata calda di vapore salirgli in viso, ma non scorse nulla, forse per la stanchezza, forse per gli occhi che gli bruciavano, ma si lanciò lo stesso a correre per il pendio.

“ Marino, siamo ancora lontani!” Urlò il padre. Ma Marino non sentiva, continuava a correre e nella strampalata corsa inciampò e rovinò a terra. Fu raccolto di peso e adagiato sulla groppa di un mulo da un mandriano. Una caviglia gli faceva male, il padre lo consolava. Poi, dopo qualche ora, finalmente la meta.

Gli uomini si ristorarono, Marino si carezzò la caviglia: era un po’ gonfia ma non faceva male. Quell’aria tiepida e avvolgente pareva un balsamo, riusciva a poggiare il piede. Lasciò gli uomini alle loro bevande e camminò.

Lungo un viottolo invaso da grandi cespugli verdi e dai rami nodosi di alberi strani, incorniciato dai profili prepotenti di foglie mai viste, s’incamminò in silenzio claudicante verso il mare.

Il mare: una striscia azzurra tra il chiarore delicato del cielo e il giallo cupo della sabbia, una striscia azzurra lontana, fumosa.

Marino sentì l’impulso di tornare indietro, di piangere. Era come svuotato, diceva addio a testa bassa ad un sogno per lungo tempo covato, ad un sogno ricamato fin nei contorni e che si materializzava adesso in un silenzioso inganno. Strinse al petto la verga di faggio come unico tesoro. Ma all’improvviso come una voce impetuosa il vento gli passò accanto con un profumo intenso di sale, sulle sue guance si posarono mille granelli di sabbia e le labbra si socchiusero su umidi soffi.

Quella striscia azzurra sembrò rotolare su se stessa e immani cavalli bianchi la solcarono. Tremò il ragazzo al boato, ma riprese nelle mani il sogno. I piedi parvero scollarsi da terra e notò strani e minuscoli mucchietti di sabbia sparsi davanti a lui, ristette un attimo, ma si fece coraggio e proseguì. Quando i suoi piedi dondolarono sull’orlo delle dune il mare non era più una striscia, i suoi confini si perdevano, all’orizzonte nessuna linea sembrava separarlo dal cielo, era come se il mondo lì si chinasse. Poi quando si rovesciò sulla spiaggia lambendo i suoi piedi, Marino si ritrasse d’istinto e alzò minaccioso il bastone, rise di sé, si tolse le scarpe e attese l’acqua.

Quanto tempo era passato? Il mare sembrava parlargli con voce lontana, mentre già imbruniva e il vento si calmò di colpo. Era un addio!

Come ciò che si porta sempre dentro e mai si può avere, Marino portò via il mare negli occhi, e mentre si allontanava curvo sotto la luna, senza voltarsi scagliò con un gesto violento del braccio il suo bastone all’indietro: sentì un tonfo come un rumore di labbra che si chiudevano.  

 

 

CAMMINATORI SENZA NOME

 

 

L’odore dei pini

Gli istrioni delle foreste

Formiconi

Profumi del tempo

Gazzella dei boschi

Il poeta

 

L'odore dei pini

 

 

Cordoni di luce s'arrotolano e si protendono fra i meandri di quella strada dissestata che sale verso la Sila. Vecchi pulmini, motocarri, aspri rumori di marmitte squassano il silenzio ancestrale dell'ultima notte. Il popolo dimenticato che aspetta l' Autunno per vivere, si è svegliato, gli uomini muti tracciano il prologo e l'epilogo della loro commedia di una vita. Spesso i primi fari di questa processione dileguano all'improvviso dietro una curva: ci si butta fuori strada spegnendo tutto per non farsi seguire, per non rivelare il proprio itinerario: "il posto" è sacro!

E noi nel cuore di questo traffico ci risentiamo vivi, aspettando d'arrivare a questo fantomatico "posto". Finalmente lasciamo la statale e ci inerpichiamo in mezzo ai pini lungo una sterrata. Malgrado stenti il mattino, ci guardiamo intorno abbagliati dalla maestà di quegli alberi. Qualche macchina è già ferma agli argini, qualche figura già s'intravede sgusciare tra i fusti. Procediamo a passo d'uomo praticamente senza meta, senza sapere deciderci dove posteggiare. Poi finalmente accostiamo il mezzo nei pressi di una radura sol perché il territorio ci appare pianeggiante. Non facciamo quasi in tempo a scendere dalla macchina e ci accorgiamo che non potevamo scegliere posto migliore: un incontro decisivo per la nostra carriera di fungai: scorgiamo nientedimeno che il "Lupo" sgattaiolare tra le felci.

 Il vecchio marpione annusa l'aria per assicurarsi d'esser solo, appena ci scorge corre via. Ma a noi basta averlo visto. Strane leggende corrono sul suo conto, la sua esplicita, epidermica allergia alle presenze umane, sembra avere misteriose origini, generate nel fondo delle foreste. Quando il giorno è ormai maturo ed il bosco vicino pullula di dilettanti sudati che arrancano con due porcini e qualche "galletta" nel paniere, egli appare dalle visceri della selva con due bustoni di "silli" tra gli sguardi increduli e invidiosi di chi, avendo scorto la sua "rustica" in bella evidenza sulla strada, s'era convinto d'aver trovato il "posto" ignorando, appunto da dilettanti, che il fungo è cammino, fatica, passi lunghi ed occhio fino.

Il lupo saluta a passi pieni gettando commiserevoli e sprezzanti sguardi ai cercatori di primo pelo che gironzolano ai bordi della strada, apostrofandoli con ingiuriosi ed umilianti epiteti :- Ehi tu, ganga cupa, che fai qui?

Poi col ghigno robusto s'allontana in macchina ruttando. Mentre facciamo queste considerazioni, poco più avanti, vediamo la macchina di Zumpano, astuto fungaio, quasi incastrata in una gola. Ci arrampichiamo con decisione convinti d'aver trovato una buona pista. Ai primi bagliori dell'alba, stanchi ed affannati, siamo quasi in cima, e d'improvviso appare tra le felci umide con un secchio colmo di porcini il nostro uomo come una furia, fingendo di non vederci si lancia verso il fondovalle senza alzar gli occhi da terra. Nella sgraziata andatura, che osserviamo come si osservano al circo gli animali, è costretto, pur di non rivelarci il "posto", ad una esplorazione superficiale del terreno che consente anche a noi di rimediare qualcosa.

 Riprendiamo il cammino con qualche fungo nel paniere, ma ci accorgiamo subito che stiamo andando a vuoto. D'altronde sapevamo i rischi. Non ci perdiamo d'animo. Il sole è già alto quando ci ritroviamo sulla strada. I pini sono immensi. Il loro profumo ci ridà la forza. Ripartiamo. La direzione è quella che ci riporterà da dove siamo venuti.

Arriviamo intorno  al mezzogiorno davanti alla nostra macchina. Ci infiliamo e prendiamo la via di casa delusi. Dopo qualche km percorso tra ali di svettanti pini, ai margini del bosco, sull'erba di una scarpata, c'è un uomo seduto che spezza il pane coi denti, lo riconosco: è il "lupo"! Ci fermiamo e gli offriamo un cenno di saluto, egli ci risponde con una smorfia e gira il capo dall'altra parte. Noi insistiamo, ed allora contrattacca chiedendoci: - com'è il terreno da quella parte? - "Bruciato" dico io guardando le splendide teste rosse che si protendono da una tasca della sua giacca. Che lupo!

Ci rimettiamo in macchina mentre altri mezzi ci incrociano in un via vai sempre più animato. Nei pressi di una fontanella decidiamo anche noi di sostare per rifocillarci . Vediamo  "Ninnuzzu", come al solito è solo e sorride sornione. La sua tecnica è mutuata direttamente dal lupo, di cui pare essere la copia giovane: anche lui lascia la macchina in bella vista e va da tutt'altra  parte. Ma a differenza del suo maestro che copre chilometri carico di funghi, Ninuzzu è uso celare il suo tesoro e tornare alla macchina con modeste quantità di prodotto nell'ora in cui molti possano vederlo stanco ed abbattuto. Poi, fingendosi sconsolato si allontana in macchina con partenza rabbiosa verso l'interno. In realtà va  a riprendersi i funghi nascosti.

Rifocillati, decidiamo di fare un ultimo giro. Ci buttiamo a motore spento per una stretta stradina impolverata. Dopo poche centinaia di metri di discesa, verso una specie di abisso dove i pini sembrano tendersi verso il nulla e la strada cammina ai margini di uno strapiombo roccioso, dall'altro lato, tra l'erba alta, scorgiamo come un leone possente sul proprio territorio, l'azzurro ducato del "Petrisiello". Inchiodiamo la macchina. L'uomo è poco distante, immobile scruta il terreno sfiorandolo delicatamente con un bastone, si osserva muovendo solo gli occhi. Deve avere sguinzagliato la sua banda: moglie e i tre figli, che setacciano letteralmente il terreno camminando a schiera, senza tregua.

 "Là è inutile che ci vai, sono passati i miei parenti."

 Mi diceva un loro cugino ormai in pensione, quando a lui ed alla sua decennale esperienza prospettavo una mia "visita" in certi posti. Costui, di nome "Gesaru", che sul picco di un colle, durante una delle mie prime fallimentari esperienze nei pini, vidi in una scena inimmaginabile. Assieme a "Grancu" reggeva sulle spalle un'ape carica di funghi, mentre un terzo uomo stava nella cabina a tener fermo lo sterzo. Per sentieri scoscesi, tra felci e ginestre sfiorite, con coraggio o follia, tentavano di raggiungere una vecchia mulattiera che dava a valle  verso la strada. Da quel giorno, anzi dal giorno dopo costui è "pensionato

Io restai a bocca aperta e il sudore di quegli uomini, e i loro occhi lucidi mi dissero cose che l'odore dei pini cela ancora in quell'aria. 

 

Gli istrioni delle foreste

 

Il secondo mattino giungiamo che è ancora completamente buio ai margini del bosco. E nel buio caliamo tra i pini. I pallidi albori ci assalgono d’improvviso, come d’improvviso troviamo famiglie di rossi porcini. A pochissima distanza dalla strada, in meno di mezz’ora colmiamo due panieri. Eccitati torniamo alla macchina che il sole non è ancora sorto e scarichiamo i funghi in una cassetta di legno. Nel bel bello che godiamo ad osservare e a sistemare quei meravigliosi frutti, come un fantasma appare il figlio dodicenne di “Zumpano” che esclama:                                                                             - Porc… se non mi do da fare papà oggi m’ammazza! – e scompare tra gli aghi di pino. Vaghiamo nel bosco poi senza altrettanta fortuna. Mentre facciamo ritorno, dalla cima di una collinetta proprio sopra la strada, notiamo due figure muoversi stranamente, ci avviciniamo e percepiamo le bestemmie di Zumpano e le sue urla verso il figlio.             Lo vediamo agitare in aria il secchio rosso del giovane e scaraventarlo in un burrone. Quel che resta di quel secchio è ancora là a testimoniare  la rabbia di quell’infausto giorno per il piccolo Zumpano. Altro testimone del fatto fu “Natuzzu u picaru”, barbuto normanno semidilettante che esclamò, mentre si alzava i pantaloni dietro il vecchio tronco di un pino:                                                                                                                  “Aia Dio! Adesso l’ammazza! Fermo, fermo!” E lo Zumpano, avendolo riconosciuto:        -  va caca, va! –                                                                                                   Dopo di che, scambiata qualche battuta col “barbarossa”, dirottiamo la marcia e ci dirigiamo verso Nord. Poco prima della caserma della forestale incrociamo “Marinaro” ed il giovane “Minichella”. Mentre il “pescatore” si loda delle proprie imprese funghifere declamando di luoghi magici e per i dilettanti irraggiungibili, il giovane Minichella, con le agili gambe, scompare tra le felci e fischia misteriosamente. Non cadiamo nella celia del tranello ma, addirittura, data la nostra scolare amicizia, il marinaro ci indica una zona interessante verso la quale subito ci spingiamo.

La macchina del “Pando ” è sapientemente coperta di frasche, ma la riconosciamo  e capiamo subito che il pescatore non ci mentiva. Dentro un umido pianoro tappezzato da erba alta e fitta, scorgiamo la sagoma di “Panduccio”, chino quasi in preghiera. Non appena ci vede si autocelebra con intensi e prolungati baci al mirabile porcino che si crogiola nelle mani. La sua estrosità ed il suo folklore  verbale ci mettono di buon umore, mentre il suo gemello “Longarone” da lontano lo invoca a gran voce, poi ci riconosce  e s’avvicina anch’egli, con aria greve lo rimprovera per le sue solite sparate rammentandogli la fatica del cercar funghi e lo induce alla compostezza.

Il Pando risponde con una smorfia e mostrando il suo paniere carico. Due personaggi in perenne contrasto caratteriale, e forse proprio per questo  indivisibili

Intanto la zona si popola di dilettanti: ormai è un posto bruciato. “Mignolino” e suo nonno “il gelso” vagano sconfortati nella immensa pineta: non è facile scoprire il porcino rosso dei pini! Il “traino”, come sempre è sudato e stanco, dice di aver camminato fino a dove i pini cedevano il posto agli ulivi. Intanto panduccio e longarone sono spariti. Ci avviamo verso la stradella e, seduti ai bordi, mangiamo pane, cipolla e soppressata. Passa “Giotto” con i ricci al vento fumando nervosamente: - Per voi fa la vita! – ci dice, e si ributta nel bosco. Ormai prendiamo la via di casa. Ma sulla strada poco prima del ponte vediamo la macchina di “Ciociadone”. Decidiamo di controllare la zona. Ma appena scesi dalla macchina ci accorgiamo che il furbacchione è lì, appoggiato alla macchina, seminascosto, che mette qualcosa sotto i denti. Con lui “sciorta” e il “gucciari”. Ci guardano sorpresi:       - E voi da dove sbucate? -                                                                                             - E veniamo da questi colli… -                                                                                Loro mostrano ironici sorrisi, poi:                                                                              - Ma qui quelli come voi non ne trovano funghi!-                                                                  - Si lo sappiamo, perché non ci indicate voi qualche buon posto? –                                  Ci rendiamo conto che le nostre parole sono pietre precipitate in un burrone.                     – Volete un bicchiere di vino? – Gentilmente decliniamo, salutiamo e ci rotoliamo in allegria verso il fondovalle. Giungiamo in un battibaleno alla fiumara: le acque d’argento incantano la vista. Ma sull’altra riva sta seduto “il Penato”, la sua figura mi riporta a “Kinowa”, mitico personaggio dei fumetti della mai infanzia. Smilzo e calvo, con l’eterno sorriso sulle labbra ed un enorme paniere colmo di funghi, ci apostrofa:                     “Ragà dove cazzo andate di qua? Qui sotto c’è la marina!”                                                - E tu che ci fai qua? -                                                                                                         - Sto tornando su, ma faccio il giro largo per evitare gli amici che stanno qua sopra, avete capito, no? – Abile e silenzioso come il puma, nel bosco è invisibile, se ne scorge la presenza solo a tardo pomeriggio quando con la sua inconfondibile ape telonata è sulla statale. Ormai è tardi. Partiamo definitivamente verso casa percorrendo lentamente la stradina silvana. Poche centinaia di metri prima di imboccare la s.s. 179, su un argine notiamo un figuro a pancia in giù: è la “Pupita”. Come al solito si dedica al suo sport preferito: dorme. Ai suoi piedi un sacchetto di vavusi ed un paio di porcini semi divorati dalle lumache. Lo scuotiamo decisamente, conosciamo il carattere duro del suo sonno, egli alza la testa e ci scruta con gli occhi rossi portando le braccia la petto, si rizza in piedi come una molla e ci chiede una sigaretta, poi non la vuole più:                                   - Ah, io fumo solo marlbroro! –                                                                                        Noi non parliamo, lo guardiamo trattenendo il riso. Lui continua:                                          - sto aspettando quel bombaro di mio fratello, mi ha lasciato qua stamattina. Me ne fotto… ancora non lo vedo…forse è andato al paese a prendere il camion per caricare i funghi che ha trovato. –                                                                                                     Lo rincuoriamo, gli ficchiamo in bocca la “nazionale” gli offriamo un passaggio, che rifiuta, rimontiamo in macchina e filiamo.

Sulla statale è appostato “Dentidoro”. Come ci vede tira fuori la statera e le cassette. Vendiamo i nostri funghi, contiamo i soldi e dividiamo. Oggi non è andata tanto male!

  

Formiconi

 

Stamattina siamo un po' in ritardo, abbiamo perso tempo alla fontana di Carbonello per riempire la bottiglia d'acqua che di solito lasciamo in macchina per spegnere la sete al ritorno dalle estenuanti marce. Il sole sta già sorgendo quando ci arrampichiamo verso la famigerata  "chianetta di Biccheri", fungifero pianoro cosparso da vecchi tronchi putrefatti e da felci odorose e brillanti come zaffiri.

Una figura s'erge immobile in mezzo all'erba, a fianco del saettante fusto di un pino. È il Marinaro, - bene- penso - qualcosa troveremo anche noi. Ed invece, mentre mi avvicino per salutarlo, stupendomi della sua fissità, lo vedo come impietrito davanti ad un mucchio di merda ancora fumante:                                                                                                "Non solo, mi dice, stamattina mi ha fottuto i funghi, ma mi ha anche cacato sul posto. Ci vediamo!" E scompare come un fulmine tra gli sterpi e le ginestre scheletrite. Non immaginavo a chi si riferisse, ho saputo poi che parlava proprio di "Biccheri", colui che aveva dato il nome al posto. Un personaggio della categoria dei silenziosi, dal tocco vellutato e mortale, imprendibile: di lui rimane solo il segno tangibile del suo passaggio. Molto simile al "Pappo", figuro apparentemente di secondo piano, ma che sa il fatto suo. La sua tecnica è il mordi e fuggi: precise e letali puntate sul "posto" e repentini ritiri nell'ombra. Ma il vero mago invisibile, l'Houdini della situazione, l'evanescenza fatta uomo è il "Capichiatto": assolutamente introvabile. A volte si ha l'impressione che viva in simbiosi col bosco. L a sua tecnica è sconvolgente. È capace di partire a mezzanotte per scoraggiare eventuali inseguitori. Poi, armato di zappa e vanga, penetra nel bosco con la sua apicella, nei più remoti recessi della foresta. Se poi è in coppia con "Giurranda" diventa una leggenda vivente. Solo negli ultimi tempi, data l'età, è possibile vederlo, ma sulla via del ritorno. Sono capaci di marce lunghissime, incapaci di arrendersi prima che faccia buio, essi rappresentano l'ante-litteram del fungaio. Guai a far vedere loro i propri funghi, sono in grado di riconoscere l'albero che li ha generati. Conoscono la Sila fungifera come le loro case, ogni piega del terreno gli è familiare:  fu quel giorno che nel letto inospitale di un ruscello prosciugato, tra due immensi faggi le cui chiome si protendevano come lunghe braccia palmate sulla terra, dopo faticosa erta, stanchi come non mai ed ormai prossimi all'abbandono, vedemmo un'ape azzurra e inconfondibile: era proprio il "chiatto".

Rinati a nuova energia scrutammo il terreno con dedizione, c'erano davvero i funghi. Avevamo scoperto, almeno, un itinerario, una pista importante. Da quando, ancora ragazzi, "u ngiovane", generoso fino alla prodigalità, ci aveva iniziato alla "professione"scorazzandoci in ogni angolo dell'orbe silana coi suoi mille pulmini, stregandoci, era quella la prima volta che sentivamo la serietà di quello che per noi era solamente un affascinante gioco di colori e d'ombre.

C'erano voluti anni ed anni di freddi mattini e di "alfe" per capire che il fungo va amato con passione violenta, esclusiva, vitale. E fu proprio il "capichiatto" che, vedendomi strappare un porcino dalla terra con foga, mi disse con voce confidenziale:

 "ora rimetti tutto come prima, le zolle e gli aghi di pino, fra due giorni lì ne troverai un altro.”  Scendemmo poi a valle per capire dove eravamo e dirigerci verso la macchina. Camminavamo alteri quando incrociammo alcuni petronisi con gli zaini sulle spalle: veri montoni con la testa bassa. Ma più tornavamo verso il punto di partenza più il bosco si andava popolando. Si udivano voci e fischi sempre più vicini e si intravedevano sfuggenti profili tra le felci e l'erba alta.                                                                             Vedemmo addirittura "Virgilio" e il "Zimbaro" insieme: ibrida coppia di formiconi, acuti e pazienti fustigatori del terreno, con loro, leggermente defilato, era "Ntoni pilota", impietoso amante della natura e cultore del sillo: a lui spesso la musica delle fronde bastava a riempire il paniere.                                                                                Continuammo il cammino e nei pressi della strada sentimmo le bestemmie di dilettanti sudati che giravano intorno a se stessi disorientati dalla grandezza della natura. Vicino alla macchina scorreva un limpido ruscello:  vi bagnai la crosta di pane duro e mi dissetai stringendolo fra le labbra. Riposammo per un po' e ripartimmo per un altro giro. Poco sotto la strada, quando il terreno si rifaceva piano, vedemmo "Pui Pui" attrezzato ma deluso. Ma la mia vista fu colta dalla sommità di una collinetta dove notai Zumpano. Avevo quasi finito le sigarette: ne avevo solo due, pensai di tentare un approccio per chiedergli di fumare. Con cautela e facendo finta di nulla aggirai la circonferenza intera del poggio, ma quando fui di fronte a lui, mentre riprendevo fiato, egli si rivolse a me senza remore:                                                                                                                - Dammi una sigaretta, guagliù! - Ero andato per suonare e fui suonato!                          Il pescatore più in là se la rideva. Nella zona notai anche Ninnuzzu con due funghi nella borsa di plastica, molto probabilmente aveva già compiuto la sua operazione. Girai ancora lo sguardo e vidi un nutrito gruppo di fungai della domenica. Fui stupito di vedere tre "Formiconi" in una zona tanto aperta e di facile approdo da parte degli stancabili dilettanti sempre alla caccia delle ombre dei maestri, ma capii subito delle frasi smozzicate e dalle mosse dei tre che si trattava di una palese azione di depistaggio. Ormai era tardi e le gambe sentivano un peso notevole, così decidemmo di rientrare.

 

 

Profumi del tempo

 

Da giorni ormai battevo assieme ai miei “pards”, le colline pinicole del Roncino e del Monaco e, tra informazioni carpite con finta ingenuità, tra lunghe marce spesso infruttuose, tra note veritiere avute quasi di soppianto da qualche vecchio amico e tra l’estenuante osservazione degli spostamenti veri e le giocate di fino degli attori sul palcoscenico magnifico di quei boschi, mi ero faticosamente creato un itinerario quasi fisso di marcia alla ricerca del preziosissimo boleto dei pini. Ed ogni nuovo giorno ampliavamo con l’esplorazione pomeridiana il nostro orizzonte conoscitivo.

I “ ludi silvani” erano all’apice. Sovente le verdi foreste erano solcate, oltre che da figure in qualche modo familiari, da individui sconosciuti e strani, con su le spalle una cassetta di legno attrezzata all’uopo dentro uno zaino militare, e spesso un’ascia appesa al braccio che filavano silenziosi e oscuri, facevano paura: i petronisi. Pressoché impossibile, non dico familiarizzare, ma scambiarsi un saluto.

Al mattino giungevano con pulmini e si disperdevano nel bosco ognuno per proprio conto, poi facevano ritorno ad un orario dato e s’infilavano muti nelle macchine che scomparivano d’incanto come belve sazie.

Se si sa cosa rappresentino i funghi in questa disperata parte di mondo, si capiscono tante cose. Quel giorno decidemmo di spingerci verso luoghi inesplorati seguendo un’angusta stradina che scendeva tra ali di ginestre moribonde. Procedevamo lenti e l’odore di resina penetrava le narici. Ad un tratto ai margini della strada quasi inchiodato ad un pino, ci appare l’azzurro mezzo del “Petrisiello”. Anche noi inchiodiamo la macchina allo stesso albero, senza pudore, e corriamo nel bosco allegri come bambini. Ma il terreno, dopo un breve pianoro, si fa terribilmente scosceso, a valle scorre impetuoso un “fiumaro”: un rumore atlantico copre le nostre parole. Ci disponiamo a ventaglio e cominciamo a frugare tra le felci fiancheggiando. Poco dopo vediamo venire verso noi quattro personaggi: moglie e figli del Petrisiello. Intenti, essi, tengono gli occhi praticamente dentro gli aghi di pino e le erbacce, e non li alzano. Quando ci incrociamo uno di noi tenta l’inutile approccio:

“com’è? “ Il ragazzo, il maggiore, non mostra il minimo turbamento, solo la madre, a poca distanza, si arresta per un attimo, ci guarda, ci riconosce e commenta lapidaria:         - Questo non risponderà nemmeno alla chiamata del Padreterno! –                       Fingiamo un sorriso e continuiamo. Dopo un ampio giro siamo di nuovo alla strada e ci dirigiamo verso la macchina quando un rumore di motore ci assalta: è il ducato azzurro che prende la via del ritorno. Subito dopo un’altra macchina ci raggiunge e si ferma. E’ Giotto. – avete visto il “Petriso?  - lo sto tallonando da stamattina. – Gli raccontiamo il fatto e lui riparte a tutto gas. Anche noi partiamo. Inevitabilmente si forma una processione. Quando giungiamo sulla provinciale un gruppo di fungai di primo pelo di nostra conoscenza, tra cui “Tom chiavino”, ci ferma abbagliato dalle due macchine che ci precedono. Noi ci atteggiamo ad “esperti”e, generosamente, elargiamo consigli. Il “traino” è a terra che fuma, chissà da dove viene!

Mangiato un boccone ci riproponiamo tra vallate e sentieri. Incontriamo “Bistecca” che fa ritorno col suo bravo paniere rosseggiante. Scambiamo qualche parola e ci da qualche indicazione che si rivelerà veritiera. Non gli chiediamo dov’è suo padre, il fantomatico “Giurranda”, socio del “Chiatto” perché non vogliamo metterlo in difficoltà: siamo amici. I campanacci delle vacche libere spezzano il frullare dei pini quando scorgiamo Longarone col suo passo chilometrico varcare un crepaccio, cerchiamo allora con gli occhi il Pando, ma non c’è. Forse oggi si sono divisi per esplorare più territori.

Siamo davanti alla fiumara. Beviamo con i bovini e risaliamo dall’altra parte. A metà del colle le prime gocce di pioggia bagnano il viso, deviamo verso la strada, il cammino è lungo. Comincia a piovere sul serio. Sul terreno strane lucertole gialle e nere ansimano e divengono sempre più numerose, escono dalle tane invase dall’acqua e pitturano impressionista uno scenario ormai ingrigito: le salamandre. Troviamo riparo in un anfratto roccioso, lontano dal folto dei pini. A passo di marcia, col rumore di un plotone di fanti, irrompe il lupo coi soliti bustoni colmi, non ci vede. Riprendiamo il cammino appena la pioggia rallenta. Siamo quasi sulla strada, sentiamo una macchina smarmittare, ci sporgiamo e la riconosciamo in quella del “Ngiovane”, il nostro primo e grande maestro, non facciamo in tempo a mostrarci ed è già sfrecciato sulla strada inzuppata di fango. Poco più avanti, ancora lungo i margini della strada, un gruppetto di persone dall’aria spaesata bivacca saporitamente nonostante il modestissimo raccolto che appare dai sacchetti afflosciati sull’erba bagnata e dai panieri a pancia in giù.

Sono emigranti tardivi che, prima di risalire nelle brume cineree ed attratti dal miraggio del porcino, hanno voluto rituffarsi per un giorno nel silenzio sacrale della Sila per attutire nel cuore i ritmi apocalittici dei loro consueti scenari. Forse solo per rivedere i luoghi della misera infanzia corsa dietro a greggi il cui odore oramai è impietrito nelle cantine della memoria. Sorseggiano “rosso” da bicchieri di carta tenendo nell’altra mano, esibendo, qualche “vavuso”.

Ci fermiamo con loro e capiamo la triste allegria. Spieghiamo, con ricercata maniera, i circuiti silvani del vero fungaio, ma ad ogni parola essi interrompono col ricordo, così, per non essere presi dalle loro malie, tagliamo la corda, quasi fossimo colpevoli di sollevare con le parole il lenzuolo del tempo e fare uscire il suo acre profumo.

 

Gazzella dei boschi

 

E’ giorno fatto: un sole rosso ci sorge alle spalle mentre ci inerpichiamo con sollecitudine tra l’erba umida di un’altura. Come una siepe un filare di giovanissimi pini taglia il crinale, luccicante ai primi raggi: al di là, voci concitate e risatine.

Il nipote di “Micuconca” è inginocchiato a rastrellare dal terreno decine di piccolissimi funghi, mentre l’osservava fiero, con la giacca abbandonata sulle spalle, suo zio “Minichella” il vecchio. Essendo lontani parenti scambiamo due parole col ragazzo, che diventa di colpo serio e ci colma di consigli: lui è cresciuto alla scuola del Marinaro! Poi proseguiamo senza fretta. Talora sentiamo presenze, ma con gli occhi non scorgiamo che svettanti pini. D’improvviso un’ombra appare e scompare: “u Pappu”! Poi un’altra, ma non capiamo bene chi è, forse il “Puiciaru”, ma non ne siamo sicuri. Deve essere la zona dei silenziosi. Ma ecco una figura più concreta: “Gesaru”, con giacca sulla canottiera. E’ pazzo, pensiamo, ma poi vedendo il maglione slungarsi dalla sua mano fino a terra, ed una cassetta poco più in là, ingoiamo il sorriso.

Anche noi tra le ancor umide felci, a tratti, vediamo spuntare meravigliose teste rosse. Dopo qualche ora, soddisfatti, ripieghiamo verso il punto di partenza. Ed anche oggi, da quelle parti udiamo il fragore sonoro dei dilettanti: “Virgoletta” e “Mezzogiorno” analizzando un fungo verdognolo trovato sulla scarpata, poco più in là “Cuimusciu” polemizza con un ciuffo d’erba, ma vicino alla strada, con una mappa ed un’agenda sta “Scarpone”, scientifico visitatore dei boschi. Finalmente vediamo la nostra macchina, lasciata vicino ad un ruscello ci appare come un approdo mistico.

 Rifocillati ci ributtiamo nel bosco. Rivediamo scarpone in mezzo ad un pianoro che prende appunti in piedi, ci dice con sapienza:

“da due anni in questo posto non trovano porcini, oggi ho fatto il pieno, deve essere un ciclo… “ Il suo piglio è da astronomo. Fingiamo di crederci e ripieghiamo a ridosso della scarpata. Nella gola l’acqua sonnecchia scura tra le radici e i rovi. Risaliamo dall’altra parte e ricominciamo a frugare tra l’erba. Poi all’improvviso un limpido ruscello esplode tra le balze del verde: ci dissetiamo ingozzandoci  e ci buttiamo a pancia in aria sul terreno. E mentre pigri osserviamo i cerchi di fumo ricamare l’aria una voce cavernosa ci scuote: è il mitico lupo che ci offre un saluto. Si ferma accanto a noi sorprendendoci ed osserva il declinare del colle.                                                                                           -Ma cosa guarda? -  Ci chiediamo muti.                                                                     Poi ci si rivolge con una sorta di dolcezza mista ad ironia:                                       “questa cazza di femmina mi sta facendo certe barbe!”                                                      Noi ci guardiamo stupefatti e gettiamo lo sguardo verso la collina: una strana figura danzante appare e scompare tra i pini. E lui continua:                                           “saliamo tutti a ventaglio ragliando come ciucci e vedrete come filerà, conviene anche a voi,eh!” Non capiamo se dice sul serio o, in un impeto di umanità, vuole solo dimostrarci che non è vero quello che si dice su di lui. Ma noi siamo troppo stanchi per andare in fondo alla cosa e, divertiti, decliniamo l’invito. Lui disegna una piega sulla bocca simile ad un mezzo sorriso, prima di sparire sentenzia:                                                            “Il fungo è come la donna, quando non te la vuole dare, si gira di culo!”                         Noi, lenti, ci incamminiamo verso la strada. Sull’asfalto a passo di corazziere incrociamo una donna dagli occhi violentemente verdi con un fazzoletto in testa ed un paio di baffi che spiccano come travi sul labbro accaldato, con una mano si regge il seno come per impedirgli di trascinarla in avanti, ci costringe quasi a spostarci per darle strada.               – Deve essere gazzella dei boschi - azzarda qualcuno. Per fortuna la donna non sente. Decidiamo di porre fine alla giornata e partiamo verso il mercato di Tirivolo. Decine di macchine, furgoni e lambrette addossate agli argini e tra i fusti chiari dei faggi che scuotono la strada, ci dicono senza ombra di dubbio che il mercato ferve. Non è facile trovare da parcheggiare, bisogna allontanarsi. Intanto uno di noi scende per “sondare” i prezzi. Ai bordi della strada e dentro le cunette gruppi di persone dalla faccia nera spezzano il pane coi denti e dalle bottiglie bevono il “Cirò”: non saprei se è quello doc, ma l’etichetta è inconfondibile. Le statere lavorano a pieno ritmo e le mazzette di banconote appaiono e scompaiono in un amen.                                                 Finalmente fuori dalla macchina! Assaporiamo questi tranci di vita e ci riempiamo il cuore. C’è la donna dalla mascella forte che stringendo nel pugno il “sinale” pieno contratta il prezzo col compratore dal vestito blu sbiadito e cravatta rossa, fiore all’occhiello e mozzicone in bocca. Il vecchietto che sembra reggersi in piedi per scommessa, reca un paniere al compratore ragazzo, forse perché crede di fregarlo. Ci sono due personaggi dall’aspetto truce con cassetta piena  ancora sulle spalle che osservano il tutto e paiono non decidersi. Cerchiamo con gli occhi qualcuno di nostra conoscenza, ma nella folla il trambusto è tale che ci impedisce. Ci dirigiamo lentamente verso il cuore del mercato e porgiamo la cassa coi funghi ad un compratore che in quel momento è disoccupato. Pesa in un attimo e fa i conti con velocità di calcolo che ci lascia perplessi; non ci fidiamo tanto in verità e facciamo i nostri conti mentalmente, con calma: tutto a posto, ce ne andiamo! Ed ecco vediamo giungere la mitica ape del Capichiatto: con lui è Giurranda. Il cassone è coperto da un telo. Scendono con aria indifferente e parlottano tra loro come se si trovassero in piazza ad un matrimonio. Ci fanno un cenno di saluto con la bocca e iniziano a parlare con un tizio che stava da solo di legname. Poi si avvicina a loro un anziano compratore e loro se ne vanno.

Ma da oltre il filo spinato, spezzando i rami con le braccia, appare lei. Calza anfibi militari e regge una cassetta sulle spalle, ci lancia un’occhiata di fuoco e poi ride di gusto.    

 

Il poeta

 

Siamo quasi ormai parte integrante del bosco. Gli scoiattoli al mattino ci attendono protesi dagli alti fusti e non temono di precipitarsi a terra per divorare le noccioline che gettiamo loro dal finestrino: è facile dialogare con loro. Il difficile far capire cosa facciamo agli occupanti delle macchine che ci passano innanzi e ci guardano con cattiveria pensando che stiamo aspettando proprio loro per seguirli. Ma poco importa. Noi abbiamo un itinerario quasi fisso che prevede, talvolta, rapide puntate fuori pista e rientri altrettanto veloci.

Nel posto ove di solito lasciamo la macchina c’è un altro mezzo mai visto. Diamo inizio comunque al rito di procurarci un bastone e partiamo come al solito con lo sguardo puntato a terra. Dopo un po’ i primi rumori e le prime confuse voci ci giungono come sempre. Ci avviciniamo con aria fintamente distratta ai due tipi che ci precedono: “Calandrella” danza sull’erba e “Cuacchiu” gli fa eco con grasse risate.                              - Cos’è questo casino? – Intimiamo l’alt al chiasso! Essi abbozzano e ci mostrano due funghi stupendi come per dire: ne valeva la pena. Più avanti scorgiamo due anziani che a malapena si reggono in piedi. Mi avvicino e noto uno di loro immobile appoggiato al bastone coi gomiti, sembra sonnecchiare; a terra, a pochi passi, un fungo, mi chino cautamente e mentre allungo la mano il vecchio ha un sussulto:                                           - Posa il fungo! – mi dice picchiandomi col bastone sulla mano. Gli altri ridono. Intanto l’aria s’è fatta lattiginosa, una nebbia avanza come onda e l’umidità  ci sferza il viso. Decidiamo di declinare verso la strada per non rischiare un disorientamento che potrebbe rivelarsi pericoloso. Ma piano piano la nebbia dirada e il sole fa capolino tra le cime. Ma ormai siamo quasi sulla strada e di risalire non c’è molta voglia. Magro bottino oggi! Magro e senza qualità: i funghi sono alla fine! Uniamo però le volontà e ripartiamo: è ancora presto, ma in una nuova direzione. La zona sembra deserta, il terreno intatto, cominciamo ad avere dei sospetti amari sulla bontà del posto: qui non c’è nessuna attività! Ma ecco un fungo. Enorme. Poi un altro. Un altro ancora. Forse è un posto vergine! Ma l’illusione dura poco: quando li strappiamo dal terreno appaiono molli e cadenti. Ci ripetiamo: i funghi sono alla fine.                                                                                Eppure Ninnuzzu col passo felpato ci precede: raccoglie porcini e non strapazza il terreno. Ci sente ed in un attimo è scomparso. Doveva essere questo uno dei suoi posti segreti. Noi lenti continuiamo a sbirciare tra l’erba, a volte alzando la testa per riposare gli occhi o per l’orientamento. Qualche fungo si vede ma il bianco delle cappelle s’ingiallisce, a volte è verde cupo e nel bosco diminuiscono le voci. Ora è più di un’ora che camminiamo senza l’ombra di un porcino. Tiro fuori il sacchetto di plastica che tengo in tasca e raccolgo pigne. E’ un gioco. Ma quando siamo vicini alla strada e vediamo alcuni dei camminatori inesausti buttati a terra rassegnati alla fine di questa stagione, il gioco diventa crudele. Sopra le pigne sistemo i quattro funghi che ho trovato e passo vicino ai guerrieri che riposano dicendo loro:                                                                - Salve! Come va? – e mi allontano con “nochalance”. Essi spalancano gli occhi ormai stanchi e seguono l’ondeggiare di quella  busta senza parole. Uno dice, come per scacciare l’intimo pensiero,                                                                                                  - Compà sti pimadori su buani sulu ppe mangiare, ppe llu riastu un servano a nente! -  “Cumpà tu cce volie jire a cavallu pianzica?” Gli risponde un altro.                               Ma io in fondo sono un buono e torno indietro sorridendo: “Queste sono solo pigne!” E loro si liberano dalla tensione e quasi mi abbracciano. Ma la nostra macchina è ancora lontana. Per accorciare il cammino scaliamo una collinetta.                                      Stanchi del lungo cammino, sulla sommità del poggio, dove i pini schiaffeggiano il cielo senza pudore, sulla sua cresta rotonda, ci apparve lui. Non aveva l’occhio cattivo di chi s’aggrappa ai frutti dell’autunno per non morire, né la stanchezza antica dei camminatori senza nome, solo una canna nodosa in mano. Alto e robusto, quasi elegante col suo gilet ricamato e i pantaloni alla zuava ci fissò come se ci aspettasse: un viso duro, segnato, ma gli occhi limpidi, noi rimanemmo  a fissar lui:                                                                - Poeta Domingo Mussari da Panettieri, finalista di braccio di ferro all’Università di Mexico! – ci disse in un inchino.                                                                                 Noi restammo senza parole. Si appoggiò ad un albero visibilmente commosso e si asciugò il sudore con la mano. Non aveva più di ottantanni, forse neanche meno. E noi, trafitti dal sibilo della sua voce ci sedemmo sull’erba. Recitò alcune poesie che sapevano di libri antichi, di strane piramidi e di ori, di miserie e di sonni, di pancivilla e generali.                Noi a bocca aperta guardavamo le sue labbra screpolate correre nel vento, fino a quando con gli occhi lucidi tacque. Venne con noi nella macchina e ce ne andammo. Durante il viaggio non disse una parola. Poco  prima di Panettieri ruppe il silenzio:                               - lasciatemi qui! – Osservò il cielo grigio e s’infilò in un viottolo oltre un filo spinato arrugginito, ombrato dai filari gialli delle amarene.

 

FIORI DI PIETRA

 

Giuramento

Ricordi bellissimi

Il canto del cigno

La chiave che ti sa ti apre

L’ultimo brigante

 

Giuramento

 

Rozzi ed affamati battevano le foreste inestricabili della Sila lottando coi lupi, ululando contro vecchie e nuove angherie. Ma le profondità delle selve si stringevano sempre più con l'avanzare degli eserciti forti e numerosi dei napoletani. E, come i lupi, più diventava limitato il loro territorio, più diventavano feroci. Ma un giorno, in uno dei più remoti angoli del Gariglione nell'ora del crepuscolo, l'ora in cui la violenza dei gesti e delle occhiate e tutta la loro ferocia sfumavano in dolci ricordi della propria casa o di una donna lasciata a piangere nell'ombra, apparve un vecchio.

 - C'è con me questo ragazzo, vuole stare con voi, per piacere mio provatelo. - Disse.      Ed ecco riemergere in quegli uomini rabbiosi, per un attimo solo leniti dalla malinconia, la voce grossa e lo sberleffo:                                                                                       "Ma che dobbiamo farne? Portalo via...usciccà." E il giovane, testa bassa ed occhi accigliati, scrutava tutti. Ma il vecchio, un omino secco ed arcigno con due fili di capelli bianchi sotto una manta nera che lo avvolgeva tutto, insisteva. Quello che sembrava il capo banda si alzò e disse:                                                                                            - Zu Girà, se sei tu che lo dici allora lo metteremo alla prova, ma tu sei la legge, o con noi o morto!- La notte arrivò in silenzio. Pietro, era questo il nome del ragazzo, non si staccava dal vecchio, s'adagiarono vicini, sotto le chiome di un enorme faggio. Più in là, su una radura protetta da abeti secolari che alla luce della luna parevano ombre minacciose di giganti, pochi uomini a cerchio intorno a pietre.                                              Il giovane chiese al vecchio cosa facessero, mentre con gli occhi cercava le cime degli alberi. - Quelle pietre sono cocenti come carboni accesi, si scaldano e progettano qualcosa.- Poi venne il sonno come pena da scontare per vedere il nuovo giorno. Ma non era ancora l'aurora quando Pietro e zu Girardu furono svegliati.                           "Dobbiamo andare, zu Girà, tu dormi, quando sarà giorno torni a casa, scendi dal Roncino." Il ragazzo invece balzò in piedi e seguì i quattro uomini con cappelli a cono e mantelli neri. Non era una notte scura del tutto ma quegli uomini marciavano come fosse giorno in mezzo alle foreste e alle sterpaglie. Pietro camminava senza timore nelle loro scie. I primi bagliori colsero il gruppo sulle prossimità di " Colle di Macchia". Fu allora che si fermarono e dissero al giovane:                                                                                       - Adesso comincia la tua prova, guarda e impara. - Dopo qualche minuto ancora di cammino si scorse un pagliaio tra le fronde e poco lontano, verso un pianoro, alcune pecore. Pietro restò ad osservare assieme a " Coda di Gatto", che pareva ancora dormire. Il capo, il più alto e il più barbuto entrò nel pagliaio ed uscì con una donna, una vecchia donna dal naso rubizzo e parlottarono, mentre i due guarda spalle miravano una pianta di ciliegio " scimellare". A Pietro tutto pareva uno scherzo, fino a quando la donna con uno schiaffone non fu scaraventata a terra. I due attendenti le sputavano addosso i noccioli delle grosse ciliegie e il capobrigante portò due dita in bocca e lanciò un fischio verso il cielo. Dopo un po' comparve un uomo con un bastone ed un ridicolo cane dal pelo rossiccio, che alla vista del capo banda si gettò in ginocchio urlando pietà.                         - Petru, Petru- gridò allora il brigante. Il ragazzo uscì allo scoperto seguito da Coda di gatto. - Accendi un fuoco che ci arrostiamo una coscia di questo cane, o vuoi il cuore di quest'uomo?- Pietro, dopo un momento di confusione, si diede a raccogliere frasche ed accese il fuoco.                                                                                                       L'uomo piangeva forte con la testa nella terra, uno degli attendenti acchiappò il cane dalle zampe posteriori e lo sbattè senza pietà contro una pietra aguzza che sporgeva dal terreno. Schizzo il sangue ed il pianto dell'animale si mescolò a quello dell'uomo. Poi gli fu ficcato un coltellaccio nel collo e fini l'agonia. Pietro aveva osservato tutto. Quando il fuoco crepitò lanciando fuliggine nell'aria tersa del mattino ed una zampa intera di quel cane, con tutta la pelle, fu messa ad arrostire e i due poveri contadini furono legati al ciliegio assieme a quello che restava del cane, l'apprendista brigante sentì di colpo svanire dal suo cuore i residui sentimenti d'umanità che aveva fino ad allora creduto di avere. Pietro sentì, praticamente, delle vibrazioni sulla sua pelle, come se d'improvviso gli crescessero peli dappertutto e fece gli occhi rossi e le sue labbra acquisirono una piega feroce. Strappò con i denti la pelle bruciata della coscia del cane e morse animalescamente quella carne semi cruda. E grida sazie si levarono a suggellare l'evento. Poi il contadino fu di nuovo preso e trascinato vicino al fuoco. Il  capo banda gli disse:       - t'è andata bene, se questo giovinazzo non avesse mangiato il tuo cane avrebbe dovuto mordere il tuo cuore grondante, o io mi sarei mangiato il suo! -                                              Gli furono poi abbassati i pantaloni e fu messo a sedere col culo sulle braci ardenti. Cosi i briganti se n' andarono. - Questo pecoraio la doveva pagare - disse il capo aggiustandosi il cappello a cono. Coda di Gatto aggiunse:- il ragazzo è buono, zu girardu aveva ragione!- Si- intervenne ancora il capo- è buono come il pane, lo chiameremo: "pane di grano".   

                  

 

Ricordi bellissimi

 

 

Cominciavano a finire i soldi nelle tasche di quella specie di briganti che per sfuggire alla leva piemontese si erano imboscati ad Arcimuso. Ogni tanto una puntina a Cicala, passando per Fralluca, permetteva di recuperare qualcosa da mettere sotto i denti. Ma dopo uno scoraggiante incontro con una pattuglia di carabinieri di Taverna che aveva sconfinato per eccesso di zelo, non se la sentivano più di rischiare raids diurni.

Così una notte di mezza estate con la luna che schiariva a giorno l’aria, decisero di avvicinarsi quietamente alle case di un paesino della zona. L’ora tarda aveva già messo a letto i probabili abitanti. Adocchiarono una casetta dal balcone spalancato e ricordarono che vi abitava il fratello del prete.

“Gente bona” pensarono, avrà un mucchio di soldi. Con tutte le pecore e i terreni che possiede, un capretto ci sarà anche per noi

– Due saliamo e due aspettate qui – propose Ferdinando, che pareva più eccitato dall’idea di vedere la moglie del pecoraio a letto che da eventuali altri bottini.                                   – Fardinà – intervenne minaccioso Santumergu, così chiamato perché da ragazzo era visto spesso frequentare la zona del “Corio” adiacente alla chiesa – saliamo tutti e saliamo per soldi! –                                                                                              S’arrampicarono così veloci e penetrarono nella stanza come furie. A letto due figure si dimenavano strampalatamente. – Vogliamo i soldi! – gridò uno dei quattro. Ma quando l’uomo seminudo si girò, riconobbero il prete.                                                          “Hai capito questo faccitosto!” La donna restò nascosta sotto le coperte. Il prete si rivestì e con fare paternale così parlò ai briganti, tutti molto giovani: - Voi volete i soldi? Ed io ve li do. Ma ve ne darò di più se anche voi mi aiuterete! –                                            E come, donnantò? – disse il quarto brigante che ancora provava del timore reverenziale per l’anziano parroco, lui, un ventenne che lo stesso donnantoni aveva tenuto spesso in braccio.                                                                                                                                – Andate a jannetta, nel pagliaio c’è mio fratello Tommaso che dorme, lo rapite e poi mi mandate a dire, in modo che lo sappiano tutti, che volete molti soldi per liberarlo. E’ solo con le pecore e quei due cani “mazzupiti” e vecchi, non è una cosa difficile… -                   I raggi della luna penetravano dalla finestra invitanti: in un balzo i giovani briganti furono fuori. Con determinazione si diressero verso la zona indicata dal prete, discutendo sulle modalità del rapimento. -  Dove lo porteremo? – era la domanda che si ponevano con sempre maggiore frequenza. Ma quando furono davanti al pagliaio dimenticarono ogni dubbio e, penetrati senza esitazioni, ficcarono la testa dormiente del povero Tommaso in un sacco “marinese” e lo svegliarono. – Ora verrai con noi! –                                          Egli neanche rispose e si fece guidare senza resistenza. Dopo un po’ però si riaffacciò la solita domanda: - Dove lo portiamo? – La processione si fermò un attimo per raccogliere le idee, poi ci si diresse decisi verso ovest.                                                                 Schiariva sempre più l’aria intorno all’alba, ma prima che le luci diventassero troppo luminose, entrarono in una grotta incastrata tra le radici di un enorme castagno e una roccia, su un ripido pendio. Due briganti restarono a far la guardia al prigioniero e gli altri due presero la strada di Bianchi. Nella zona della “Scala” incontrarono un pastore chiamato Gori, mingherlino ma dall’occhio vivo. – Zu Gò – esordì il più giovane dei briganti – fai sapere al prete di P. che suo fratello sta bene, capisti? –                    “Micuu…” urlò il pastore e giunse un giovinetto rosso e paffuto che non sembrava suo figlio ma lo era. Lo spedì verso il paese di P. per portare la novella. Il reverendo quella mattina era introvabile! Verso mezzogiorno lo videro attraversare la piazza con passo lento e lo informarono.                                                                                   “Madonna del Carmine! San Carlo mio! Bisogna dirlo a Letizia.” Letizia era sua cognata. Quella notte ed altre notti dopo i due cognati si consolarono vicendevolmente. Ma un bel giorno due briganti si presentarono a messa. Dopo le funzioni avvicinarono discretamente il buon prete e gli dissero:                                                                                                 - Stasera ci paghi sennò lo liberiamo stanotte, gratis! –                                                       I briganti ebbero i soldi, Tommaso la libertà; Letizia di nuovo l’odore del montone, e donnantoni ricordi bellissimi.

 

 

Il canto del cigno

 

 

"Non sparate, non sparate che qui ci sono anime innocenti!-

Le gridate di Tobia risuonavano tra i pini di Parsica e tra i castagni vicini al pagliaio. I soldati riposero le armi e si avvicinarono cauti verso l'aia. Tobia col piccolo Francesco in braccio, apparve sull'uscio :                                                                                        " Non ce ne sono qua briganti, non ce ne sono, andatevene."                                               - Tobì- disse  una specie di tenente  - noi ti conosciamo, sappiamo che sei un lavoratore onesto ma si dicono strane cose di te al Sorbo, stai accorto. -                                                      Voltarono le spalle e sparirono tra gli alberi quei militi. Dopo un po' apparve dal nulla come un fantasma un uomo barbuto con un cappellaccio in testa ed un trombone in mano che disse:                                                                                                                         - Tubì, aiu n'obbligazione chi cce vo na palla d'argiangiantu!- Prima di ripiombare nel nulla, con uno sputo sentenziò - Sorvisi, puah!-                                                                 A notte, tra Santa Caterina e Vaccaio, Pietro Bianco ed un manipolo di fedelissimi organizzavano una spedizione punitiva verso una "turra" che alcuni sorbesi avevano al Granaro. Ma la luna era alta e chiara, sarebbe stato pericoloso se quei "volponi" avessero organizzato una trappola. E cosi il capo brigante decise di andare da solo a controllare la situazione, dopo aver raccomandato ai suoi uomini di precederlo verso Pusino : con passo da pantera s'incamminò. Circospetto e attento sfiorava i pini e ascoltava i rumori della notte per poterne cogliere eventuali segni rivelatori. Nulla. Tutto era quieto. Dopo circa un'ora di marcia si fermò e s' arrampicò su un pino gettando lo sguardo avanti, ridiscese, e tornò indietro. All'alba era a Pusino. - Andiamocene di qua - disse- saliamocene. -              Il sole nasceva e lui era muto. Poi " Cresta di gallo" gli chiese notizie sulla sortita al Granaro. - C'erano- disse lui- ma forse non c'entrano i sorbesi.-                                 Intanto erano già sulla cima della Bastarda. Pietro salì sul grande masso che dominava intera la vallata dal fiume Nero al Passante e notò uno stormo di piche volare d'improvviso compatte da un boschetto d'ontani del fondo valle. Dopo un breve conciliabolo, la banda, una quindicina di persone circa, si divise: Pietro Corea di Albi ed altri cinque o sei puntarono dritti verso la colla di Ciricilla, Pietro Bianco ed i restanti indugiavano muovendosi verso i "mangunisi". Ai piedi della collina accesero un fuoco per attirare gli inseguitori e riuscirono a trascinarli tra le fitte trame di quel bosco. Ad essi, abilmente tenuti a distanza, era però ogni tanto lasciata una traccia. Quando giunsero sulla sommità ed il "Cavone" di Mazzaforte già s'intuiva sotto di loro, i briganti si misero ad urlare. I soldati allora pensarono: sono tranquilli li faremo a pezzi e scesero per l'intricata foresta con passo marziale. Poi, temerariamente, si buttarono nella stretta gola ove scorreva un limpido rio. E d'improvviso si scatenò un inferno di fuoco. Da ogni albero pioveva piombo e i soldati cadevano come ceppi, impossibilitati a fuggire. La tenaglia di morte si era stretta attorno a loro senza scampo.                                                                 I cadaveri s'ammucchiarono sui tappeti di foglie a mungere sangue nell'acqua che divenne rossa e ristagnò per giorni, a testimonianza dell'implacabile Pietro Bianco. E a suo ricordo ancor oggi quel luogo è chiamato: "Cavone dei morti".                                             Qualche giorno dopo a dimostrazione della sua invulnerabilità, forse perché sentiva sempre più pesante il respiro della legge per le taglie che gli pesavano addosso, alla testa di una colonna di briganti premeva spavaldamente alle porte di Carlopoli con a fianco una donna che reggeva una bandiera bianca. Gli si fece incontro il parroco, Don Giuseppe Pungitore che lo salutò e lo riverì:                                                                                  - Buon giorno, Don Pietro! " Ma al prete interessava, più delle schermaglie verbali, vedere la coda della colonna. Il brigante lo capì e l'aiutò:                                                        " Fronte a Carlopoli e coda alle "Porticelle", abbiamo capito no? Don Giusè!" E fece il dietro-front assieme a quell'esercito che, se era vero quello che aveva detto, doveva essere lungo almeno due km. Un paio di sere dopo la testa di Pietro Corea di Albi fu trovata appesa ad un palo a Panettieri. Pensando di aver eliminato finalmente il traditore, Pietro Bianco abbassò la guardia ed in quei  giorni fu visto trafficare  tra Castagna e Murachi, preparava qualcosa per vendicare quelli di Castagna, che erano stati presi alla "Cupa" con la minaccia del fuoco, e poi, legati mani e piedi, finiti a bastonate. Era necessaria, quindi una spedizione volta a rinfrescare la memoria a certi "soveritani".    Prese contatti con un suo vecchissimo amico d'infanzia che ora abitava a Colla, al quale, oltre a molti "piaceri", aveva anche salvato la vita. Costui si disse prontissimo ad aiutarlo e a trovargli degli appoggi validi anche a Soveria. Ma la fame fu più forte della gratitudine. Pietro Bianco fu attirato in una trappola e arrestato. Mentre passava davanti  alla casa del traditore vide un bimbo lacero sull'uscio, gli disse:                                           - Bambino mio, compratene adesso pane, mangia e fatti grande, ma non fare mai del bene perché fare bene è gran delitto! -                                                                                    Il giorno dopo Pietro Bianco fu decapitato a Cosenza. Il boia che lo trascinava gli disse: "Come sei geloso di questa testa!" E lui rispose ridendo:                                                     - Ndaiu forzi natra alla cascia? -

 

 

La chiave che ti sa ti apre

 

 

L’inverno infuriava su Carlopoli. Le case ammucchiate sul fondo valle s’opponevano orgogliose alla bufera, tra i castagni scheletrici il vento fischiava senza posa, eppure due ombre salivano verso il convento.

I mantelli pure spruzzati di neve e i cappellacci macchiavano più nero il nero della notte. Davanti alla porta, insonni, Miccio, il Cerino e  Sarro, “monaci di bisaccia” celiavano. Pasquale, detto il cerino, raccontava del suo passato di brigante e ammiccava al nascondiglio del suo tesoro, sepolto “alle manche di Parsica”, prima d’esser preso, prima che la galera lo tenesse per venticinque anni. Ma il racconto aveva l’odore della leggenda, pareva un’invenzione di quella mente oramai avviata verso il sentiero delle nebbie, sebbene nel fisico il monaco conservasse un’apparente integrità. Cesare, detto Miccio, più prosaicamente faceva il conto dei “ pignatelli” che l’indemani avrebbero ripreso, pignatelli pieni di grassi di maiale e magari qualche catena di salsiccia del polmone, o una sorpressata del cularino. E così fu Sarro a notare le due figure in lontananza.

“ Padre Giustino dorme al secondo piano, è  un pò malato chissà chi sono quei due? “ Pensò Miccio. Ma il vecchio leone che dormiva nel cuore di frate Pasquale si svegliò. “Amici, disse, entriamo piano piano. “                                                                      E lentamente il rumore di rami spezzati si faceva più nitido, fino al  tic toc.                  Dallo spioncino del portale il cerino alzò il lume puntandolo sulla faccia dei due:                     - chi siete? -                                                                                                                     - Ci siamo persi conquesto “polverino”, non troviamo più la strada, dateci allogio per la notte, siamo due porcari di Serrastretta, stavamo andando a “Nervo” …                              - Aspettate - rispose Pasquale,  poi rivolto agli amici disse sottovoce :                                 - gente di Serrastretta, non hanno terre nella zona di Mazzaforte, questi devono essere due “ amiconi”, Sarro vai a chiamare i carabinieri. –                                                            E per guadagnare tempo e non disturbare il sonno di padre Giustino, da un po’ di giorni leggermente acciaccato, riaprì lo spioncino e fece altre domande ai due. Poi, quando fu certo di chi si trattasse aprì, fingendo di essere convinto della loro buona fede e dicendo   sibillino: - caro amico, la chiave che ti sa ti apre!-                                                      Appena dentro i due gonfiarono il petto, ma prima che tirassero il coltello Pasquale spense il lume e sgusciò in un angolo. “Monachello vieni qua che ti scanno! “              Miccio intanto aveva “ smaruciato” due zappe “ a forcella”.                                              – Come te ne ho scannato uno al giorno per cinque anni, rispose il vecchio leone che “ ciumava” nel cuore di frate Pasquale. Ma il porcaro insisteva : - con che cosa? Con l’ostia divina ? Ah! AH! AH! – E si muoveva tentoni nel buio .                                             Miccio da un locale adiacente fece a bella posta un rumore. Uno dei porcari si precipitò con furia in quella direzione, ma ricevette sul naso una legnata che lo fece urlare come un maiale castrato. “ Zitto che mi svegli il padre “ intimò il cerino dall’angolo, e l’altro porcaro ebbe un attimo di smarrimento non realizzò subito che ci fossero due monaci, e fu in quell’attimo che sentì il ginocchio alle spalle ed una tenaglia alla gola.                   Miccio accese il lume e porse uno dei “maruci” a Pasquale che subito colpì la mano che ancora impugnava il coltello, mentre fontane di sangue scorrevano dal naso del primo porcaro. E quando la luce divenne più intensa i due monaci bastonarono senza requie i due sfortunati avventurieri. Appena giunto, il brigadiere Ravidà col suo sorriso sardonico e con un carabiniere di primo pelo, disse ai due finti porcari:                                           - non sapete con chi avete a che fare! Venite che state più comodi da noi che qui! – L’indemani di prima mattina i monaci uscirono per recuperare i pignatelli e per il solito giro tra  le campagne. Non fu però possibile quel giorno andare oltre “ Simone” per l’abbondante neve caduta nella notte e cosi ritornarono presto al convento.                  Padre Giustino li attendeva nel refettorio.                                                                           – Stamattina è venuto a farmi visita il brigadiere Ravidà , mi ha raccontato di ieri sera, è stata un’imprudenza aprire la porta a due sconosciuti –                                                      E così Sarro: “ma sembravano così docili, due pellegrini in balia della tempesta. “              - Sia ringraziato iddio! Com’è andata la raccolta? –                                                            - Non male se si tiene conto del tempo - rispose Pasquale - non siamo passati neppure dai Pogliani. “ E Miccio:                                                                                                    ” Ho saputo che hanno allevato bei porci quest’anno, e loro sono molto religiosi… “          – Va bene, va bene - interruppe Giustino – io vado a letto, riscaldatemi una “ frittola” e portatemela di sopra, Pax Crhisti. – Amen. -   

 

 

L’ultimo brigante

 

 

Quattro carabinieri ed un maresciallo dall’alto di un colle puntavano i fucili verso il basso. Acquattato dietro un cespuglio tratteneva il respiro un vecchio brigante ferito.                     – Sporco figlio di puttana dove sei? Vieni fuori, non c’è più nessuno che ti può aiutare, sei finito!- I giovani carabinieri tremavano, mentre il loro comandante urlava a squarciagola. Ma  il brigante ferito si trascinò nel bosco fidando nel suo abbraccio come in quello di una madre. I militari spararono per un po’ alla cieca, poi il maresciallo, guardando in faccia i suoi uomini, disse:                                                                                                 - Stronzo, prima o dopo ti prenderò: Finiamola ragazzi, andiamocene. – Fu allora che qualcuno nel bosco sollevò il brigante e lo adagiò sulla groppa di un asino che cominciò ad andare. Sentiva solo il sordo rumore degli zoccoli dell’animale che ad ogni passo lo scuotevano, con occhi semichiusi e capo penzoloni scorgeva la polvere che s’alzava, provò a sollevare la testa ma gli alberi d’intorno parevano roteare e non capì più nulla. Dentro un vecchio pagliaio, nelle inaccessibili foreste della Sila, il brigante sudava freddo, circondato da un pastore e dalla sua famiglia, mentre un odore caprino giungeva attraverso le feritoie di quel fatiscente ricettacolo. Di quando in quando si udivano acute grida di bambini e belari di pecore. Passarono giorni e giorni, notti lunghe e quiete, il brigante lentamente apriva gli occhi e muoveva la bocca. Poi cominciò a parlare, dapprima balbettando, finchè chiare uscirono le parole. Il latte di capra aveva fatto il miracolo. Quando per la prima volta s’affacciò sull’uscio il sole gli violentò gli occhi, ma appoggiandosi ad un bastone riuscì a varcare la soglia e a sentire la brezza sul viso. Adagio si sedette su una panca voltando le spalle al sole e iniziò a guardarsi intorno.

Gli stazzi erano vuoti, solo grugniti suini rompevano un silenzio ineffabile.

Poco lontano un maiale incatenato  ad una giovane quercia si dimenava attratto da ciuffi d’erba che non poteva raggiungere. Lo osservò, poi distolse lo sguardo con una smorfia. Dopo un po’ però si alzò, a fatica, e si diresse verso l’animale, lo slegò per condurlo sul prato, ma il furore della bestia lo sbattè a terra. A stento si rialzò, mentre il maiale ormai acquietato strappava con bramosia ogni forma d’erba. Fu facile allora legare il suino, preso com’era ad abboffarsi, ad un grosso faggio che era lì vicino.

 Il brigante tornò a sedersi esausto sulla panca e ascoltò il rumore dei denti dell’animale che producevano uno strano ticchettio. Ed ecco un abbaiar di cani annunciare il venire di una ragazza con un “varrile” d’acqua sulla testa ed una “vumbula” in mano.

I cani gli si avvicinarono guaendo e si stropicciarono contro le sue gambe, egli li accarezzò. Una vecchia danna intanto urlava da lontano e la ragazza mormorò qualcosa, offrì da bere a colui che stava seduto, gli porse la brocca e s’allontanò di alcuni metri, come per un rispetto o un timore. Il brigante bevve e posò indifferente la brocca a terra. Intanto la donna era giunta nei pressi ed incitò la giovane ad entrare. Dopo essersi passata una mano sulla fronte per cancellare fatica e sudore, ella si diresse dove credeva fosse il maiale. Non vedendolo cominciò a guardarsi attorno preoccupata, appena lo scorse gettò un’occhiata al brigante, che intanto se la rideva.

La donna restò seria e strattonò con ardore l’animale trascinandolo quasi di peso dentro un recinto. Il brigante non rideva più.

Ancora il sole era alto nel cielo, ma l’aria cominciava a diventare fresca. Dalle alture lontane si udivano scampanelìi di capre e sulle dorsali spoglie si scorgevano greggi al pascolo come scomposte macchie in movimento. La ragazza uscì e si mise a raccogliere legna senza degnare d’uno sguardo l’uomo seduto, che invece la seguiva costantemente con una malinconia negli occhi. La madre intanto disponeva grosse pietre su un piccolo spiazzo di terra battuta. Dopo un po’ fu acceso un fuoco, sulle pietre fu posata una grande pentola nera piena d’acqua. Il brigante s’alzò appoggiandosi al bastone e volle aiutare le due donne spingendo i tizzoni ormai rossi sotto la pentola, ma nel far ciò rischiò di cadere: la vecchia donna lo sorresse e lo condusse, prendendolo per un fianco, dentro il pagliaio, la ragazza si scansò per far passare i due e abbassò gli occhi.

L’acqua intanto cominciava a bollire e quando la legna diventò brace, la donna vi pose sopra delle patate. Ma il brigante riapparve sull’uscio e si diresse di nuovo verso la panca. La donna, vecchia di viso, segnata di rughe, colorata di grinta, mise i pugni sui fianchi e seguì con occhio ironico l’andare lento e traballante dell’uomo, il quale, accortosi di ciò, si fermò e volse la testa verso di lei dicendo con voce rauca:                                               - Io sono un brigante! –                                                                                                    E lei: “tu eri, un brigante!” La ragazza scoppiò in una risata e fuggì verso la pianura.        Il brigante, ora seduto, brandiva nell’aria con apparente vigore il bastone lanciando brevi grida, come per scacciare un fantasma o per esorcizzare un dolore. Il sole, che s’andava dipingendo di rosso, parve allora scagliare i suoi ultimi raggi: sembrarono i più caldi. Un tepore s’impadronì del brigante e si sentì di colpo un uomo mite, indifeso, bisognoso di pace.                                                                                                                        Discendeva intanto dal colle un abbaiare allegro di cani dal pelo bianco che spingevano il gregge verso gli olivi. Un fischiare secco annunciava l’arrivo degli uomini. Un cappello a falde cadenti, nero e disfatto, un volto scavato, macilento, che appena si riconosceva sotto la ispida barba, occhi scuri e gonfi, labbra sottili, una figura curva: fratello, sei proprio tu? Poi due bambini, il primo con un bastone lucido impugnato come un moschetto, lo sguardo ardente, vivace e felino; il secondo, più piccolo, sporco nel viso e nei capelli, con le mani nascoste dentro le maniche della giacca  troppo grande per lui, sfinito.                 Un abbraccio, cento abbracci, nessuna parola.                                                                  E in silenzio si mangia.                                                                                                 Ma il ragazzo osserva con una luce negli occhi quello strano “zio”, gli chiede quanti soldati ha ucciso, come si vive da soli, ma il padre lo zittisce, ma lui insiste. Intanto il piccolo chiudeva gli occhi sulle ginocchia della madre, che con la rudiva mano gli carezzava i capelli. Poi d’un tratto si risvegliò, si guardò intorno muto e sofferente e si andò a gettare sul pagliericcio rannicchiandosi nell’enorme giacca, mentre i calzoni gli si accorciavano sulla gamba scoprendo il candore delicato della sua carne. Dopo un po’ la sorella lo coprì con uno scampolo colorato e, datagli una carezza fugace sulla tempia, tornò al desco. Il brigante si convinse a parlare, con voce stanca disse d’aver ucciso  molti soldati, ed anche qualche carabiniere dopo che avevano cambiato i colori delle divise, dopo che Garibaldi se n’era andato ed era venuto quell’altro re.                           Disse di aver conosciuto molti uomini prepotenti, anche briganti pagati dai baroni e briganti pagati dai soldati del vecchio re di Napoli. Ma anche questi sarebbero stati fucilati, perché, disse                                                                                                    – Chi volete che li difenda? I loro padroni saranno i loro carnefici! Una volta, ma ero molto giovane e molto forte, da solo, avevo appostato in una stretta gola tra il Gariglione e la Politrea un plotone di soldati borbonici che da un po’ di tempo seguiva le piste di certi “cugini” di Petilia; al loro passaggio mi misi a sparare col vecchio trombone: li vedevo cadere ad uno ad uno come stupidi. “Sette carrate” di soldati ammucchiati come “sarme” di legna. Un’altra volta, ma questo fu diverso tempo dopo, mentre salivo verso la “colla degli zingari”, in mezzo ad un boschetto di cerri vidi un uomo seduto su una pietra che piangeva, ai suoi piedi un morto. Lo riconobbi, era un brav’uomo che non aveva mai fatto male a nessuno. – E tu che fai qui? Chi è questo? Un tuo parente? – gli chiesi.           E lui singhiozzando: - No! Nemmeno lo conosco! Ero qui che passavo quando ho visto “il cicalese” che trascinava il cadavere. Allora mi ha minacciato                                            “O mi guardi il morto o ammazzo pure te!” Così mi disse… - Da che parte è andato? Gli chiesi. Dopo avergli suggerito di tornarsene a casa, allungai il passo e sull’erta di “Carbonello” raggiunsi l’infame.                                                                            “Attìe!” gli gridai, vieni qua!                                                                                               E lui: “ Che c’è, che c’è Pasquà, che ti ho fatto?”                                                                  - A me non puoi fare niente! Ma i morti tuoi fatteli guardare dai paesani tuoi, non dai miei!-                                                                                                                        “Il cicalese” allora capì quello che volevo dire e tornò di corsa indietro a seppellirsi il suo morto! – Il ragazzo sorrise e si fregò le mani.                                                            Il padre lo guardò serio ed egli abbassò gli occhi. La donna fece il segno della Croce e si alzò alla luce instabile della fiamma della “deda” che proiettava ombre incerte e sfumate. Si diresse verso una parete da dove, frugando tra la paglia, trasse una piccola croce di legno, nera di fumo ma liscia, dai contorni precisi, e si mise a spolverarla. Il brigante dapprima aveva riso al gesto della donna, poi, come d’un lampo, gli passarono davanti mille cadaveri, uomini con la gola squarciata, vide fiumi di sangue. Poi disse d’essere stanco e tutti se ne andarono a dormire.                                                                          Non riposò quella notte il vecchio brigante. Ricordò lo scoppiare liberatorio della rabbia in un rovente giorno d’estate quando fece ingoiare la frusta ad un uomo a cavallo e spaccò la testa ai suoi tirapiedi. Ricordò la fuga, la stanchezza e il sangue che gli bolliva ogni volta che di nascosto tornava a casa e trovava nuovi dolori, nuove e sempre antiche prepotenze. Era giusto ribellarsi!                                                                    Quanto tempo era passato! Ed ora non poteva più difendersi come una volta; era vecchio, stanco, braccato, stavolta l’avrebbero preso, l’avrebbero fucilato. Pensò per un momento di restare dov’era e di continuare a nascondersi, pensò di voler morire dolcemente in quel pagliaio e di esser sepolto sotto la giovane quercia del maiale. Ma gli occhi esausti di quei bambini gli piombarono come un allarme nella mente, gli cancellarono quella pericolosa idea. Pensò dunque di andarsene al più presto. Ma dove? Aveva una terribile paura d’esser preso: “devo salvarmi” si ripeteva. Provò a cercare il sonno, ma trovava solo corpi distesi sanguinanti sulla terra. “Ma ne ho ucciso innocenti?” Pensò all’improvviso. E parve scorrere ad uno ad uno col  pensiero i suoi morti, ma perdeva il conto.                  E rivide gli occhi appassiti di sua cognata riaccendersi nel gesto dolce della carezza al bambino, e rivide quel volto ombroso mutarsi nella luce con quella croce in mano. Sentiva d’aver paura. Ma di che cosa? Non lo capiva. “Io devo salvarmi!” Erano queste le parole che gli percorrevano ogni fibra della testa. E rivide la vecchia madre col rosario tra le dita  muovere in silenzio le labbra mentre la morte la coglieva lieta. E intanto fuori nasceva il giorno: il brigante aprì gli occhi quasi come una liberazione.                                            “A mungere! A mungere!” gridò il bambino più piccolo, denso di nuova energia, proiettato già nell’avventura che lo avrebbe sfinito. L’acqua fredda sulla faccia violenta i pensieri, ne sfronda gli aspetti onirici e li ridà nudi. A mattino inoltrato il brigante è solo nel pagliaio. Fuori una luce diversa avvolge le cose. Esce: si fa bersaglio ai raggi del sole. Guarda tutt’intorno la campagna e rientra. Raccoglie duro pane in una bisaccia, infila una vecchia pelle di montone e parte. Senza armi. Solo gli occhi sfondano il bosco. Di lui i carabinieri non seppero più nulla, non ricordarono neppure se fosse mai esistito.      Quando Briganti non ce ne furono più, quando la legge sovrastò le campagne e sparò lontano le anime di quella terra, in un giorno rovente d’estate suonarono le campane a morto in un convento di cappuccini. La gente, ancor illusa, con ultimo barlume di leggenda tra le dita disse quasi bisbigliando che l’ultimo brigante era salito al cielo. 

 

 

LA DOLCE MORTE

 

 

Il ritorno

 

Jose si fece lasciare dal taxi a poco meno di un chilometro dal paese, senza valigie, solo una borsa: "Che importa, pensava, coi soldi che ho, coi dollari, potrò comprare quello che mi serve." Quello che gli serviva adesso era camminare su quella strada sognata per quaranta lunghi anni tra il "gersei" e "manàttanna". Ogni mattino al risveglio apriva gli occhi e vedeva quelle colline, sentiva il profumo dei castagni in fiore e delle falci, ma non poteva toccarli, ora può.

 Può pungersi le dita ai roveti degli argini e spezzare l'origano che si protende sulla strada, farne mazzetti mentre le lacrime gli rigano la faccia: può alzare lo sguardo al cielo per fermarle sulle gote, è lo stesso sole di un tempo, quel sole che bruciava la polvere e l'anima, la schiena magra di un ragazzino saltellante dietro alle pecore, ma stamattina solo riscalda. "Ma il paese è lì, dietro quegli alberi, dietro la curva."

Dietro la curva un rumore nuovo e antico: lo sgocciolio dell'acqua di grotta che scaturisce dalla terra e si perde nel fittio erboso come un orologio nel grande silenzio. E le sue mani si tuffano e tornano sul viso a dissetarlo: una volta, cento volte. "Stavolta dietro la curva c'è il paese. "

Dietro la curva le assi sfatte di una vecchia baracca ricamata dall'edera al bordo superiore della strada e una palizzata a terra. Gli occhi frugano al di là dell'uscio sfondato: è tutto nero. "E' quella la curva."

Dietro la curva un ciliegio rinsecchito e sul rettifilo cornici di cemento armato schiacciano esili tigli, ed un cartello: Castagna! C'è un po' di vento: le case sono allineate come sempre e veloce una vecchia attraversa la strada e sparisce nell'orto. Deserto.

 "Non mi ha visto. Sono quasi le otto, dormono tutti, a "nuovaiorca" a quest'ora..." E cammina tra le ali di case dalle finestre serrate, si ferma sul muretto e si guarda intorno:     " Case nuove, strade lisce, macchine, ma non c'è nessuno. In un attimo si getta nel pendio del paese tra i vicoli scoscesi e ritrova il sorriso. Qualche muro nuovo tra ruderi di creta, qualche orto accerchiato da quel brutto cemento e silenzio. Solo i canti dei boschi vicini. Comincia a far caldo: ficca la giacca nel borsone e continua ad esplorare. La sua camicia larga e variopinta colora il grigio delle strade. Balconi cadenti, arrugginiti, si alternano al fresco cemento delle case accanto.

Ora Jose è stanco, siede trascinando la borsa sul muretto della piazza davanti alla chiesa: identica, se non fosse per quei manifesti incollati se non fosse per quelle parole incomprensibili disegnate sul muro. Poi quasi a violentargli il pensiero, la grande porta corazzata cigola e si spalanca: un omino esile, calvo, claudicante, che si sorregge a malapena ad un bastone appare  e scompare. Jose si asciuga la fronte, è la seconda persona che vede: paion fantasmi! E dopo un po' un suono ultraterreno avvolge l'aria: campane. Campane! Una parola dimenticata: campane emozioni inenarrabili lo afferrano, lo scuotono, lo stringono. E' immoto a fissare il cielo. Nell'aria rimane l'eco come una vibrazione del tempo e Jose sale i cinque gradini a varcare quella porta. Ma cos'è quel tavolo messo in mezzo con quella coperta sopra che non si vede il Tabernacolo? E l'organo? Dov'è l'organo? Ma la Madonna di Corazzo è lì. Il medaglione incastrato nel muro è troppo alto per toccarlo, ma sente un desiderio fortissimo di farlo. Trascina un banco e vi sale, tende la mano tremante e sfiora il sacro marmo. E' felice.

 Poi cigola la porta ed entrano due donne che lo guardano e si dicono qualcosa, lui le osserva ma non ne scorge i visi, fa per uscire, si ferma un attimo vicino all'acquasantiera e vede le due donne girarsi e sorridere. Dalla porta  della sacrestia riappare quella figura minuta, delicata come i visi dei santi di cera, sembra appartenere ai muri, alle colonne, sembra caduta dalle decorazioni del pulpito. Si guardano come cercassero ognuno se stesso nell'altro. Si gira per andarsene e scorge il Cristo seduto su una pietra che osserva l'aurora stampato su un quadro appeso sopra la porta. E' fuori.

 Incrocia altre donne che lo guardano e ridono. Sale per l'erta e comincia a sentire i primi rumori dalle case, dalle strade intorno. Un rombo di macchina s'avvicina e lo sorpassa con un urlo: - Cazzune  mericanuuu! - Lui saluta con la mano alzata: by by. 

Poi finalmente si decide a dirigersi verso la sua vecchia casa, la casa dov'è nato: l' ha lasciata per ultima, come l'estremo approdo. Bassa, dalle finestre sbarrate, scolorita, il portone raschiato dal tempo. Non c'è nessuno. Cade seduto sul gradino sfinito, la testa gli piomba nelle mani. Ed ecco una donna vestita nera, capelli bianchi raccolti alla nuca  che s'avvicina e gli si ferma di fronte. Per un po' egli non la vede, poi alza la testa e la guarda: è già in piedi e già s'abbracciano. E' caldo e dolce il latte, amare e calde le lacrime.

 Non c'è più nessuno, i suoi fratelli morti, i loro figli impaludati nelle risaie padane, la casa è sola. Ma Rosa ha la chiave. L' ha voluta dai giovani andati via dopo la sepoltura dell'utimo fratello di Jose. Rosa è una lontana cugina. Ogni tanto apriva quella porta e dava una spazzata, affogata nella polvere acre che s'alzava ad ogni colpo di ramazza, d'inverno accendeva addirittura il fuoco. Le piaceva pensare che i figli di Jose un giorno sarebbero tornati. Non sapeva che Jose non aveva avuto figli. La moglie, un' abbruzzese dalla profonda bellezza contadina, era salita al cielo l'anno prima e lui aveva deciso che finalmente era venuta l'ora del ritorno: morire dove era nato!

Ed ecco che la porta si apre, Jose la spinge piano ed entra: il focolare è pulito, Rosa spalanca le finestre ed il sole da vita ad una vecchia foto appesa al muro: due visi cerei stampati e ritoccati da abili fotografi sembrano emergere dalle profondità del tempo: i suoi genitori. Egli li sfiora con l'indice ma non indugia, apre la porta interna: una sedia appoggiata al muro attende...                                                                                         Vai Rosa, lasciami un po' qui. - Se si potesse dare ordine ai pensieri! Se si potessero raggrumare in una goccia sola tutte le lacrime del tempo! La vecchia credenza coi vetri opachi appare quasi all'improvviso, apparteneva così tanto a quella stanza da esserne quasi assorbita, non si era accorto della sua presenza. Dentro era vuota, odorava di castagno e di anni, odorava di un grande silenzio.                                                           A mezzogiorno Jose pranzò a casa di Rosa. Suo marito aveva la faccia color della terra, suo figlio capelli lunghi e sguardo basso. Poi un grido acuto trapanò la finestra socchiusa: " Chi se jetta banduuu...” Volò sulla porta e vide il vecchio della chiesa con una mano aperta sulla guancia ed una appoggiata sul bastone che continuava ad urlare. Rientrò. Aveva capito, aveva ricordato. In paese c'era qualche venditore ambulante e quella era la maniera più efficace per farlo sapere. Nel pomeriggio Jose, dopo una buona dormita, decise una singolare esplorazione: camminare lungo tutto il perimetro esterno del paese, sfiorando le case e la campagna e, come l'ultima meta, la fresca sorgente.                   Erano i luoghi della sua infanzia, dove s'avventurava per voglia di fuggire, ma dove si fermava per paura dell'ignoto: al confine.                                                                            E il confine, da un lato, erano i muraglioni di pietra, dall'altro orti di fichi neri e querce monumentali aggredite da erbe alte e pungenti, rosai selvatici. In quegli orti vede ancora capre solitarie irte ai pruni e pagliai abbandonati, qualche amarena sul precipizio. Giù in fondo il "cavone", ma non vi discende, sfiora i muri delle ultime case. Dopo un po', dopo uno zig-zag dell'abitato muta il terreno, muta il colore dell'erba, ecco l'oro del grano che dondola alla brezza.                                                                                              Una via ed ai bordi rosse ciliegie come colpi al cielo.                                                       Ma è stanco, Jose, si ferma e si siede su una grossa pietra ai margini della via.              Sotto la via finalmente la fontana sognata: - Voglio bere la mia acqua - e bevendo gli sfugge l'anima.

 

 

 

                                                                                            Salvatore Piccoli

 

Home ] menu.htm ]